🌞Blog che parla del Friuli: in particolare delle minoranze linguistiche slovena,friulana e tedesca e non solo. ❤️ Sono figlia di madre slovena (Ljubljana) e di padre appartenente alla minoranza slovena della provincia di Udine🌞 (Benecia).Conosco abbastanza bene la lingua slovena.Sono orgogliosa delle mie origini.OLga
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INNO SLOVENO
"Vivano tutti i popoli
che anelano al giorno
in cui la discordia
verrà sradicata dal mondo
ed in cui ogni nostro connazionale
sarà libero,
ed in cui il vicino non sarà un diavolo, ma un amico!"❤️ FRANCE PREŠEREN poeta sloveno
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Le campane suonavano fino alle 15.00 del Venerdì santo,poi tacevano ed erano sostituite da strumenti rumorosi (gragiula).Il Venerdì santo di sera si faceva la processione ed i ragazzi facevano rumori con le gragiule per spaventare gli spiriti maligni affinchè non venissero a danneggiare i campi appena seminati.
VELIKA NUOČ - PASQUA
Durante la settimana Santa in tutte le case si facevano grandi pulizie.Il giorno di Pasqua nella Terska dolina un tempo si usava portare in chiesa a benedire il pane,la paača e le uova sode.Il tutto veniva messo in un cestino che veniva aperto nel momento della benedizione.Questa tradizione è ancora in uso in qualche paese,oggi si porta a benedire la colomba. Le uova venivano fatte rassodare nell'acqua nella quale c'erano foglie di noce per acquistare un bel color marron chiaro. La paača è una focaccia fatta con farina di mais cotta sotto la brace,latte,castagne,burro, al centro veniva inserito un uovo sodo. Il giorno di Pasqua era una grande festa e quindi si mangiava meglio degli altri giorni: si cucinava il brodo di gallina.Erano paesi dove regnava la miseria e quindi i cibi erano molto semplici.La giornata veniva passata in famiglia e gli uomini non andavano in osteria a giocare a carte. Il lunedì di Pasqua (Velik Pondijak) era usanza andare a mangiare le uova sul prato, la proprietaria del terreno veniva a gridare perchè l'erba veniva calpestata.
Si usciva di casa prima che facesse buio. Il tempo più propizio era quello della domenica, dopo la funzione del mattino. I protagonisti non potevano che essere i bambini. La ricerca del muschio aveva in sé qualcosa di epico e di misterioso. I boschi e le fratte che circondavano i campi, ormai intirizziti dal gelo, rappresentavano una riserva inesauribile di tutto quello che poteva servire a mettere insieme il Presepe, la cui tradizione francescana compie in questi giorni i suoi ottocento anni di vita. Qualcuno se ne sarà ricordato? La casa contadina non poteva prepararsi meglio durante le settimane dell’Avvento, se non ricostruendo un piccolo microcosmo a sua immagine e somiglianza in cui raccontare il prodigio della nascita di un dio fattosi uomo dentro alla cornice consueta e povera della propria quotidianità, con le sue pecore e le sue galline, le vacche e i profili delle piccole case dal tetto di legno, lo stagno e la stalla, il lavoro dei pastori e dei contadini, l’anima umile e operosa delle botteghe. “Gjesubambin”, pronunciato così, come se fosse una parola sola, un’entità prodigiosa e incantata, incarnava, al di là di ogni interpretazione liturgica e teologica, il senso dell’attesa così connaturato alla civiltà contadina da rappresentarne l’anima stessa, quella più sacrale e profonda, precristiana, intimamente pagana, e dunque campagnola, perché proprio questo vuole dire il termine “pagano”. L’attesa della luce, il lento giro dell’anno, la danza delle stagioni, il rinnovamento del tempo. Le bande di ragazzini sguinzagliati ben oltre il portone del cortile rientravano dopo qualche ora. Ciascuno di loro aveva il suo posto segreto, gelosamente custodito, al quale attingere quel tappeto profumato e verde che avrebbe accolto le rozze statuine di gesso. Nel sacco ci stava anca qualche corteccia, radici contorte e rami di pungitopo, che sotto la guida sapiente dei più grandi avrebbero regalato un lampo di vero al teatro della natività. Per allestire il tutto bisognava che fossero già passati gli spiriti prodigiosi che introducevano il tempo del Natale: San Nicolò o Sante Lussie (Santa Lucia) a seconda della geografia e della tradizione. Ad opera compiuta bisognava tenere a bada i piccolini, che difficilmente resistevano alla tentazione di giocare con i protagonisti, sfalsando equilibri e prospettive. Gjesubambin era l’unica statuina ad essere esclusa dalla scena. Va da sé, l’avrebbe presa tutta solo alla fine. Quando finalmente il tempo dell’attesa si sarebbe compiuto.
da Vita nei campi Angelo Floramo
dal web
La nascita del presepe
Il primo ad istituire il presepe fu, infatti, San Francesco d’Assisi nel 1233: desideroso di celebrare al meglio la nascita di Gesù, decise di raffigurarla con una rappresentazione dal vivo, utilizzando attori e canti.
L’idea del santo fu talmente ben accolta che, fra il 1290 ed il 1292, Arnolfo di Cambio, artista toscano, scolpì un presepe a tutto tondo, cosa che spinse molti altri scultori a cimentarsi in opere simili.
Era il 2007 e Giorgio Ferigo mi aveva parlato dei crasoladôrs di Enemonç, dei ragazzi dai dieci ai quindici anni che nei tre giorni un cui le campane non posso suonare, percorrono il loro paese con le raganelle/crasulas e batecui girando furiosamente la manovella per produrre il rumore degli inferi e con quello segnare i tempi religiosi. Rappresentavano l'ultimo lascito delle antiche organizzazioni segrete maschili un tempo diffuse in tutta Europa. Quello che doveva essere solo un contributo visuale e della. scrittura poi è diventato un libro/DVD e il documentario ha poi preso due premi al Festival del Cinema friulano.
La Val Canale,Kanalska dolinain sloveno, si estende per una ventina chilometri nell’estremo nordest del Friuli Venezia Giulia. Vista la sua posizione, è stata da secoli uno snodo tra Europa mediterranea e centrale, ma soprattutto un crocevia tra popoli slavi, germanici e latini. La valle è appartenuta per secoli al Ducato di Carinzia e una parte al Ducato di Carniola (sotto l’Impero d’Austria), diventando territorio italiano solo con il Trattato di Saint-Germain del 1919.
A causa delle alterne vicende storiche e politiche, la popolazione locale di lingua slovena (oggi tutelata dalla legge dello Stato italiano 482/99 in materia di minoranze linguistiche) non ha avuto vita facile, soprattutto per quanto riguarda la tutela e la conservazione del proprio patrimonio culturale e linguistico. Ma nonostante ciò, ancora oggi è vivo il dialetto locale sloveno chiamato “ziljsko narečje”, e la comunità continua a mantenere antiche usanze tramandate di generazione in generazione. La vita culturale della comunità è scandita da feste tradizionali che si svolgono nel periodo natalizio, ma soprattutto in estate. Tra le più sentite è la festa chiamata “žegen”.
Il delizioso borgo di Camporosso/Žabnice in Val Canale.
Debutto in società
In un altro articolo vi avevamo parlato dello “žegen” che si svolge nel paese di Ugovizza – Ukve nella seconda metà di luglio. Oggi invece vi vogliamo raccontare di un altro “žegen”, che viene celebrato a Camporosso (Žabnice in sloveno) a inizio settembre, in occasione della ricorrenza di Sant’Egidio (Svet Ilen nel dialetto sloveno locale). Anche in questo caso i protagonisti della festa sono i ragazzi e le ragazze che compiono 18 anni – una sorta di debutto in società, eco di antichi riti di iniziazione che segnavano l’accoglimento dei giovani nella comunità come membri attivi.
I 4 neodiciottenni del 2021, pronti all’ingresso in società.
Un tempo questo rito coincideva con la chiamata al servizio militare, ed era quindi riservato solo ai maschi. Ma i tempi moderni, con il calo demografico e l’emigrazione, hanno portato a un cambiamento radicale da questo punto di vista. La “konta”, come viene chiamato il gruppetto di giovani debuttanti vestiti con abiti tradizionali che sfilano allo “žegen”, è oggi composta sia da ragazzi che da ragazze.
Una volta il giorno di Capodanno in Val Torre i bambini andavano di casa in casa per ricevere il "koledo".Questo era una "mancia" che consisteva in noci,nocciole,castagne,mele,solo più tardi caramelle ,uova o qualche monetina.
Questa usanza la troviamo anche a Resia, in Val Natisone, in Slovenia e in altri paesi di origine slovena.In Val Torre i bambini cantavano una filastrocca:
"koledo novo ljeto,Buoh nan dejte no dorò lieto".
koledniki di M.Gaspari (pittore sloveno)
Koledniki:i ragazzi che andavano il giorno di Capodanno a chiedere la "mancia"
Anche la Slavia si sta preparando a festeggiare la fine dell’anno vecchio e l’arrivo del 2022.. Una delle tradizioni più antiche è la «koleda», la questua del periodo natalizio conosciuta in Slovenia e in tutto il mondo slavo. Un tempo il rito si svolgeva in tutti i paesi. Ora nelle Valli del Natisone è restato a Cicigolis di Pulfero, dove nell’ultima sera dell’anno gli uomini del paese, portando una stella, intonando canti tradizionali, effettuano una questua di casa in casa. Al mattino (dalle 9.30) si svolge, invece, la koleda dei bambini. A Lusevera, nell’Alta val Torre, i bambini raccolgono la «Koleda» l’1 gennaio, mentre a Ugovizza, in Valcanale, lo fanno il 6 gennaio, nella solennità dell’Epifania. Il Capodanno sarà atteso nelle valli slovene del Friuli con veglioni nelle abitazioni e nei locali pubblici. Ormai è tradizione che gli appassionati della montagna si ritrovino a farsi gli auguri in vetta al Matajur. I membri della Planinska družina Benečije facevano il veglione nel loro rifugio «Dom na Matajure», mentre quelli della sottosezione Cai «Valnatisone» salivano dal paese di Montemaggiore.
Ora con la pandemia molte manifestazioni sono state annullate,
cartolina del famoso pittore sloveno Maksim Gaspari
Una persona anziana mi ha raccontato come si festeggiava una volta il Natale e le altre feste a casa sua. La sua mamma era molto impegnata nella stalla, tanti figli e parenti ai quali pensare.Quello che ha impresso chiaramente sono tutte le messe alle quali doveva partecipare,anche a fare il chierichetto.Il giorno di Natale /Božič sul spolert c'era sempre il brodo di gallina ,la mamma apriva qualche vaso di verdure messe sotto aceto,preparava la "paača" un pane di mais cotto sotto alla cenere e i grandi bevevano un bicchiere di vino nero "american".Sua sorella, che era la maggiore, se il papà portava dal bosco un abete/brina o qualche pianta di ginepro lo addobbava con mele,caramelle,biscotti,mandarini,ma non durava integro fino a Natale.Non c'era usanza di fare regali ai bambini,al massimo noci-kulini ,nocciole-liešniki.
Dan bot po majši polnočni ,smo jedli tripe bokinove ali od ovce tou kropu za se ogrieti,ker tou cjerkui ni bluo horkuo. Un tempo,dopo la messa di mezzanotte,si mangiava le trippe di manzo o di pecora in brodo per scaldarsi,perchè in chiesa faceva freddo. Le trippe (mulice) di nonna Maria Ingredienti: 500 gr di trippe,sajin(strutto)1 cipolla (čebula),1 strok di luk (spicchio di aglio),1 carota (koranj),sedano,formaggio vecchio grattugiato,brodo (krop),sale e pepe. Preparazione: lessare le trippe per 4 ore se di manzo,tagliarle a listarelle,preparare un soffritto con strutto, cipolla,sedano e carota tagliata a pezzettini e l'aglio.Soffriggere le trippe mescolandole accuratamente per circa 10 minuti,aggiungere il brodo e far bollire a fuoco lento fino a completa cottura di tutti gli ingredienti,alla fine aggiungere il formaggio grattugiato.
trippe
La paača di nonna Maria La paača è un cibo povero della Terska dolina ormai dimenticato e si cucinava sotto la brace.Era dolce o salato e poteva avere anche un ripieno a seconda della stagione. Per Natale lo si faceva dolce col ripieno di noci(kulini),nocciole (liešniki) e castagne (kostanji). Ricetta Fare un impasto con 400 gr di farina di mais e di frumento,miele o zucchero,burro o strutto,latte tiepido o panna (smetana) ,2 uova,sale e lievito. Fare una sfoglia di 4sottile,mettere il ripieno di noci o nocciole o castagne lessate tritate,1 uovo,grappa e zucchero.Arrotolare come un salsicciotto e spennellarlo con l'uovo sbattuto. Nonna Maria quando lo cucinava sotto alla brace lo avvolgeva nelle foglie di castagno. Infornare a 190° e cuocere per 50 minuti. E' ottima per colazione.
Per Natale tiravano il collo a una vecchia gallina e facevano il brodo.La carne si mangiava raramente,solo per le feste religiose, per la sagra e per le partorienti. Le verdure erano le solite invernali,patate,fagioli,rape,carote e verze. I bambini mangiavano noci,nocciole,castagne secche e mele,chi aveva soldi comprava mandarini.
Non solo Halloween:tradizioni slovene per Ognissanti
Verso la fine di ottobre fanno la loro comparsa un po’ ovunque zucche, fantasmini, streghette e altri mostriciattoli, a ricordarci che sta arrivando Halloween. Oggi è una festa ormai diffusissima, importata come tante altre mode dagli Stati Uniti, di cui è evidente soprattutto il lato consumistico, oscurandone i significati originari che ne stanno alla base.
Eppure, qualche decennio fa, quando ero bambina io, di Halloween non si sentiva parlare. Ma tra il 31 ottobre e il primo novembre, con mia nonna, nata nel 1899, intagliavamo zucche per metterci dentro una candela e facevamo anche altre cose. Che cos’era? Un Halloween ante litteram o forse qualcos’altro, di cui oggi, purtroppo si sono perse le tracce?
Dai celti a papa Gregorio IV
La parola Halloween deriverebbe, secondo un’interpretazione, dallo scozzese “All Hallows’ Eve”, ossia “vigilia di tutti gli spiriti sacri”. La festività avrebbe le sue origini nella festa celtica di Samhain, che si svolgeva tra il 31 ottobre e il 1 novembre, data di passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo, secondo il calendario celtico. Come accadde anche per altre ricorrenze, la Chiesa sovrappose alla festività pagana un’altra, cristiana, dedicata al culto di tutti i santi. In realtà, tale festività cristiana esisteva già, ma veniva celebrata in date diverse nei diversi Paesi. Nell’anno 827 papa Gregorio IV istituì ufficialmente la festa di Ognissanti, per celebrare tutti quei santi che, troppo numerosi, “non trovavano posto” negli altri giorni dell’anno, già occupati da santi più “celebri”.
L’origine esatta della festività pagana è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi, tuttavia un aspetto è abbastanza evidente: gli spiriti che secondo la tradizione animistica pagana vagano nelle lunghe notti di novembre sono diventati nella tradizione cristiana le anime dei defunti nel Purgatorio che hanno bisogno delle preghiere e dei sacrifici dei viventi per liberarsi e raggiungere il Paradiso.
Le zucche di Vahti
Ma torniamo a mia nonna. Come dicevo, per Ognissanti, “Vsi sveti” in sloveno, intagliavamo assieme una zucca e ci mettevamo dentro una candela. Ma non per scopi decorativi: serviva per far luce alle anime del Purgatorio. Lo stesso scopo aveva una candela a olio, che mia nonna comprava appositamente solo per questa festività, e che doveva rimanere accesa per tutta la notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre. Nel dialetto della regione Primorska, la festa di Ognissanti viene chiamata “Vahti”, parola che deriva dal tedesco “Wacht”, cioè “guardia”. E in effetti, quella notte era un po’ come fare la guardia: si rimaneva svegli fin tardi a pregare il rosario, e poi, quando si andava a dormire, c’erano le candele a sostituirci nella veglia....continua http://www.slovely.eu/2017/10/31/non-solo-halloween-tradizioni-slovene-per-ognissanti/
Celebrato da millenni presso le popolazioni di mezza Europa, il solstizio d’estate,
che il cristianesimo ha associato alla festa di San Giovanni Battista, è
un autentico scrigno di tradizioni popolari, alcune delle quali ancora
vive in Slovenia. Qui come altrove, la festa del Santo cristiano si è
sovrapposta a riti pagani antichissimi, al cui centro vi era Kresnik (“Svetovit” per gli antichi slavi), divinità del sole.
Anche
grazie all’assonanza dei nomi, presso gli sloveni il cristianesimo ebbe
gioco facile a sostituire questa figura con quella del Battista, che in
sloveno si chiama appunto “Krstnik” (da “krst” =
battesimo). L’antica figura mitologica di Kresnik è stata quindi
soppiantata da quella di Janez Krstnik, ma ciò non è bastato a
cancellare tutta una serie di riti e usanze di origine pagana, con
innumerevoli varianti nelle singole regioni slovene.
Il sole e il fuoco
Durante
il solstizio d’estate il sole raggiunge il suo apice, ma ciò significa
anche che a partire da questo punto la sua forza andrà diminuendo giorno
per giorno. Desiderio dell’uomo era quello di prolungare il più
possibile il potere del sole, “aiutandolo” e dandogli forza con
l’accensione di grandi fuochi. Ancora oggi uno dei momenti centrali dei
riti di San Giovanni è proprio il falò, in sloveno “kres” (legato al nome della divinità Kresnik).
Il Kries (falò) di San Giovanni, ancora in uso nei paesi di minoranza slovena in Italia
Il
kres viene acceso la notte tra il 23 e il 24 giugno di solito sulle
alture, affinché possa essere il più vicino possibile al cielo. In molti
paesi la raccolta stessa del materiale da ardere rappresenta una sorta
di rituale: i giovani vanno di casa in casa a raccogliere legno di
scarto e ramaglie e tutte le famiglie devono contribuire in base alla
propria disponibilità.
I paesi fanno a gara a chi ha il kres più
grande e più bello, in alcuni luoghi si gareggiava addirittura tra le
varie frazioni del paese (così ad esempio a Doberdò del Lago – Doberdob
(GO)). Nella Slovenia settentrionale al centro del kres si pone un palo
decorato chiamato “kresni mlaj”, simile a quello innalzato per il primo maggio. La tradizione del kres è conosciuta anche nei paesi in Italia dove vive la minoranza slovena ed è ancora molto viva in Benečija (Slavia Veneta), dove il più famoso è il “Kries svetega Ivana” a Gorenji Tarbij – Tribil Superiore.
Quasi in tutto il mondo per Pasqua vengono preparate le uova colorate o variamente decorate.
La preparazione viene fatta il sabato di Pasqua, al pomeriggio.
Nell’area slava, tra cui tutta l’area slovena, anche in Benecija – Slavia italiana, veneta o friulana – la tradizione della decorazione delle pierhe – dette anche pisane jajca / uova colorate – è ancora in uso in alcuni paesi, specie nel comune di Drenchia/Dreka.
Altrove qualcuno ricorda le pierhaste jajca/uova decorate, ma quasi tutti gli anziani conoscono le pisane jajca/uova colorate, e dicono: “bomo pisal jajca” / coloriamo le uova.
Più o meno mezzo secolo fa, ovunque si regalavano pierhe per Pasqua, in prevalenza ai bambini, ma qualcuno ricorda che esisteva anche lo scambio tra innamorati.
Oppure: “Se mi vieni ad aiutare a piantare le patate ti regalerò una pierha“, è la frase che ricordano tutti. Infatti c’è un collegamento con la semina delle patate.
Occorre tener presente che una volta un uovo era la paga di un bambino per il lavoro di un giorno.
Non meravigli che fossero così desiderate: erano belle e buone.
Le uova vengono bollite, colorate, quindi graffiate: sono dei grafiti e la figura risalta in negativo. La tecnica è ancora largamente conosciuta, mentre il nome si conserva solo in aree limitate.
In alcune aree della Slovenia si decorano anche uova svuotate ma in Benecija non ne abbiamo trovate di simili.
Una particolarità delle uova della Benecija, come sostenuto dalla prof. Nena Židov, responsabile della collezione dei pierhi del Museo etnografico di Lubiana, è il fatto che (almeno fino al 20° secolo) si sia conservata, oltre alla raffigurazione dei motivi floreali, quella di motivi animali. Deduzione derivata dalle uova pasquali di Tercimonte inviate al museo stesso, nel 1906, da mons. Ivan Trinko.
Quando nel circolo Kobilja glava si è iniziato a pensare di rinnovare la tradizione delle pierhe è stata fatta una rapida indagine tra gli anziani per verificare cosa ricordassero. A fondovalle i ricordi erano piuttosto sfumati, mentre nei paesi in quota abbastanza precisi.
Colori e motivi
Fino alla prima guerra mondiale venivano usati quasi esclusivamente colori naturali ottenuti da sostanze vegetali come le bucce di cipolla; ...continua
Benečija, manciate di paesi sparsi sulle colline tra Cividale e il Matajur. Frequento queste valli da quando ero bambina, eppure, nonostante di anni ne siano passati, continuo a scoprire nuovi luoghi, paesini di cui quasi ignoravo l’esistenza, per non parlare delle tradizioni che ancora sopravvivono tra quei boschi e villaggi semiabbandonati.
E proprio di queste tradizioni siamo andati a caccia noi di Slovely, come ogni anno durante il periodo di carnevale: eventi carnevaleschi in cui si respira ancora l’aria di tradizioni portate avanti di generazione in generazione e le cui origini si dissolvono nelle nebbie di un passato molto, molto lontano.
L’anno scorso abbiamo documentato il carnevale di Čarni Varh/Montefosca e dei suoi Blumarji, in un breve video reportage che potete vedere qui. Quest’anno invece abbiamo esplorato le tradizioni di due paesi vicini tra loro: Ruonac/Rodda e Marsin/Mersino, e i loro Pustjé.
Il calore della festa
Ma chi sono i Pustjé? Cosa rappresentano? Cosa fanno in giro per la Benečija nei giorni di carnevale? Vedendoli, la prima risposta che viene in mente è: portano allegria con i loro costumi colorati, le musiche, i canti e gli scherzi. In effetti, grazie ai Pustjé durante il periodo di carnevale la vita sembra fare ritorno nei piccoli villaggi sperduti delle Valli del Natisone, dove decenni di emigrazione e calo demografico hanno svuotato le case.
Colori e allegria al carnevale di Ruonac/Rodda!
Anche chi non vive più nelle frazioni di Ruonac/Rodda e Marsin/Mersino, ma vi rimane ancora legato per motivi familiari o affettivi, per carnevale torna nella vecchia casa di famiglia e apre le porte ai Pustjé, in una festa che coinvolge tutto e tutti. Le padrone di casa imbandiscono le tavole con ogni bendidio da offrire ai Pustjé (e a chi li accompagna), e nei cortili s’intonano canti e si improvvisano balli
Anche noi “forestieri”, che all’inizio ci siamo avvicinati timidamente alle bande allegre e chiassose dei Pustjé, siamo stati accolti fin da subito con calore e simpatia sincera, il che ci ha permesso di immergerci appieno nell’atmosfera di questa festa genuina.
Tra galli, diavoli e nastri colorati
Nonostante il territorio relativamente piccolo, il carnevale in Benečija si caratterizza per una notevole varietà di maschere: quasi ogni paese ha il suo gruppo mascherato con personaggi ben definiti, anche se con alcuni tratti in comune.
I “te grdi”, i brutti, in azione!
Così, sia tra i Pustjé di Ruonac/Rodda sia tra quelli di Marsin/Mersino ci sono i “te grdi” (= “i brutti”), con i vestiti fatti di frange variopinte, che ricoprono anche il caratteristico copricapo conico. Non possono mancare i campanacci intorno alla vita per scacciare l’inverno e le “kliešče”, tenaglie retrattili in legno che servono per acchiappare bambini e ragazze, ma anche per fare ogni sorta di scherzi. Ci sono poi i “te lepi” (= “i belli”), con ampie gonne colorate e cappelli decorati con fiori di carta realizzati a mano, e una maschera adibita alla raccolta dei doni che porta un cesto...
Tempo di preghiera, per la ricorrenza di Ognissanti e di Tutti i Morti, e tempo di tradizioni in Alta Val Torre, dove si è mantenuta inalterata nei decenni, in questa zona del Friuli più che altrove, l’usanza di cucinare un piatto tipico, quello della polenta condita, la «Ocikana».
A raccontare come si prepara la speciale pietanza è Franca Sinicco, 57 anni, un’esperta dei fornelli, ottima cuoca ed erede della tradizione culinaria di famiglia.
«Per prima cosa – spiega –, bisogna preparare la polenta che va fatta più morbida di quella che si fa di solito. Si può usare la farina bianca con un pugno di quella gialla. A parte si deve far sciogliere, intanto, un bel po’ di burro. A parte, ancora, si mette del latte a scaldare con l’aggiunta di sale».
Una volta cotta la polenta, si prende una terrina ampia e si comincia a preparare la Ocikana a strati. È da questa terrina, molto capiente, che poi la pietanza sarà mangiata dai componenti della famiglia durante la sera del primo novembre.
«Con il cucchiaio si trasforma la polenta in una sorta di gnocchetti. Tra uno strato e l’altro di gnocchetti si sparge il latte e si cosparge con il formaggio tagliato fino, grattugiato. Si possono usare insieme formaggio fresco e quello stagionato, più saporito. Fatti un po’ di strati, a piacere, si procede con il burro: fatto colorire senza bruciarlo, va messo sopra l’ultimo strato. La Ocikana è pronta».
La pietanza non va mangiata tutta, si lascia una parte nella terrina, sulla tavola, per la notte: al calare del buio, si dice, le anime dei morti che si ridestano per Ognissanti potranno cibarsene, nel loro breve viaggio di ritorno nel mondo dei vivi, concesso loro solo per questa notte così particolare.
«Si tratta di un piatto molto calorico, che dà molta energia, mangiato tutti insieme per affrontare, nei mesi già freddi, il duro lavoro nei campi e più spesso nei boschi». Ad accompagnare la polenta condita, che ancora oggi preparano tutte le famiglie dell’Alta Val Torre, poteva esserci, raramente, del vino. «Ognuno aveva una vigna fuori casa e il vino, seppure poco come quantità, faceva parte delle tradizioni della tavola – spiega Franca –; era un vino spesso acido, che si beveva subito perché non si conservava per molto tempo». (Paola Treppo)
Na praznik Vseh svetnikov in na dan Vernih duš je v gornji Terski dolini še živa navada, da pripravljajo ocikano. O tem nam je povedala domačinka Franca Sinicco, ki je stara 57 let.
Ocikana je mehka polenta iz koruznega in pšeničnega zdroba, ki je najprej rezana na kose, nato zabeljena z mlekom in potem posuta z ribanim dozorjenim sirom ter popraženim maslom. Nekaj ocikane so nekoč po hišah pustili za duše, ki so se na Vahte vrnile med živimi.
"O ti zemlja rodna,
zemlja bedna,
ki te milost božja,
meni v last je dala" (I. Trinko)
"O terra natia,
terra misera,
piccola,
che la grazia divina,
mi ha donato"
(traduzione)