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Il Friuli-Venezia Giulia: mosaico di lingue, lingue di minoranza e dialetti

 

dal web



di Fabiana Fusco*

Il Friuli-Venezia Giulia costituisce, da secoli, uno spazio di complesso contatto interlinguistico. Le basi dell’attuale situazione sono da ricondurre a fatti storici di immigrazione e insediamento che hanno collocato uno a fianco all’altro i Romani, i Germani e gli Slavi: la regione rappresenta così un esempio interessante – per varietà di fenomeni e per l’estensione temporale in cui possiamo osservarli – di comunità plurilingue. La storia del Friuli-Venezia Giulia e delle sue lingue è stata condizionata in buona parte dalla posizione geografica, ovvero dalle sue relazioni sulle direttrici europee nord-sud ed est-ovest: la regione si configura come punto obbligato di passaggio e di incontro.
 
Italiano, marilenghe, germanico e slavo
 
Non è un caso quindi che la sua fisionomia linguistica sia piuttosto articolata, contemplando da un lato idiomi neolatini, quali l’italiano (nella sua forma standard e nelle sue varianti regionali), il friulano (furlan, anche detto marilenghe, cioè ‘lingua materna’) e il veneto (il veneto udinese a Udine, il ‘bisiaco’ nel territorio di Monfalcone, le parlate delle località lagunari di Marano e Grado e altre lungo il confine occidentale e sudoccidentale), dall’altro gli idiomi di ceppo germanico (presenti nello spartiacque alpino tra Friuli e Austria) e slavo (distribuiti lungo la fascia che segue il confine con la Slovenia) che determinano aree plurilingui di notevole interesse storico e sociolinguistico. Questo intreccio delinea un panorama linguistico peculiare in cui trovano spazio ulteriori varietà locali e regionali, la cui presenza è dovuta ai massicci spostamenti di gruppi provenienti da varie regioni italiane, ma soprattutto molte lingue ‘altre’, parlate da gruppi che scelgono il Friuli come approdo stabile o luogo di transito: si tratta di flussi migratori di una certa consistenza numerica che hanno portato manodopera prima dai Paesi dell’Est e poi dalle aree più depresse del mondo.
 
I Patriarchi e gli Slavi
 
La fisionomia linguistica del friulano acquista tratti ben delineati a partire dal X secolo. Lo testimoniano il completo assorbimento delle parlate dei coloni slavi chiamati dai Patriarchi a ripopolare le zone della media pianura friulana e la resistenza alla pressione linguistica e culturale del mondo germanico, di cui il Friuli fu parte integrante fino al 1420, anno della dedizione del Patriarcato di Aquileia alla Repubblica di Venezia. Il governo della Serenissima sul Friuli si protrae fino al 1797, rimpiazzato dai Francesi di Napoleone e poi dagli Austriaci fino al 1866, quando a essi subentra il Regno d’Italia.
 
A Trieste niente friulano
 
Il friulano, parlato oggi da ca. 5.000.000 di persone, è una delle minoranze linguistiche storiche incluse nella legge 482/1999 ed è oggetto di tutela anche da parte di norme regionali, in base alle quali è stata anche definita una grafia ufficiale: in applicazione di tali leggi sono state incoraggiate iniziative per la salvaguardia e la diffusione della lingua e progetti di normalizzazione e standardizzazione, che talora sono espressione di istanze non solo culturali ma anche ideologiche e politiche. Va poi segnalato che la diffusione del friulano nella regione non si presenta in modo omogeneo: esso si mostra forte e compatto nelle aree montane e collinari e in quelle distanti dai centri maggiori e dalle vie di comunicazione, nei territori delle province di Pordenone e di Gorizia, ma nei centri urbani ha ceduto il passo all’italiano. Va poi sottolineato che il modello linguistico non è monolitico, e all’interno dell’area friulana convivono tipologie dialettali (occidentale, centro-orientale e carnico), per quanto riconducibili a un diasistema che assicura la mutua intercomprensione. Merita attenzione il fatto che un tempo anche a Trieste e a Muggia si parlava il friulano che è stato abbandonato nella seconda metà dell’Ottocento a favore del tipo veneto.
 
Friulano, vincolo di coesione comunitaria
 
Si può affermare che il friulano soddisfi esigenze comunicative legate alla pratica quotidiana e all’ambiente rurale e tradizionale, mentre più recenti sono gli usi amministrativi e ufficiali: attualmente il rapporto tra italiano e friulano è interpretabile nei termini di un bilinguismo in cui possono intervenire parziali sovrapposizioni e coincidenze funzionali, poiché la marilenghe viene talvolta adoperata nella scrittura letteraria e nella comunicazione pubblica mentre l’italiano, in quanto lingua nativa di gran parte dei parlanti, dilata sempre più il proprio spazio comunicativo anche ai domini informali. Il regresso del friulano è in ogni caso accompagnato dal fatto che esso viene percepito come un vincolo di coesione comunitaria: la storia della regione, la conformazione del territorio, il temperamento degli abitanti poco inclini alle innovazioni, il contenuto processo di urbanizzazione hanno in ogni caso agevolato il delinearsi di una varietà spiccatamente individuale rispetto al resto dell’Italia settentrionale e il mantenimento di un rilevante grado di vitalità.
 
Le comunità di lingua tedesca nel territorio friulano
 
Le comunità di lingua germanica disseminate lungo le aree alpine del Friuli ( link all’articolo di Marco Caria ) hanno avuto fin dall’inizio caratteri di insediamenti spontanei da parte di gruppi esigui di persone, allontanatisi verosimilmente dalle valli carinziane nel corso del XIII sec. alla ricerca di occupazione nell’estrazione mineraria (a Sappada/Plodn, ora in provincia di Belluno e a Timau/Tischlbong, ca. 700 abitanti, nella valle del But) o di sfruttamento di terre spopolate (a Sauris/Zahre, ca. 500 abitanti, nell’alta valle del Lumiei). Diversa è la vicenda dei tedescofoni della Val Canale/Kanaltal (con i centri principali di Pontebba/Pontafel e Tarvisio/Tarvis) sudditi fino la 1918 dell’Impero Austro-Ungarico. Si tratta di comunità che usano varietà di tedesco o austro-bavarese, talora a stretto contatto con sloveno e friulano in contesto plurilingue. Negli ultimi decenni si osserva, in specie fra i giovani, un progressivo cedimento delle antiche parlate: tale regresso è in parte rallentato dalla riscoperta delle proprie origini e da una più matura consapevolezza linguistica, favorite da molteplici iniziative promosse dalle associazioni culturali e dalle istituzioni locali.
 
Le comunità slovenofone del Friuli Venezia Giulia
 
Trovano spazio lungo la fascia montuosa e collinare del confine nord-orientale tra Italia e Slovenia. Parte di quest’area (alta valle del Torre e valli del Natisone), appartenente alla provincia di Udine, è anche nota, per l’antica dipendenza dalla Repubblica di Venezia, come Benècija o Slavia Veneta. Dal punto di vista linguistico, le comunità slovenofone sono suddivise in vari gruppi dialettali da nord verso sud: lo zegliano (zilijsko), propaggine italiana, acquisita dopo il primo conflitto mondiale, del dialetto della valle carinziana di Zeglia, ancora diffuso in alcuni centri della Val Canale (Kanalska Dolina), a contatto con dialetti tedeschi e i friulani; il resiano (rezijansko), in uso nei paesi della Val di Resia, che, esibendo tratti conservativi, rappresenta un caso a sé tra i dialetti sloveni del Friuli; il tersko, cioè i dialetti del Torre, sulle Prealpi, con diramazioni verso l’area pianeggiante; il nadiško, ossia i dialetti della Val Natisone (e delle valli contermini), tipo più vitale ed esteso. A questi si affiancano le varietà della provincia di Gorizia (briško cioè del Collio o collinare) e di Trieste (kraško, parlato prevalentemente nei paesi del Carso).
Di tale articolata compagine va sottolineato che gli slavofoni della fascia prealpina orientale del Friuli hanno saputo preservare fino ai nostri giorni la loro antica parlata avvantaggiati dal relativo isolamento in cui si sono trovati i loro insediamenti, situati in aree scarsamente popolate, e dal tenace radicamento alle origini etnico-linguistiche. Sul piano del riconoscimento e della tutela, gli sloveni della Provincia di Udine sono stati lasciati un po’ nell’ombra fino all’entrata in vigore della legge 38/2001, che intrducendo “Norme per la tutela della minoranza linguistica slovena della Regione Friuli-Venezia Giulia”, ha promosso una significativa politica linguistico-culturale di sviluppo degli idiomi locali; alla normativa statale si sono poi affiancati provvedimenti regionali. Diverso è stato il trattamento riservato alle altre comunità slovene della regione, che godono della tutela da parte dello Stato, in particolare nel settore scolastico, prevista alla fine del secondo conflitto mondiale dal Memorandum di Londra del 1948 e poi dal Trattato di Osimo del 1975.
Gli abitanti delle aree slovenofone non sono concordi nella scelta degli strumenti e del modello linguistico da proteggere e promuovere, che alcuni vorrebbero appiattire sullo sloveno letterario, ritenuto in grado di salvaguardare anche l’identità linguistica delle valli della provincia di Udine. A tale opzione si oppone tuttavia una parte consistente della popolazione, che vi ravvisa un tentativo di imporre una lingua che non percepisce come sua (lo sloveno letterario), a svantaggio delle parlate locali, che sono considerate invece il patrimonio da tutelare. La ragione di tale atteggiamento dipende anche dalla consapevolezza che esiste un forte legame partecipativo con le vicende storiche e culturali del Friuli (e indirettamente, dell’Italia) mentre i rapporti con gli Sloveni dell’opposto versante alpino, seppur mai interrotti, non sono stati mai così stringenti. Fino a qualche anno fa, inoltre, ribadire le relazioni di parentela linguistica coi vicini della ex Repubblica Iugoslava assumeva in alcune comunità il valore di accettazione di un simbolo politico sgradito a molti.
 
*Fabiana Fusco è professore associato di Linguistica e Teoria e storia della traduzione presso l’Università degli Studi di Udine. I suoi interessi scientifici si rivolgono all’ambito della sociolinguistica italiana e di area friulana, dell’interferenza linguistica (Che cos’è l’interlinguistica, Roma, Carocci 2008) e della storia e delle tecniche della traduzione Dal 1997 collabora con il Centro Internazionale sul Plurilinguismo di cui è Direttore Vicario.
 

SEI BILINGUE,NON AVRAI L'ALZEIMER


Un gruppo di ricercatori canadesi ha esaminato la documentazione clinica di 221 pazienti con Alzheimer e ha riscontrato che quanti parlano costantemente due o più lingue ritardano l'esordio dei sintomi anche di cinque anni rispetto alla restante popolazione. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista «Neurology». Secondo gli autori, il bilinguismo contribuisce a consolidare la «riserva cognitiva» del cervello. I vantaggi più evidenti sono sulla perdita di memoria, la confusione, la soluzione di problemi e la programmazione.

Uno studio di Ellen Bialystok (York University), Fergus Craik I. Mm (Rotman Research Institute), David W. Green (University College London), e Tamar H . Gollan (University of California, San Diego), pubblicato dalla rivista «Psychological science in the public interest» sostiene che i bambini che apprendono due lingue dalla nascita raggiungono gli stessi traguardi di base — ad esempio, la loro prima parola — dei bambini monolingui, ma possono utilizzare diverse strategie per l'acquisizione del linguaggio. Perciò i bilingui tendono ad avere risultati migliori rispetto ai monolingui su esercizi che richiedono un'alta concentrazione e la commutazione tra due o più compiti diversi.
Alla luce di queste ricerche non si può tacere la rabbia nei confronti di quegli insegnanti che per decenni in tutta la Slavia hanno cercato di convincere i genitori — riuscendoci in molti casi — a trasmettere ai propri figli solo l’italiano, pena futuri insuccessi scolastici. Ora la scienza certifica che hanno prodotto un grave danno. E non solo culturale.
http://www.dom.it/sei-bilingue-non-avrai-lalzheimer/


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