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GATTICI simbolo di primavera

 Esistono moltissime varietà di salice .
Gemme di salice gattici/misici(da mis=topo)
(sloveno macice=gattini)
Salix caprea (salicacee)

 arbusto o alberello alto fino a 13 metri.Vive in montagna,ama il sole e i luoghi umidi,non ha grandi esigenze.Utilizzato come pianta da foraggio nelle zone di pascolo.
Ha rami distribuiti uniformemente e foglie ovoidali con margini poco seghettati di color verde chiaro superiormente  e bianco grigiastro per la fine peluria nella pagina inferiore.Prima della ripresa vegetativa compaiono i fiori riuniti in amenti(spighe) eretti;quelli maschili di grandi dimensioni,sono forniti di peli grigio-argentei,chiamati gattici ;quelli femminili sono meno appariscenti di colore verdastro,disposti lateralmente ai  vecchi rami,il frutto è una piccola capsula conico-allungata sessile e liscia.(wikipedia)


Rami di salice:i loro bei rami setosi,bianchi candidi,che diventano luminosi in controluce.Se si vogliono conservare a lungo dobbiamo metterli in un vaso senz' acqua.In Tirolo e Slovenia usano adornare i rami con uova colorate per Pasqua,perchè sono simbolo di primavera.





Poesia di Giovanni Pascoli 
I Gattici

E vi rivedo, o gattici d’argento,
brulli in questa giornata sementina:
e pigra ancor la nebbia mattutina :
sfuma dorata intorno ogni sarmento.
Già vi schiudea le gemme questo vento
che queste foglie gialle ora mulina;
e io che al tempo allor gridai, Cammina,
ora gocciare il pianto in cuor mi sento.
Ora le nevi inerti sopra i monti,
 e le squallide piogge, e le lunghe ire
del rovaio che a notte urta le porte,
e i brevi dì che paiono tramonti
infiniti, e il vanire e lo sfiorire,
e i crisantemi., il fiore della morte.

dal web


NON TI SCORDAR DI ME

 


Fiori - Myosotis, non ti scordar di me

di Alessandro Squizzato
Lavorando all’interno delle serre di coltivazione in questo periodo dell’anno, tra un controllo di irrigazione delle primulette quasi pronte e un’osservazione delle fasi di crescita delle Dipladenie, piantate già a settembre per averle pronte in vendita a fine marzo, mi capita già di scorgere le prime Myosotis in fiore. Il nome comune di questa pianta è “Non ti scordar di me” e sicuramente suona familiare a molti di voi. Si tratta di un genere di pianta perenne o biennale, l’altezza arriva al massimo a 20 centimetri, appartenente alla famiglia delle Borraginacee, e comprende circa 50 specie.
È diffuso in Europa, Africa, America e Oceania. Per le cultivar coltivate nelle serre la fioritura va da gennaio/febbraio a giugno, mentre le varietà selvatiche, crescendo perlopiù in montagna, vanno da aprile fino a settembre.
Le infiorescenze, azzurre, rosa o bianche, tutte con il cuore giallo, sono composte da piccoli fiori con 5 petali. Il frutto, invece, è una bacca da cui fuoriescono i semi, che possiamo usare per moltiplicare le nostre piantine.
Il termine Myosotis deriva dal greco e significa “orecchie di topo” per via delle sue foglie che sono sottili, allungate, appuntite e leggermente pelosette.
Si può coltivare in vaso, con del terriccio universale di buona qualità, oppure a terra, perfetta ad esempio in un giardino roccioso o come bordura, se il suolo è sufficientemente ricco di nutrienti e ben drenante. L’irrigazione andrà fatta a pianta asciutta, limitando i ristagni per evitare marciumi. Se allevato in vaso quindi, preferisce l’apporto idrico dal sottovaso che andrete a svuotare dopo una decina di minuti. Un concime per piante da fiore ricco in azoto e potassio gli garantirà un buon sviluppo di foglie e fiori. E’ opportuno rimuovere fusti o foglie secche o marce per evitare la propagazione di malattie crittogamiche. L’esposizione ideale è la mezz’ombra.
Il suo nome, a seconda della zona, viene fatto risalire a diversi racconti popolari, che parlano in tutti i casi di romanticismo, fedeltà e di amore eterno. Gli innamorati si scambiavano questo fiore prima di separarsi per alcuni periodi, così come i bambini lo regalano alla festa dei nonni il 2 ottobre (è il fiore ufficiale per questa festa) come simbolo di affetto duraturo.
Tutte le r

 IL TIGLIO DI NAPOLEONE A RUTTE PICCOLO


di Dario Di Gallo
Nel territorio della Valcanale, dove le tradizioni risentono fortemente della cultura mitteleuropea, particolarmente vicina alla natura e alle sue manifestazioni, si trovano ancora numerosi alberi di considerevoli dimensioni diffusi sui monti, negli alpeggi, nei boschi e nelle belle borgate. E proprio in una di queste a Rutte Piccolo, idilliaco villaggio adagiato sui morbidi colli prativi che si dispiegano a sud dell’abitato di Tarvisio, nei quali ci si isola visivamente da tutti i segni della nostra civiltà, strade, autostrade, ferrovie, abitati, caserme e ci si trova circondati solo dai giganti di pietra delle Alpi Giulie, proprio qui si radica uno degli alberi più belli della nostra regione, è un Monumento Naturale, è il Tiglio di Napoleone. L’intrigante denominazione è legata alle narrazioni locali che ci raccontano della sosta, sotto queste fronde, di Napoleone Buonaparte nel corso degli scontri tra Francesi ed Austriaci che si svolsero su queste alture nel 1797. La pianta, un tiglio selvatico, è caratterizzata da sei enormi fusti che partono dalla stessa ceppaia formando una maestosa ed armoniosa cupola dalle dimensioni e dalla forma impareggiabili, ha una circonferenza di circa 11 metri ed una altezza di 26 metri con una età recentemente rivalutata di circa 300 anni, il diametro della sua chioma raggiunge i 30 metri, posta poco fuori l’abitato in una proprietà privata e per la cui visita è richiesto un particolare rispetto e cura dei luoghi. Il Tiglio è un albero che le genti della nostra terra hanno sempre tenuto vicino alle proprie comunità rispettando quel senso di sacralità che accompagna questa specie, rispetto che è venuto brutalmente a mancare per questo magnifico albero in quanto pochi anni fa, contro la volontà dei proprietari e dei residenti e con la tipica protervia e cecità del potere gli è stato costruito a fianco un orribile pilone metallico di una linea elettrica che proviene interrata dal territorio Austriaco e che riemerge sui tralicci in territorio italiano segno del nostro aggressivo ed irrispettoso approccio culturale alla natura.
da vita nei campi

L'aquilegia

BUONA DOMENICA


 L’aquilegia è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae. Originaria di America, Asia e zone alpine europee, cresce in modo spontaneo. In Italia la troviamo soprattutto nelle aree alpine e in quelle appenniniche.

Le piante di aquilegia sono diffuse in particolar modo in ambienti freschi e non ventilati in cui è presente un’esposizione al sole ma non diretta. Vengono utilizzate come piante ornamentali grazie ai loro fiori, rinomati per la forma caratteristica, le dimensioni e i colori.

Le sfumature cromatiche dei petali possono essere molto variegate: dal blu al rosa e dal bianco al viola a seconda delle specie. La rusticità di queste piante consente loro di sopravvivere anche in condizioni di vita piuttosto estreme. Si rivelano pertanto adatte pure a chi non ha grande esperienza di giardinaggio o pollice verde.


Il mandorlo anche al nord

 


di Cristina Micheloni
Tra clima che cambia e preferenze alimentari che mutano ancor di più, l’agricolo dovrebbe intensificare non il metodo di coltivazione (nel senso di maggior utilizzo di input quali energia, acqua, fertilizzanti e fitofarmaci) bensì la diversità delle produzioni e la conoscenza di colture e metodi qui meno comuni sino ad ora.
E allora proviamo a diversificare anche tra le colture arboree: la frutta a guscio sta vivendo un vero periodo d’oro, o, meglio, un ritorno, pensate che negli anni ‘70 in Italia (essenzialmente al sud) si producevano 230.000 ton di mandorle, crollate a 90.000 nel primo decennio degli anni 2000 ed ora in risalita.
Ma stiamo alla campagna: il nocciolo è ormai diffuso in tanti areali della regione, forse ancora presto per fare un bilancio ma intanto le superfici crescono. Ma siccome la monocoltura, di qualunque specie sia, non ci fa bene, proviamo a guardare oltre. Il mandorlo, ad esempio, comincia ad essere un’opzione anche nell’Italia del Nord, complice il cambiamento climatico ma anche la selezione di varietà più tardive, lo sviluppo di tecniche colturali che rendono più agile ed anche meccanizzabile parte del lavoro e accorciano i tempi di entrata in produzione: tutte cose che, se messe bene in fila, rendono il mandorlo un’opzione percorribile sia economicamente che ambientalmente.
Tra i portinnesti ve ne sono alcuni che riescono a contenere la taglia entro i 2m di altezza e, nella forma a vaso catalano più o meno adattato, nei 60cm di larghezza, con un’entrata in produzione già al quarto anno, per arrivare ai 20-30q.li/ha qualche anno più tardi. Interessante il fatto che la raccolta può essere anche effettuata con una vendemmiatrice adattata. Ciò significa anche che, raccogliendo dai rami, non è necessaria la maniacale e ambientalmente deleteria pulizia del terreno sotto e tra le piante. In aggiunta: la raccolta dal ramo riduce anche il rischio di micotossine nel frutto!
Tra le varietà tardive nella fioritura, che quindi sfuggono ai ritorni di freddo, si possono citare Genco, Supernova e Tuono, o le più recenti Penta e Makako, ma anche una varietà che viene dalla Gemania, la Palatina, che ha anche il guscio morbido che ne consente la sgusciatura a mano.
Ricordate però che molte varietà di mandorlo non sono autofertili, quindi controllate e, in caso, mescolate varietà a fioritura sincrona. Sempre sulla scelta della varietà attenzione ai tratti qualitativi: dimensione della mandorla, frequenza mandorle doppie e anche di mandorle amare!
Al biologico il mandorlo piace perchè risparmioso: ha bisogno di un po’ di acqua ma non troppo, molta di meno del noce, ad esempio, e ben sopporta dei periodi di siccità, avendo un apparato radicale che velocemente si sviluppa in profondità. La fertilizzazione dipende dall’intensità del sistema di allevamento ma, in generale, una buona base organica alla messa a dimora con piccole integrazioni, sempre organiche, annuali è già sufficiente. Chiaro che se si arriva a 3000 piante/ha qualcosa in più in fertilizzazione tocca spendere, ma magari possiamo anche pigiare un po’ meno sull’acceleratore!
Presto per dire quali siano i patogeni e i parassiti più impegnativi nei nostri areali, di certo bisogna fare attenzione agli afidi, cosa in cui ben ci aiuta la biodiversità ospitata da siepi e da alle specie erbacce che devono devono coprire il terreno sotto gli alberi e tra le file, e alla monilia e qualche altro fungo patogeno, per il cui controllo comunque, anche in bio, gli strumenti ci sono. Una buona notizia: la cimice asiatica non fa danni al mandorlo perchè arriva quando il guscio è già formato.
Siete curiosi di mandorlo? Approfitate della visita di studio organizzata da AIAB FVG per il 31 marzo a Imola, nel bel mezzo dei mandorli in fiore:

ERICA CARNEA- le nostre piante


 L'Erica carnea si presenta come una pianta spontanea perenne appartenente alla famiglia delle Ericaceae e al genere Erica.È una pianta che forma dei cuscini fioriti dato il suo sviluppo per lo più in larghezza. Tipica delle AlpiAppennini settentrionali ed Alpi Apuane; vive a quote fino ai 2500 m s.l.m. in prati e pascoli, su pendii rocciosi e soleggiati e nelle zone luminose al limitare dei boschi di conifere. Appartiene alla famiglia delle Ericacee.Dal fusto sottile e legnoso spuntano foglioline aghiformi dal colore verde vivo, che lo ricoprono per la sua totalità. Possono presentarsi anche di color bronzeo o giallo scuro, in particolari condizioni di esposizione alla luce. L'erica carnea ha fusto strisciante a livello del terreno, alta fino a 40 cm. I fiori riuniti in grappoli apicali sono di colore rosa più o meno sfumato. La forma della corolla richiama una botte ed è formata dalla fusione dei singoli petali fra loro. Dalla sommità della corolla si intravedono 8 stami scuri e uno stilo più lungo, che viene urtato dagli insetti che si posano sul fiore, favorendone l'impollinazione. Fiorisce da febbraio a giugno. È una pianta suffruticosa, spesso come erbacea, sempreverde e aghifoglia, più grande in larghezza rispetto all'altezza. È una pianta molto robusta e spesso capita di vedere i fiori rosei spuntare nella neve, annunciando la primavera.

da wikipedia

Esiste anche una mutazione naturale dai fiori molto chiari, a volte totalmente bianchi, classificata come Erica carnea var. albina.

I fiori sono officinali e la pianta è medicinale, hanno proprietà diuretiche assai potenti e servono per la preparazione di tisane urinarie. Hanno inoltre azione antisettica dovuta alla presenza di arbutina; sono usati in casi di cistiti, specie quelle prostatiche, preferiti ad altri preparati, in quanto non tossici.

È pianta molto visitata dalle api per il polline ed il nettare, da cui esse producono un ottimo miele

Alberi della Benecia

 IL FAGGIO


Fagus L., 1753 è un genere di piante angiosperme eudicotiledoni appartenente alla famiglia delle Fagaceae, che comprende specie arboree e arbustive originarie dell'Europa, delle Americhe, del Giappone e della Cina, con altezza dai 15–20 m fino ai 30–35 m.

  Il faggio viene coltivato in boschi cedui per la produzione di legna da ardere. Nelle coltivazioni a fustaia si effettuano tagli ogni 90–100 anni, dai quali si ricavano 400-500 metri cubi di legname a taglio. Come legname viene impiegato nella costruzione di pavimenti,pareti, mobili, giocattoli, utensili da cucina,banchi da lavoro,ripiani. E' adatto alla tornitura



Proprietà medicinali

  • Il decotto di giovani radici raccolte in primavera o in autunno, è anticonvulsivo.
  • Il decotto di corteccia raccolta preferibilmente in primavera spezzettata ed essiccata ha proprietà febbrifughe ed astringenti.
  • Per distillazione del legno si ottiene il creosoto, liquido oleoso con odore acuto di fumo e sapore fortemente aromatico, che viene utilizzato come disinfettante ed espettorante.
  • Un bagno di foglie di faggio è rimedio contro l'insonnia
  • da wikipedia

L'elleboro

 


ELLEBORO: ROSA DI NATALE

di Alessandro Squizzato
L’elleboro appartiene alla famiglia delle Ranuncolacee, conta circa 25-30 specie di perenni, la maggior parte a foglia sempreverde, alcune sono a foglia caduca. Abituato alle basse temperature, l'elleboro viene anche chiamato rosa di Natale o rosa d'inverno perché fiorisce tra dicembre e marzo. Lo possiamo trovare nelle regioni di montagna ad altitudini fino ai 1900 metri.
Sono molto tolleranti e sono generalmente semplici da coltivare, preferiscono una posizione riparata, in mezzo ombra, perché l’ombra densa può ridurre la fioritura ma facciamo attenzione al sole estivo. Il mio consiglio è di porre la pianta in ombra nei mesi estivi e in mezz’ombra nei mesi invernali. Se decidiamo di piantarla a terra, troviamo una zona in cui non riceva i raggi solari nelle ore centrali della giornata. Nonostante siano tolleranti a vari tipi di terreno, gli ellebori preferiscono suoli alcalini, ricchi di sostanza organica, umidi ma che drenino molto bene. Hanno radici profonde e per fiorire al meglio apprezzano concimazioni consistenti.
Possono crescere fino a un'altezza compresa tra 10 e 30 cm. Si adattano molto bene alla coltivazione in vaso purché s’impieghino vasi profondi.
I fiori possono persistere fino a due mesi, se la pianta viene tenuta nel luogo giusto e il clima è clemente. I colori dell'elleboro sono generalmente il bianco ed il porpora, ma esistono varietà con fiori che vanno dal rosa delicato, al verde, al crema.
La Rosa di Natale non necessita di potature se non per eliminare le parti secche e danneggiate. Si moltiplica per seme, oppure anche per divisione dei rizomi.
Anche se non in fiore durante i mesi caldi, gli ellebori producono molto fogliame, costituendo così piccoli cespugli decorativi. da Vita nei campi

Il castagno

 Il castagno europeo (Castanea sativa Mill., 1768), in Italia più comunemente chiamato castagno, è un albero appartenente alla famiglia Fagaceae[1]. Negli ultimi decenni è stato sovente introdotto, per motivi fitopatologici, il castagno giapponese (Castanea crenata). Le popolazioni presenti in Europa sono perciò principalmente riconducibili a semenzali di castagno europeo o a castagni europei innestati sul giapponese o a ibridi delle due specie

Importanza economica e diffusione

Il castagno è una delle più importanti essenze forestali dell'Europa meridionale, in quanto ha riscosso, fin dall'antichità, l'interesse dell'uomo per i molteplici utilizzi. Oltre all'interesse intrinseco sotto l'aspetto ecologico, questa specie è stata largamente coltivata, fino ad estenderne l'areale, per la produzione del legname e del frutto. Quest'ultimo, in passato, ha rappresentato un'importante risorsa alimentare per le popolazioni rurali degli ambienti forestali montani e, nelle zone più fresche prealpine, d'alta collina, in quanto erano utilizzate soprattutto per la produzione di farina di castagne.

L'importanza economica del castagno ha attualmente subito un drastico ridimensionamento: la coltura da frutto è oggi limitata alle cultivar di particolare pregio e anche la produzione del legname da opera si è marcatamente ridotta. Del tutto marginale, infine, è l'utilizzo delle castagne per la produzione della farina, che ha un impiego secondario nell'industria dolciaria.

Si ritiene che buona parte delle superfici forestali a castagno siano derivate da una rinaturalizzazione di antiche coltivazioni abbandonate nel tempo[2], mentre la coltivazione si è ridotta alle stazioni più favorevoli, dove è possibile ottenere le migliori caratteristiche merceologiche del cacumi, in particolare il legname[2].

Descrizione botanica

Tavola botanica.

Il castagno è una pianta arborea, con chioma espansa e rotondeggiante ed altezza variabile, dai 10 ai 30 metri. il castagno è una specie eliofilacaducifoglie e latifoglie. I castagni sono alberi molto longevi, possono diventare plurimillenari. La fioritura avviene a giugno e la fruttificazione a settembre-ottobre a seconda delle varietà.

In condizioni normali sviluppa un grosso fusto colonnare, con corteccia liscia, lucida, di colore grigio-brunastro. La corteccia dei rami è di colore bianco ed è cosparsa di lenticelle trasverse. Con il passare degli anni, generalmente dai quarant'anni in poi, la corteccia inizia a fessurarsi longitudinalmente a partire dal colletto.

Le foglie sono alterne, provviste di un breve picciolo e, alla base di questo, di due stipole oblunghe. La lamina è grande, lunga anche fino a 20-22 cm e larga fino a 10 cm, di forma lanceolata, acuminata all'apice e seghettata nel margine, con denti acuti e regolarmente dislocati. Le foglie giovani sono tomentose, ma a sviluppo completo sono glabre, lucide e di consistenza coriacea.

fiori sono unisessuali, presenti sulla stessa pianta. I fiori maschili sono riuniti in piccoli glomeruli a loro volta formanti amenti eretti, lunghi 5–15 cm, emessi all'ascella delle foglie. Ogni fiore è di colore biancastro, provvisto di un perigonio suddiviso in 6 lobi e un androceo di 6-15 stami. I fiori femminili sono isolati o riuniti in gruppi di 2-3. Ogni gruppo è avvolto da un involucro di brattee detto cupola.

Il frutto è un achenio, comunemente chiamato castagna, con pericarpo di consistenza cuoiosa e di colore marrone, glabro e lucido all'esterno, tomentoso all'interno. La forma è più o meno globosa, con un lato appiattito, detto pancia, e uno convesso, detto dorso. Il polo apicale termina in un piccolo prolungamento frangiato, detto torcia, mentre il polo prossimale, detto ilo, si presenta leggermente appiattito e di colore grigiastro. Questa zona di colore chiaro è comunemente detta cicatrice. Sul dorso sono presenti striature più o meno marcate, in particolare nelle varietà del gruppo dei marroni. Questi elementi morfologici sono importanti ai fini del riconoscimento varietale.

Gli acheni sono racchiusi, in numero di 1-3, all'interno di un involucro spinoso, comunemente chiamato riccio, derivato dall'accrescimento della cupola. A maturità, il riccio si apre dividendosi in quattro valve. Il seme è ricco di amido.

Esigenze ed adattamento

Corteccia del fusto.
Castanea sativa

Il castagno è una specie mesofila e moderatamente esigente in umidità[3][4]. Sopporta abbastanza bene i freddi invernali, subendo danni solo a temperature inferiori a -25 °C[3], ma diventa esigente durante la stagione vegetativa. Per questo motivo il castagno ha una ripresa vegetativa tardiva, con schiusura delle gemme in tarda primavera e fioritura all'inizio dell'estate. Al fine di completare il ciclo di fruttificazione, la buona stagione deve durare quasi 4 mesi. In generale tali condizioni si verificano nel piano montano (600–1300 m) delle regioni mediterranee o in alta collina più a nord. In condizioni di umidità favorevoli può essere coltivato anche nelle stazioni fresche del Lauretum, spingendosi perciò a quote più basse. Condizioni di moderata siccità estiva determinano un rallentamento dell'attività vegetativa nel mezzo della stagione e una fruttificazione irregolare[3]. Le nebbie persistenti e la piovosità eccessiva nei mesi di giugno e luglio ostacolano l'impollinazione incidendo negativamente sulla fruttificazione.

Nelle prime fasi tollera un moderato ombreggiamento, fatto, questo, che favorisce una buona rinnovazione nei boschi maturi, ma in fase di produzione manifesta una maggiore eliofilia.

Corteccia e lenticelle nei giovani getti.

A fronte delle moderate esigenze climatiche, il castagno presenta notevoli esigenze pedologiche, perciò la sua distribuzione è strettamente correlata alla geologia del territorio. Sotto l'aspetto chimico e nutritivo, la specie predilige i terreni ben dotati di potassio e fosforo e di humus. Le condizioni ottimali si verificano con pH di terreni neutri o moderatamente acidi; si adatta anche ad un'acidità più spinta, mentre rifugge in genere dai suoli basici, in quanto il calcare è moderatamente tollerato solo nei climi umidi[3]. Sotto l'aspetto granulometrico predilige i suoli sciolti o tendenzialmente sciolti, mentre non sono tollerati i suoli argillosi o, comunque, facilmente soggetti ai ristagni. In generale sono preferiti i suoli derivati da rocce vulcaniche (tufitrachitiandesiti, ecc.), ma vegeta bene anche nei suoli prettamente silicei derivati da granitiarenarie quarzose, ecc., purché sufficientemente dotati di humus. I suoli calcarei sono tollerati solo nelle stazioni più settentrionali, abbastanza piovose, mentre sono mal tollerate le marne.

«Per te i tuguri sentono il tumulto
or del paiolo che inquïeto oscilla;
per te la fiamma sotto quel singulto
crepita e brilla:

tu, pio castagno, solo tu, l'assai
doni al villano che non ha che il sole;
tu solo il chicco, il buon di più, tu dai
alla sua prole;»

(Giovanni Pascoli, Il castagno)

da https://it.wikipedia.org/wiki/Castanea_sativa


Sette varietà uniche per il rilancio del castagno


Da un vecchio aticolo del Novi Matajur

Sono 7 i genotipi unici di piante di castagno individuati nelle valli del Natisone. Alberi e frutti che cioè, non sono stati (almeno finora) rilevati altrove. Questo il risultato “sorprendente” – così l’ha definito Michele Fabro dell’Ersa – della ricerca condotta dalla stessa agenzia regionale per lo sviluppo rurale in collaborazione con il dipartimento DISAFA dell’Università di Torino e presentata durante il convegno ‘La castanicoltura nelle valli del Natisone, sviluppi e prospettive’ tenutosi nella sala consiliare di Pulfero lo scorso 7 ottobre.

Nel corso della serata, organizzata dal comune di Pulfero con la collaborazione di Coldiretti e Associazione culturale e socio-assistenziale di Tarcetta, nell’ambito della seconda Festa del castagno gigante, oltre a Fabro sono intervenuti anche Andrea Maroè del servizio paesaggistico e biodiversità della Regione, Dario Ermacora, presidente regionale di Coldiretti, Mauro Pierigh, presidente dell’associazione Tarcetta, il sindaco di Pulfero Camillo Melissa, l’esperto locale Giovanni Coren e l’assessore regionale all’agricoltura Cristiano Shaurli. Moderatore il vicesindaco Mirko Clavora.
“Questa di oggi – ha affermato Shaurli – è una sorta di ultima chiamata per tutti: istituzioni, territorio e imprenditori del settore.” Ricerca, biodiversità e promozione delle peculiari produzioni locali devono diventare, secondo l’assessore regionale, “fattori economici su cui investire per il rilancio di questa zona.” Shaurli ha quindi auspicato che si proceda da subito con azioni concrete in grado di dare seguito ai lavori di ricerca, mettendo a frutto i fondi del Psr per la creazione di una filiera produttiva della castanicoltura e istituendo, al contempo, una rete di produttori locali.
Auspicio, quello di Shaurli, motivato dalle evidenze scientifiche emerse dalla ricerca dell’Ersa e dell’Università di Torino (la più attrezzata in Italia per lo studio della castanicoltura). Come ha illustrato Michele Fabro, l’analisi genetica realizzata nel 2017 su 38 piante della regione, la maggior parte delle quali nelle Valli del Natisone e, in particolare, intorno ai paesi di Spignon, Pegliano (Pulfero), San Leonardo e Raune (Stregna), ha individuato 16 varietà diverse di castagno, di cui – come detto in apertura – 7 che sono genotipi unici: Čjufa, Marujac, Bogatac, Curin, Ranac, Kobilcar-Zelenac, Ranac Rarski. In una prossima fase, ha detto Fabro, ci si propone di studiare la migliore vocazione possibile per i prodotti delle diverse piante. Se sia cioè preferibile destinarle al consumo diretto, alla produzione dolciaria o di farinacei, in modo da fornire precise indicazioni ai produttori.
La promozione del castagno come prodotto tipico delle valli del Natisone ha, da quest’anno, anche un ulteriore elemento di tutela e visibilità. Grazie alle novità legislative e al finanziamento della Regione, ha spiegato Maroè, i due castagni secolari di Pegliano (Pulfero) sono stati inseriti nel primo elenco che tutela gli alberi monumentali che, quindi, potranno essere gestiti (e tutelati nella loro integrità) con gli strumenti adeguati.
Anche Ermacora ha sottolineato come la biodiversità del castagno (ma anche di altri prodotti tipici quali le peculiari varietà di mele) siano da considerare come un’opportunità di rilancio per l’agricoltura delle valli del Natisone.
Necessario quindi, anche secondo il presidente di Coldiretti, procedere dall’analisi all’elaborazione di una strategia di intervento in grado di rilanciare il settore agricolo.

https://novimatajur.it/attualita/sette-varieta-uniche-per-il-rilancio-del-castagno.html

Colchico autunnale

 


Il colchico d'autunno (Colchicum autumnale L., 1753) o falso zafferano, è una piccola pianta bulbosa erbacea autunnale, velenosa, dai vistosi fiori color rosa-violetto appartenente alla famiglia delle Colchicaceae.[1] Fiorisce in autunno, è mortale per l'uomo anche se ingerito a basse dosi[2] e non va confuso con il Crocus che invece fiorisce a marzo, sul finire dell'inverno.

Per merito della sua fioritura anomala (in autunno) e quindi facilmente individuabile, il colchico è una pianta conosciuta fin dai tempi più antichi. In effetti il termine colchicum (in greco antico = kolchikònetimologicamente è posta in relazione all'antica Colchide (un regno affacciato sul Mar Nero nell'Asia Caucasica). Questo nome lo si trova già nei trattati di medicina di Dioscoride Pedanio (Anazarbe in Cilicia, 40 circa – 90 circa), medico, botanico e farmacista greco antico che esercitò a Roma ai tempi dell'imperatore Nerone e Galeno di Pergamo (129 – 216), medico greco antico ellenista.

Il nome venne ripreso per la prima volta in tempi moderni dal botanico francese Joseph Pitton de Tournefort (5 giugno 1656 — 28 dicembre 1708) e consolidato definitivamente come genere nel 1737 da Linneo[3]. L'epiteto specifico (autumnale) fa ovviamente riferimento al periodo di fioritura anche se la stessa può avvenire anche in piena estate e può trarre in inganno chi crede di raccogliere lo zafferano (Crocus sativus) anche con esiti mortali[4].
Il binomio scientifico attualmente accettato (Colchicum autumnale) è stato proposto da Carl von Linné (Rashult, 23 maggio 1707 –Uppsala, 10 gennaio 1778), biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species Plantarum del 1753.
In lingua tedesca questa pianta si chiama Herbstzeitlose; in francese si chiama colchique d'automne; in inglese si chiama meadow saffron oppure autumn crocus.