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6 lug 2020

Un ginocchio sul collo anche per noi


«Le vite dei neri contano – Black Lives Matter». Certamente contano. Non solo quelle dei neri, s’intende; ma bisogna vedere quanto contano e per chi. Valgono ora e valevano quando, per quasi tre secoli, ad iniziare dal XVI, la tratta degli schiavi africani ne fece strage a milioni nelle stive delle navi e nelle piantagioni americane. Erano bianchi, europei ed ex europei alla conquista del continente americano a sfruttare una manodopera a nullo o basso costo per costruirsi il cosiddetto sviluppo. Ci riempiamo la bocca a dire «America »! La esaltiamo come esempio di civiltà e libertà guardando la mastodontica statua con la fiaccola alzata verso il cielo nella Manhattan dei grattaceli, quando si proclama come simbolo della «Libertà che illumina il mondo – Liberty Enlightening
the World». A visitare la vicinissima isoletta Ellis Island, – che «accolse», si fa per dire, una dozzina di milioni di immigrati desiderosi di realizzare l’American dream / sogno americano scegliendo accuratamente gli abili al lavoro, scartando e rispedendo a casa gli inabili – la detta illuminazione libertaria vi passava sopra, illuminandola di scarsa e flebile sua luce.
Quante generazioni di neri si erano succedute dalla guerra di secessione americana che li avrebbe liberati dalla schiavitù, ma, si sa, la luce si riflette sul «bianco», si perde sul nero… anche la luce della vera libertà.
Parrebbe che il razzismo faccia parte del genoma umano considerando quanto questa caratteristica sia influente sul comportamento del nostro genere. Quello di distinguere, discriminare il simile in base alle sue caratteristiche fisiche, linguistiche, culturali, di provenienza o di censo. Il «nero», purtroppo per lui, è troppo visibile, non può confondersi nel gruppo se non in quello dei suoi simili, e da singolo o come gruppo, anche oggi «conta» solo nella sua inveterata veste di schiavo. Per constatarlo dobbiamo guardare all’America di Trump? Al ginocchio del poliziotto piantato sulla carotide e sulla giugulare di George Perry Floyd, padre di cinque figli? Aveva tentato di spacciare una banconota falsa di 20 dollari. Col poco fiato che gli rimaneva chiamava sua madre come un bambino e chiedeva solo di poter respirare. Erano in tre gli agenti bianchi a tenerlo a bada e armati. Inutile chiederci come si sarebbero comportati se a terra ci fosse stato un bianco come loro.
«Le vite dei neri contano?» Contano, sì, anche da noi. «Un euro e mezzo all’ora per stare nei campi fino al crollo fisico», scriveva mercoledì scorso (24.6.) su Repubblica il giornalista Michele Serra sotto il titolo emblematico: «In quale secolo siamo? Maltrattamenti, segregazione, razzismo».
Siamo in Italia, regrediti a secoli in cui si disputava se i neri avessero l’anima. Ma siamo oggi, nell’Italia dell’immigrazione clandestina raccolta in furgoni come fossero cani randagi, robot da usare come attrezzi usa& getta in campi di pomodori. Peggio della schiavitù sudista americana, suggerisce Serra, infatti là uno schiavo valeva, contava – come schiavo, s’intende – e non era economicamente conveniente strapazzarlo troppo; come non lo si fa coll’asino.
Una società come la nostra, che dichiara nei primi articoli della sua legge costitutiva di repubblica democratica fondata sul lavoro, nel 2020 può permettersi di ignorare, tollerare, a volte favorire situazioni disumane portate all’estremo. È più crudele e diabolico sfruttare fino ad esaurimento la debolezza contrattuale di persone che, per essere rifiutate, discriminate, ignorate non hanno voce, con quel ginocchio sul collo che, invece di durare otto minuti dura giorni, mesi, anni e per qualcuno il tempo di una fucilata o di un incidente. È subdolo, oggi, il razzismo; cerca ragioni giuridiche per camuffarlo e grida: Prima noi! «America first» di Trump, che fa eco al fatidico «Deutschland Uber Alles». Prima i bianchi; prima gli italiani… Prima «io», il pronome più in voga, il più evidente e rafforzato dal potere, dalla razza egemone, dalla forza del dollaro, euro, sterlina, yen, yuan o franco che sia. Un euro e mezzo all’ora, e taci, lavora… e paga cara la carretta che ti porta nei campi e la baracca fatiscente in cui puoi riposare.
Un ginocchio sul collo, d’altronde, l’abbiamo avuto anche noi, sloveni, discriminati e vilipesi, considerati barbari ed incivili per aver resistito all’assimilazione forzata dai primordi dello Stato in cui fummo fagocitati, visti più come prede che come parte di una nazione che si diceva al massimo grado della civilizzazione sociale e culturale.
Varrà qualcosa la rabbia scatenata dei discriminati neri che reclamano il diritto alla vita e di aver riconosciuto non solo a parole il diritto di esserci, di avere la dignità di cittadino, di vedersi riconoscere senza infingimenti il proprio valore? Nella storia il ginocchio piegato fa pensare a Canossa, al re Enrico IV per tre giorni carponi davanti al castello di Matilde per rimediare alla scomunica papale, al penitente che si batte il petto riconoscendo la propria colpa. Oggi vale come protesta, come solidale gesto di ribellione ad uno strapotere ingiusto e disumano, che svuota in sé quella luce di uguaglianza e libertà che dovrebbe giungere sul serio dalla fiaccola di Manhattan.
Riccardo Ruttar

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