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🌞Blog che parla del Friuli: in particolare delle minoranze linguistiche slovena,friulana e tedesca e non solo. ❤️ Sono figlia di madre slovena (Ljubljana) e di padre appartenente alla minoranza slovena della provincia di Udine🌞 (Benecia).Conosco abbastanza bene la lingua slovena.Sono orgogliosa delle mie origini.OLga

INNO SLOVENO

তততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততত INNO SLOVENO "Vivano tutti i popoli che anelano al giorno in cui la discordia verrà sradicata dal mondo ed in cui ogni nostro connazionale sarà libero, ed in cui il vicino non sarà un diavolo, ma un amico!"❤️ FRANCE PREŠEREN poeta sloveno তততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততত

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26 mag 2022

Cassazione blocca l’assegno di mantenimento: «Pretendeva dal padre ancora più soldi»

 

Parla la legale dell’uomo che si è opposto al mantenimento della ragazza: «All’improvviso si è visto chiedere 500 euro in più al mese e ha reagito»

MONFALCONE «La sentenza della Suprema corte, da un punto di vista giuridico, è molto ben argomentata. È indubbiamente innovativa e, secondo il mio parere, pronta ad essere recepita anche in altri procedimenti similari. È la dimostrazione che, forse, ci si sta rendendo conto che i giovani devono darsi da fare e costruirsi una vita».

A parlare è l’avvocato Aurora Turco del Foro di Gorizia

dal Messaggero Veneto

Insegnare in più lingue qui è tradizione

 


Dal 2014 la Società filologica friulana organizza, a maggio, la Setemane de culture furlane/Settimana della cultura friulana, un programma di eventi per promuovere il patrimonio di storia, lingua e arte del Friuli.

L’iniziativa coinvolge molte realtà associative del Friuli-Venezia Giulia, anche per favorire sinergie progettuali e operative. Nell’ambito del programma di quest’anno, anche a Tarvisio/Trbiž sabato, 7 maggio, è stato organizzato il convegno «Scuole di confine». Tra i relatori Andrea Dessardo, ricercatore di Storia della pedagogiaall’Università europea di Roma, si è focalizzato sul periodo dei primi anni Venti del XX secolo, parlando dell’applicazione del decreto Corbino e delle contraddizioni della nazionalizzazione italiana ai nuovi confini. Lo storico, archivista e insegnante Ivan Portelli, che ha anche moderato l’evento, ha parlato dell’Istituto Arbarello, attivo dal 1921 al 1944 a Tolmin. Peter Černic, che è anche dirigente dell’Ufficio scuole slovene presso l’Ufficio scolastico del Friuli-Venezia Giulia, ha parlato della scuola slovena a Gorizia dalla riforma Gentile alla seconda guerra mondiale, mentre l’archivista Lucia Pillon ha presentato alcuni cenni relativi alla situazione degli archivi delle scuole di Gorizia (1924-1963).

Dopo gli interventi dell’insegnante Tomaž Simčič, che ha parlato della scuola slovena a Trieste, Gorizia e in provincia di Udine dal 1945 ai nostri giorni, nonché dell’ex dirigente scolastico Bojan Bratina e dell’insegnante di italiano Vlasta Lukman, che hanno parlato dell’insegnamento dell’italiano nelle scuole superiori di Nova Gorica, il focus è passato alla situazione locale. Come l’insegnamento plurilingue abbia una tradizione consolidata in Valcanale, è stato illustrato al pubblico dalle relazioni di alcuni insegnanti del territorio. Elisa Kandutsch ha parlato dell’insegnamento dello sloveno in Valcanale a fine Ottocento, mentre Donatella Sacchet, Annamaria Tributsch e Luca Grattoni hanno presentato la sperimentazione plurilingue nelle scuole di Valcanale e Canal del Ferro, in cui sloveno, tedesco e friulano divengono per parte del tempo lingue d’insegnamento accanto all’italiano.

Il convegno, che si è svolto nell’ambito del progetto «Sine finibus », promosso dalla Deputazione di Storia patria per il Friuli e sostenuto dalla Regione, è stato organizzato dal centro Docuscuele e dall’Istituto di storia sociale e religiosa di Gorizia, in collaborazione col Comune di Tarvisio. A nome di quest’ultimo ha portato i saluti l’assessore alla cultura, Antonio Petterin. (Luciano Lister)

https://www.dom.it/pouk-v-vec-jezikih-je-tukaj-obicaj_insegnare-in-piu-lingue-qui-e-tradizione/


100 anni fa nacque Enrico Berlinguer

 

  • 100 anni Enrico Berlinguer
  • Enrico Berlinguer e il socialismo del XXI secolo

  • Di Guido Liguori 24 maggio 22 | Inserito sotto: Italia Storia La sinistra
  • Segretario del Partito Comunista Italiano (PCI) dal 1972 al 1984, Enrico Berlinguer è noto da tempo per due grandi iniziative politiche da lui introdotte negli anni '70: a livello di politica interna, il compromesso storico (il compromesso storico); e, a livello internazionale, l'eurocomunismo. Il 25 maggio festeggiamo il suo centesimo compleanno.

    La prima era la proposta del 1973 di un accordo tra i maggiori partiti italiani – i partiti comunista, socialista e democristiano (DC) – per la riforma del Paese. È emerso dopo il colpo di statocontro il governo socialista-comunista di Salvador Allende in Cile e per anni prima dalla 'strategia della tensione' come risposta al grande periodo di lotte del 1968-69, cioè nasceva dalla convinzione che in una società come quella italiana, storicamente dal fascismo e soggetta alla 'sovranità limitata' imposta dagli Stati Uniti, il 51% non sarebbe sufficiente per governare e lasciare il segno alla sinistra. È stata una ripresa della strategia postbellica dei governi di unità nazionale di Palmiro Togliatti per sconfiggere il fascismo e ricostruire il paese. Ma per quasi tre decenni questo era stato vano, perché la Dc era diventata un partito di clientelismo politico, clientelismo e corruzione, oltre ad essere un luogo di anticomunismo duraturo.

    Il compromesso storico riscosse un vasto consenso ma alla fine naufragò, sia per le politiche antipopolari dei due governi di 'solidarietà nazionale' del 1976-79 guidati dal democristiano di destra Giulio Andreotti, sia per l'imprudentemente appoggiato dal PCI senza che a quest'ultimo sia concessa la piena partecipazione al gabinetto. Erano governi di emergenza di fronte alla profonda crisi economica più che versioni del compromesso storico, seppur sovrapponendosi al buon senso della proposta di Berlinguer del 1973 – vuoi perché con il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, Berlinguer perso, nella Dc, l'unico interlocutore importante disposto a dare almeno una sorta di cauto credito ai comunisti e al loro credo democratico. 

    L'iniziativa dell'eurocomunismo, invece, fu lanciata da Berlinguer sulla scena internazionale verso la metà degli anni '70 e maturò soprattutto tra il 1975 e il 1977. Il segretario del Pci – già cautamente critico nei confronti dell'invasione del Patto di Varsavia del 1956 in Ungheria – fu scossa dall'invasione della Cecoslovacchia nel 1968. In questo caso, il processo di rinnovamento democratico è stato guidato dallo stesso partito comunista del Paese, dal suo segretario Alexander Dubček, al cui fianco hanno lavorato duramente Longo e i comunisti italiani, vedendo in questo rinnovamento un percorso nazionale e democratico al socialismo che era molto vicino alle proprie posizioni tradizionali. 

    Dopo l'invasione di Praga, Berlinguer condusse una risoluta lotta all'interno del suo partito (che fu reso noto solo decenni dopo quando i suoi archivi furono resi accessibili) per farlo attrezzare politicamente e ideologicamente per dissociarsi dai sovietici; si recò in URSS per comunicare la forte protesta del PCI contro l'invasione; era addirittura convinto che i sovietici gli avessero attentato alla vita a causa di uno strano incidente stradale in cui fu coinvolto mentre si trovava in Bulgaria nel 1973, dal quale emerse miracolosamente vivo (anche questo fu reso noto molti anni dopo). Alla fine propose, ai comunisti spagnoli (che inizialmente lo accettarono) e ai francesi, la creazione di un polo comunista nell'Europa occidentale per costruire un "comunismo nella libertà", un comunismo democratico che attraesse i lavoratori all'interno del Occidente capitalista. 

    Così facendo tornava a principi già enunciati all'inizio degli anni '70, dichiarando solennemente che se fossero saliti al potere i comunisti si sarebbero impegnati a mantenere tutte le libertà politiche, culturali, sindacali e religiose. E a Mosca nel 1977, davanti a quasi tutti i comunisti del mondo riuniti per celebrare il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, dichiarò – incorrendo nell'ira dei sovietici – che per i comunisti italiani la democrazia era un 'valore storicamente universale', che quindi nessun paese comunista potrebbe farne a meno, pena la scomparsa della motivazione stessa del socialismo.

    I francesi e gli spagnoli, avendo, a vario titolo, preso le distanze dal movimento eurocomunista a cui originariamente aderivano, Berlinguer andò avanti, parlando della necessità di una 'terza via' (cioè una via al socialismo diversa da quella autoritaria dal socialismo sovietico e dalla socialdemocrazia, che non mirava al superamento del sistema capitalista), poi di una 'terza fase' della lotta per il socialismo, successiva a quelle simboleggiate dalla Seconda e dalla Terza Internazionale, ora vista conclusa e senza esito. E, infine, dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan e il colpo di stato filo-sovietico in Polonia – nel 1979 e nel 1981 – Berlinguer dichiarò che la Rivoluzione d'Ottobre aveva esaurito la sua "forza propulsiva",

    Se questo Berlinguer – del compromesso storico e dell'eurocomunismo – è come è più conosciuto, in Italia e all'estero, quello che è meno noto ma probabilmente più importante e vitale è l'"ultimo Berlinguer", cioè la sua visione scaturita da una profonda strategia strategica ripensare dopo la fine dei governi Giulio Andreotti di 'solidarietà nazionale', che avevano così esaurito il rapporto tra il Pci, il suo elettorato, ei lavoratori italiani. 

    Isolati politicamente dall'anticomunismo della DC post-Moro e del nuovo Partito socialista di Craxi, e di fronte all'inefficacia dello Stato nell'affrontare il grave terremoto dell'Irpinia del 1980, Berlinguer e il PCI denunciarono «i problemi di inefficienza, disonestà e immoralità' della dirigenza DC, un 'sistema di potere e concezione di governo' profondamente corrotto. Nasce così la politica dell'“alternativa democratica” proposta dal segretario del Pci.

     In quest'ultimo periodo della sua vita (morì inaspettatamente nel 1984) Berlinguer si rivolse soprattutto alla società italiana, nell'ottica di realizzare una 'riforma intellettuale e morale' Gramsciana in grado di cambiare il senso comune delle masse. Già nel 1977 aveva parlato – come aveva fatto Olof Palme qualche anno prima – di 'austerità', ma concepirla ha un' 'occasione per trasformare l'Italia', per creare un nuovo modello di sviluppo che limiti i consumi e l'egoismo individualisti. Nel 1980 passa alla Fiat per sostenere la lotta operaia, riattivando quel 'legame affettivo' con i lavoratori in parte perduti negli anni precedenti, attivismo che porterà avanti nella sua battaglia per la salvaguardia della 'scala mobile'. meccanismo che difendeva il salario dei lavoratori e il tenore di vita – di fronte all'attacco del governo Craxi, che mirava a tagliarlo. ..continua Fonte: Transform! Europe

La lingua slovena in Italia e nella Provincia di Udine (wikipedia)



La lingua slovena in Italia viene principalmente parlata da una comunità autoctona residente lungo il confine orientale. Non ci sono dati recenti e certi sui parlanti in sloveno o dialetti sloveni in Italia; statistiche del 1974 attestavano gli utilizzatori dello sloveno a 61.000 persone nel territorio del Friuli-Venezia Giulia, raccolti nella provincia di Trieste e nelle zone orientali delle province di Gorizia e Udine. La qualifica di "dialetto sloveno" qui considerata è quella derivante dalla legislazione italiana.

Notizie storiche

La diffusione dell’uso dello sloveno in alcune zone nel Nord-est dell’Italia trova la sua origine nell’Alto Medioevo; risalgono infatti già all’VIII secolo i primi documenti storici che attestano l’arrivo, dall’area balcanico-danubiana, di gruppi di popolazioni slave ed il loro insediamento nelle zone marginali della pianura friulana e delle sponde nord-orientali del Mare Adriatico, che dopo molteplici vicende storiche furono parte dello Stato italiano.
I primi territori abitati da sloveni ad entrare a far parte del territorio dello Stato italiano furono la Val Resia (slov. Rezija), le Valli del Torre (slov. Terska dolina) e le Valli del Natisone (slov. Nediške doline), nel 1866 a conclusione della terza guerra di indipendenza italiana.

L’assegnazione all’Italia degli altri territori ancora oggi abitati da sloveni (Val Canale, Gorizia e Trieste), avvenne al termine della prima guerra mondiale in base al Trattato di Rapallo (1920).
Con l'avvento del fascismo (1922) si inaugurò una politica d'italianizzazione forzata.
  • gran parte degli impieghi pubblici furono assegnati agli appartenenti al gruppo etnico italiano;
  • nelle scuole fu vietato l'insegnamento dello sloveno in tutte le scuole della regione. Con l'introduzione della Legge n. 2185 del 1/10/1923 (Riforma scolastica Gentile), fu abolito nelle scuole l'insegnamento della lingua slovena. Nell'arco di cinque anni tutti gli insegnanti sloveni delle scuole con lingua d'insegnamento slovena, presenti sul territorio abitato da sloveni assegnati all'Italia con il trattato di Rapallo, furono sostituiti con insegnanti originari dell'Italia, e l'insegnamento impartito esclusivamente in lingua italiana
  • col R. Decreto N. 800 del 29 marzo 1923 furono imposti d'ufficio nomi italiani a tutte le centinaia di località dei territori assegnati all'Italia col Trattato di Rapallo, anche laddove precedentemente prive di denominazione in lingua italiana.
La Provincia di Udine
I cittadini italiani di lingua slovena della provincia di Udine sono suddivisi in tre comunità autoctone, ognuna con specificità proprie.
La maggior parte è compresa nella Slavia friulana, dove si parlano i dialetti sloveni detti del Natisone(nadiški) e del Torre (terski). Essa comprende i comuni di LuseveraTaipanaPulferoSavognaGrimacco,DrenchiaSan Pietro al NatisoneSan LeonardoStregna e le frazioni montane dei comuni di Nimis,AttimisFaedisTorreano e Prepotto. L’arrivo delle popolazioni slave sulle sponde del fiume Natisone iniziato già nel VII secolo è documentato dallo storico Paolo Diacono. Gli slavi si stabilirono in queste zone già in epoca longobarda, tanto che fu proprio il potere longobardo ad accogliere i primi coloni e ad imporre il confine orientale tra popolazione romanza e slava, quasi coincidente al limite naturale esistente tra la pianura (romanza) e il territorio montuoso delle prealpi (slavo).
Gli abitanti di Resia parlano un dialetto sloveno arcaico (il resiano) che viene percepito da molti parlanti, che hanno sviluppato una propria peculiare identità etno-linguistica, come idioma a sé stante.
I parlanti sloveno della Val Canale vivono nei comuni di Malborghetto-Valbruna (frazioni Valbruna, Bagni di Lusnizza, Santa Caterina, Ugovizza), Pontebba (frazione Laglesie San Leopoldo), a Tarvisio (frazioni Camporosso, Cave del Predil, Fusine in Valromana). Storicamente hanno fatto parte, fino al 1918, della Carinzia e della Carniola (frazione tarvisiana di Fusine in Valromana) e sono l'unica comunità slovena della provincia di Udine che ha storicamente goduto di un sistema scolastico in lingua slovena.
In base al censimento del 1921 gli Sloveni in provincia di Udine erano circa 34.000.
Comuni a maggioranza slavofona nella provincia di Udine:

SLAVIA: L'etimologia di "slavo". Tra gloria e schiavitù

 

kolovrat
ruota

Una schiavitù proverbiale
Dopo un’espansione che li portò, tra il quinto e l’ottavo secolo, in Asia minore e in Grecia, in Africa settentrionale e sul Baltico, gli slavi subirono la risposta dei franchi, dei tedeschi, dei danesi e dei bizantini che – dopo averne subito il “maremoto” – riguadagnano al loro controllo ampie fette di territori slavizzati e ne assoggettano la popolazione ancora in larghissima parte pagana. In particolare fu notevole l’asservimento degli slavi settentrionali i quali, occupate le pianure di una Germania abbandonata a seguito delle migrazioni verso sud di longobardi, franchi, goti e vandali, videro il rapido riorganizzarsi dei gruppi rimasti in entità statali via via più organizzate. Bavari, sassoni e poi franchi, fino ai cavalieri teutonici, per circa due secoli gli slavi subirono la “riconquista” germanica. Tale “riconquista” fu così violenta che il poeta ceco Jan Kollar, nel XVIII° secolo, chiamò la Germania “cimitero degli slavi”.
La schiavitù degli slavi divenne proverbiale e diede origine, in pressoché tutte le lingue europee, al termine “schiavo”. Il vocabolo latino “sclavus” (schiavo, appunto) fece la sua comparsa nel XIII° secolo sostituendo il termine classico “mancipium” (da cui “emancipare”, uscire da stato di asservimento). Allo stesso tempo, nel greco bizantino, compare il termine “sklavos” per dire “servo, schiavo”. I due termini derivano da “slavo” (e non viceversa) poiché all’epoca gli slavi erano “schiavi per eccellenza”. Fu così che il nome di un popolo divenne un termine estensivo per una categoria di persone, tanto che oggi lo ritroviamo nell’italiano, nel francese (esclave), nel catalano (scrau), nel tedesco (sklave), nell’olandese (slaaf) e nell’inglese (calco perfetto, slave).
Durante l’alto Medioevo carovane di slavi percorrevano l’Europa da una piazza all’altra,Venezia, Ratisbona, Lione erano i principali mercati per questa particolare “merce”. A Verdun si trovava il più importante mercato di eunuchi del continente. La riduzione in schiavitù delle genti slave fu moralmente possibile, ed anzi caldeggiata, proprio in virtù del loro paganesimo. IlConcilio di Meaux, nell’845, stabilì il divieto di vendere “merce” cristiana ma non riteneva che si dovessero avere particolari cure per i non battezzati. Non bastò a proteggerli la conversione al cristianesimo, poiché a sostituire i tedeschi furono i tataro-mongoli, che ne fecero razzia in Russia, e i mercanti musulmani durante il dominio ottomano sui Balcani: la schiavitù degli slavi di Bosnia ed Erzegovina è descritta nel Viaggio d’Oltremare del siniscalco di Filippo il Buono, nel 1432. Gli slavi, per l’Europa tedesca e il papato germanizzato, furono per larga parte del Medioevo considerati qualcosa “d’altro” rispetto all’Europa. Il mito dell’alterità slava, della loro irriducibile diversità dal corpo latino-germanico, è durata dal Medioevo fino al Novecento: nei piani dei nazisti non c’era infatti anche l’eliminazione e l’asservimento degli slavi di Polonia?
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con il diffondersi delle terribili teorie razziste, gli storici tedeschi giunsero ad affermare che gli slavi non fossero nemmeno indoeuropei (o “indogermanici”, come dicevano loro). Una falsità che derivava dal pregiudizio radicato nella storia tedesca, una storia che si è violentemente incrociata con quella degli slavi. Il pregiudizio era tale che il filologo tedesco J. Peisker, nel 1905, sostenne che gli slavi fossero stati schiavi fin dall’antichità: tesi – palesemente infondata –  che faceva comodo a uno stato con ambizioni egemoniche verso est, e che occupava antiche terre slave. Tesi che sarebbe poi stata portata all’estremo dai nazisti che elaborarono, nel 1940, il Generalplan Ost che prevedeva l’eliminazione fisica e la deportazione di polacchi e cechi. L’assunto nazista era semplice: se sono schiavi da sempre, come sosteneva Peisker, è perché tale è la loro natura. Quindi perché non assecondarla? Ad Auschwitz sono molti i nomi di cittadini polacchi, non ebrei né oppositori politici, presenti negli elenchi degli internati. La loro colpa? Essere slavi e non essere abbastanza biondi.
La teoria panslavista 
Abbiamo dunque visto come il nome di un popolo sia andato a designare una particolare categoria sociale, quasi a segnarne un destino. Ma cosa significa davvero “slavo”‘, da dove ha origine? L’etimologia è incerta. Nel XVIII e XIX secolo prese piede una teoria che intendeva “emancipare” la parola “slavo”: secondo alcuni letterati russi, in piena temperie panslavista, l’etnonimo “slavo” deriverebbe dal sostantivo “slava”, ovvero “gloria” e “fama”. Un termine comune a molte lingue slave moderne che attesterebbe la grandezza originale degli slavi. Era quella una chiave di lettura ispirata dal nazionalismo e presto i linguisti ne dimostrarono l’infondatezza.
La teoria celebrativa
Quello che però è certo è che la radice “slav” deriva dall’indoeuropeo “klou / klau” (Villar) con il significato di “sentire“. In greco la radice “klou / klau” ha dato luogo alle nozioni di “sentire” e “ascoltare”, e chi è ascoltato ha fama. Esito simile a quello del latino “inclitus” (avere fama). Che quindi gli slavi fossero quelli che “avevano fama” è una ipotesi suggestiva e che ben risponde all’abitudine tipica dei popoli antichi di nominarsi in senso auto-celebrativo. A sostegno di questa tesi ci sarebbe l’analogia con il nome di un altro gruppo etnico dell’antichità, i Venedi, collocati da Plinio il Vecchio e da Tacito sulle sponde della “Vistla”, l’odierna Vistola. Un popolo che Tolomeo definì “di grandi dimensioni” ed “esteso sul golfo venedico”, cioè il Baltico.
Secondo alcuni storici la presenza dei Venedi lungo la Vistola proprio nel periodo in cui gli slavi erano emigrati in quelle terre, deporrebbe a favore del fatto che i Venedi fossero slavi. La radice del nome dei Venedi è l’unica cosa certa: deriva dalla radice indoeuropeaa “wen”, con il significato di “amare”. Quindi “wenetoi” sarebbero “gli amati” o forse “gli amabili”, nel senso di amichevoli (stessa radice del popolo dei Veneti dell’Adriatico occidentale, italici; dei Veneti celti descritti da Giulio Cesare; dei Veneti illirici della Dalmazia; della tribù laziale deiVenetulanos). E’ questa un’altra nominazione autocelebrativa in cui taluni vedono un elemento a suffragio della teoria autocelebrativa del nome “slavo”, poiché slavi sarebbero appunto i Veneti.
La teoria dell’unità linguistica
Due etimologie interessanti cominciarono a prendere piede nel secondo dopoguerra, facendo leva sui rinnovati studi di paleolinguistica e linguistica comparativa. Secondo la prima “slavo” andrebbe accostato a “slovo”, cioè “parola”. Gli slavi sarebbero quindi “coloro che parlano con le stesse parole” in contrapposizione a “nemcy”, i “muti” (è significativo che quell’appellativo, conservatosi nella lingua polacca, si riferisca oggi ai soli tedeschi). La connessione tra “slavo” e “slovo” è quasi automatica e sappiamo che molte tribù slave del Medioevo non distinsero mai i due termini.  E’ questa la teoria più accreditata e diffusa.
La teoria geografica
Suggestiva è poi la teoria geografica. Grazie all’archeologia sappiamo che le genti slave, prima della grande migrazione verso il cuore dell’Europa, che differenzierà i vari popoli, vivevano in uno “spazio comune” situato nel bacino paludoso del Pripjat, tra i fiumi Dnepr e Dnestr. Secondo alcuni studiosi il termine “slavo” indicherebbe proprio quello spazio originario acquitrinoso, derivando dall’indoeuropeo “skloak” (che in latino ha dato origine a “cloaca” che significa “canale di scolo” o “acquitrino”). Insomma, il classico trasferimento del nome del luogo al popolo che vi abita, cosa per altro comune tra le genti slave: la tribù dei Vislani, che viveva lungo il fiume Vistola (oggi Wisla in polacco); quella dei Pomerani, che viveva po (a ridosso) more (del mare); quelli che vivevano nelle pole (pianure), cioè i polani / polacchi. Secondo questa teoria gli slavi sarebbero dunque “il popolo che vive negli acquitrini”, in quella regione originaria da cui sono poi migrati per segnare per sempre la storia d’Europa.
http://www.eastjournal.net/archives/49527

25 mag 2022

L’arrivo del Giro d’Italia in Fvg.




È pronto e operativo il piano di gestione della viabilità per l’arrivo del Giro d’Italia in Friuli Venezia Giulia. Venerdì 27 maggio, in occasione della diciannovesima tappa da Marano Lagunare al Santuario di Castelmonte, le strade regionali saranno sotto pressione per le tante interruzioni temporanee, alla viabilità, interessata dall’importante manifestazione sportiva. Gli atleti saranno protagonisti infatti di un lungo percorso lungo 178 chilometri tra strade regionali, ex provinciali e comunali. Per questo è stato attivato un protocollo di presidio e sicurezza ad opera di Fvg Strade e dalla Motostaffetta Friulana.

L’assessore alle Infrastrutture e territorio Graziano Pizzimenti ha spiegato che il piano di monitoraggio nasce dalla consapevolezza di tutti gli attori coinvolti circa lo stress a cui sarà sottoposta la rete stradale afferente alle località interessate dal passaggio del “Giro d’Italia”, nelle fasi propedeutiche alle tappe, durante lo svolgimento delle stesse e in fase di smobilitazione. Le arterie stradali direttamente interessate dalla tappa saranno chiuse al traffico veicolare: questo potrà causare sovraccarichi lungo le strade limitrofe con possibili congestioni e criticità ed è quindi fondamentale offrire all’utenza un servizio di presidio e sicurezza oltre che di informazione coordinata, sempre reperibile tramite app, in merito alla percorribilità delle arterie stradali e a tutti gli eventi che potrebbero modificare la normale circolazione sulle strade di rispettiva competenza.

Diversi i punti critici che saranno sotto osservazione, non solo da parte dell’Amministrazione regionale ma anche da parte delle polizie locali e stradale. Trentadue addetti sotto la diretta responsabilità della Regione saranno dislocati lungo il percorso, quindici dei quali grazie ad un accordo specifico siglato con la Motostaffetta Friulana, che verrà presentato domani al Santuario di Castelmonte, destinazione finale della tappa...continua https://www.friulioggi.it/friuli-venezia-giulia/giro-italia-fvg-piano-regione-viabilita-25-maggio-2022/

Proposte di ForEst

 Newsletter #10/2022 -

PROFUMO D'ESTATE 🌄

Le temperature iniziano a salire, le fioriture hanno ormai preso la strada per i monti. Avremo tutta l'Estate per inseguirle, e simbolicamente Le Api di Laura questo sabato ci indicheranno la strada.

‼ QUESTA SETTIMANA:

🟩


Sabato 28 Maggio

LE CASCATE DI PINZANO E LE API DI LAURA

Escursione tra cascate e sorgenti sul verde Anello di Pinzano, con visita guidata alle "nostre" Api di Laura!

https://www.facebook.com/events/308091061501011/

🟦 Domenica 29 Maggio

IL MATAJUR DA SAN PIETRO

Per il ciclo "Le Otto Montagne", entriamo nel mondo del Matajur partendo dal fondovalle, da San Pietro al Natisone fino a raggiungerne la cima.

Un'entusiasmante esplorazione della lunga dorsale!

https://www.facebook.com/events/335342418625473/

👉 CLICCA QUI per leggere tutte le prossime novità sull'ultima NEWSLETTER:

https://mailchi.mp/e19f0f.../forest-news-10-profumo-d-estate

Un saluto e ci vediamo come sempre tra boschi, prati, vallate.

da fb

A presto! 

24 mag 2022

Zaporizhzhya: la città simbolo dei profughi ucraini




 Sofiya Stetsenko

Mentre l’Europa sta attendendo l’arrivo dell’estate, il popolo ucraino è fermo ancora a quel 24 febbraio del 2022. La guerra continua e la strada per l’accordo di un cessate il fuoco sembra ancora lontana. Tra tutte le città dell’est ucraino, Zaporizhzhya sembra ricoprire un ruolo di grande importanza, quello dell’accoglienza dei profughi all’interno del paese.

Oltre ai superstiti di Mariupol’, che fino al 1 maggio 2022 si trovavano intrappolati nei bunker e sotterranei dell’acciaieria Azovstal – diventata simbolo della resistenza e la fortezza del Battaglione Azov – Zaporizhzhya ospita i civili della propria oblast’ e delle regioni del sud-est ucraino. Ad oggi il numero delle persone costrette a fuggire dalle proprie case a Zaporizhzhya è imponente. Zaporizhzhya ha accolto circa 122 mila civili, di cui 33 mila sono i bambini.

Sicuramente, la tragedia di Mariupol’ ha tenuto tutta la popolazione ucraina e mondiale con il fiato sospeso. Per cui, quando – il 3 maggio 2022 – i primi 126 civili nascosti all’interno dell’Azovstal sono riusciti a raggiungere il suolo zaporizhzhiyano, la speranza si è fatta strada nei cuori degli ucraini. Fino al 22 marzo 2022, il rifugio principale di Zaporizhzhya era il Circo statale, uno spazio grande che poteva ricevere molte persone, ma – allo stesso tempo – freddo. Per cui, dal giorno 23 marzo, il centro dei rifugiati principale è stato spostato presso il centro espositivo del «Kozak Palats». Oltre agli rifugi principali, che offrono i beni di prima necessità, cantine e posti letto, è stato aperto un centro di sostegno esclusivamente per i rifugiati di Mariupol. Infatti, i volontari qualificati di «Io sono Mariupol» (Я – Маріуполь) forniscono assistenza psicologica, sociale, legale e medica per i nuovi arrivati.

Il giorno 17 maggio 2022 Mariupol è caduta, ma la sua gente continua a vivere una crisi umanitaria drammatica. Tuttavia, è importante ricordare che non è l’unica città a soffrire le conseguenze dell’occupazione russa. Infatti, in seguito ai costanti bombardamenti degli ospedali, asili, scuole e case, le popolazioni di Polohy, Vasylivka, Melitopol, Dniprorudne, Berdyansk, Energodar, Oryhive, Huliaipol – città e villaggi che fanno parte della Zaporiz’ka oblast’ – sono state evacuate presso i centri di accoglienza nel centro di Zaporizhzhya, dove i volontari cercano di farli sentire a casa con la loro costante presenza.

La vita all’interno di questi rifugi è intessuta di lacrime degli adulti, consapevoli di aver perso tutto, e sorrisi dei bambini, coccolati dai volontari. Sarà il sangue ribelle cosacco o semplicemente voglia di libertà su tutti i fronti, ma gli zaporizhtsi preferiscono agire tramite iniziative proprie, piuttosto che seguire le indicazioni delle organizzazioni internazionali. Così, un noto locale – Beluga – ha trasformato il suo karaoke e night pub in cantina per i militari e rifugiati ucraini. Il proprietario del locale, Oleksandr Beluga, rende noto sul suo account Instagram che lui insieme ai suoi 170 volontari preparano più di 3000 razioni giornaliere. Mentre carica il cibo e i beni di prima necessità nella nuova auto blindata – acquistata grazie agli sforzi dei volontari – Oleksandr ride e afferma: «сытый воин, сильный воин» (guerriero ben nutrito, guerriero forte). Il suo umore è sempre positivo e ottimista, spiega che non c’è tempo per demoralizzarsi.

Nonostante la crisi immane che sta fronteggiando la nazione, l’attuale capo dell’amministrazione militare dell’oblast di Zaporizhzhya, Oleksandr Starukh, in un’intervista ha voluto sottolineare lo spirito libero dei cosacchi. Difatti, sin dal primo giorno della guerra, Zaporizhzhya opera su tutti i campi. I civili cercano di contribuire all’economia locale, sforzandosi di condurre lo stile di vita pre-guerra, i militari combattono difendendo la propria terra, mentre la città fa da rifugio per chi scappa da realtà ancor più crudeli. Riusciranno i «cosacchi contemporanei» a difendere ancora una volta la propria terra? Questa guerra si è dimostrata molto imprevedibile. L’unica cosa è certa: il mito dei cosacchi brucerà nel sangue zaporizhzhiyano fino all’ultima goccia di speranza.

fonte Wikimedia commons

https://www.eastjournal.net/archives/125945

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