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26 mag 2022

SLAVIA: L'etimologia di "slavo". Tra gloria e schiavitù

 

kolovrat
ruota

Una schiavitù proverbiale
Dopo un’espansione che li portò, tra il quinto e l’ottavo secolo, in Asia minore e in Grecia, in Africa settentrionale e sul Baltico, gli slavi subirono la risposta dei franchi, dei tedeschi, dei danesi e dei bizantini che – dopo averne subito il “maremoto” – riguadagnano al loro controllo ampie fette di territori slavizzati e ne assoggettano la popolazione ancora in larghissima parte pagana. In particolare fu notevole l’asservimento degli slavi settentrionali i quali, occupate le pianure di una Germania abbandonata a seguito delle migrazioni verso sud di longobardi, franchi, goti e vandali, videro il rapido riorganizzarsi dei gruppi rimasti in entità statali via via più organizzate. Bavari, sassoni e poi franchi, fino ai cavalieri teutonici, per circa due secoli gli slavi subirono la “riconquista” germanica. Tale “riconquista” fu così violenta che il poeta ceco Jan Kollar, nel XVIII° secolo, chiamò la Germania “cimitero degli slavi”.
La schiavitù degli slavi divenne proverbiale e diede origine, in pressoché tutte le lingue europee, al termine “schiavo”. Il vocabolo latino “sclavus” (schiavo, appunto) fece la sua comparsa nel XIII° secolo sostituendo il termine classico “mancipium” (da cui “emancipare”, uscire da stato di asservimento). Allo stesso tempo, nel greco bizantino, compare il termine “sklavos” per dire “servo, schiavo”. I due termini derivano da “slavo” (e non viceversa) poiché all’epoca gli slavi erano “schiavi per eccellenza”. Fu così che il nome di un popolo divenne un termine estensivo per una categoria di persone, tanto che oggi lo ritroviamo nell’italiano, nel francese (esclave), nel catalano (scrau), nel tedesco (sklave), nell’olandese (slaaf) e nell’inglese (calco perfetto, slave).
Durante l’alto Medioevo carovane di slavi percorrevano l’Europa da una piazza all’altra,Venezia, Ratisbona, Lione erano i principali mercati per questa particolare “merce”. A Verdun si trovava il più importante mercato di eunuchi del continente. La riduzione in schiavitù delle genti slave fu moralmente possibile, ed anzi caldeggiata, proprio in virtù del loro paganesimo. IlConcilio di Meaux, nell’845, stabilì il divieto di vendere “merce” cristiana ma non riteneva che si dovessero avere particolari cure per i non battezzati. Non bastò a proteggerli la conversione al cristianesimo, poiché a sostituire i tedeschi furono i tataro-mongoli, che ne fecero razzia in Russia, e i mercanti musulmani durante il dominio ottomano sui Balcani: la schiavitù degli slavi di Bosnia ed Erzegovina è descritta nel Viaggio d’Oltremare del siniscalco di Filippo il Buono, nel 1432. Gli slavi, per l’Europa tedesca e il papato germanizzato, furono per larga parte del Medioevo considerati qualcosa “d’altro” rispetto all’Europa. Il mito dell’alterità slava, della loro irriducibile diversità dal corpo latino-germanico, è durata dal Medioevo fino al Novecento: nei piani dei nazisti non c’era infatti anche l’eliminazione e l’asservimento degli slavi di Polonia?
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con il diffondersi delle terribili teorie razziste, gli storici tedeschi giunsero ad affermare che gli slavi non fossero nemmeno indoeuropei (o “indogermanici”, come dicevano loro). Una falsità che derivava dal pregiudizio radicato nella storia tedesca, una storia che si è violentemente incrociata con quella degli slavi. Il pregiudizio era tale che il filologo tedesco J. Peisker, nel 1905, sostenne che gli slavi fossero stati schiavi fin dall’antichità: tesi – palesemente infondata –  che faceva comodo a uno stato con ambizioni egemoniche verso est, e che occupava antiche terre slave. Tesi che sarebbe poi stata portata all’estremo dai nazisti che elaborarono, nel 1940, il Generalplan Ost che prevedeva l’eliminazione fisica e la deportazione di polacchi e cechi. L’assunto nazista era semplice: se sono schiavi da sempre, come sosteneva Peisker, è perché tale è la loro natura. Quindi perché non assecondarla? Ad Auschwitz sono molti i nomi di cittadini polacchi, non ebrei né oppositori politici, presenti negli elenchi degli internati. La loro colpa? Essere slavi e non essere abbastanza biondi.
La teoria panslavista 
Abbiamo dunque visto come il nome di un popolo sia andato a designare una particolare categoria sociale, quasi a segnarne un destino. Ma cosa significa davvero “slavo”‘, da dove ha origine? L’etimologia è incerta. Nel XVIII e XIX secolo prese piede una teoria che intendeva “emancipare” la parola “slavo”: secondo alcuni letterati russi, in piena temperie panslavista, l’etnonimo “slavo” deriverebbe dal sostantivo “slava”, ovvero “gloria” e “fama”. Un termine comune a molte lingue slave moderne che attesterebbe la grandezza originale degli slavi. Era quella una chiave di lettura ispirata dal nazionalismo e presto i linguisti ne dimostrarono l’infondatezza.
La teoria celebrativa
Quello che però è certo è che la radice “slav” deriva dall’indoeuropeo “klou / klau” (Villar) con il significato di “sentire“. In greco la radice “klou / klau” ha dato luogo alle nozioni di “sentire” e “ascoltare”, e chi è ascoltato ha fama. Esito simile a quello del latino “inclitus” (avere fama). Che quindi gli slavi fossero quelli che “avevano fama” è una ipotesi suggestiva e che ben risponde all’abitudine tipica dei popoli antichi di nominarsi in senso auto-celebrativo. A sostegno di questa tesi ci sarebbe l’analogia con il nome di un altro gruppo etnico dell’antichità, i Venedi, collocati da Plinio il Vecchio e da Tacito sulle sponde della “Vistla”, l’odierna Vistola. Un popolo che Tolomeo definì “di grandi dimensioni” ed “esteso sul golfo venedico”, cioè il Baltico.
Secondo alcuni storici la presenza dei Venedi lungo la Vistola proprio nel periodo in cui gli slavi erano emigrati in quelle terre, deporrebbe a favore del fatto che i Venedi fossero slavi. La radice del nome dei Venedi è l’unica cosa certa: deriva dalla radice indoeuropeaa “wen”, con il significato di “amare”. Quindi “wenetoi” sarebbero “gli amati” o forse “gli amabili”, nel senso di amichevoli (stessa radice del popolo dei Veneti dell’Adriatico occidentale, italici; dei Veneti celti descritti da Giulio Cesare; dei Veneti illirici della Dalmazia; della tribù laziale deiVenetulanos). E’ questa un’altra nominazione autocelebrativa in cui taluni vedono un elemento a suffragio della teoria autocelebrativa del nome “slavo”, poiché slavi sarebbero appunto i Veneti.
La teoria dell’unità linguistica
Due etimologie interessanti cominciarono a prendere piede nel secondo dopoguerra, facendo leva sui rinnovati studi di paleolinguistica e linguistica comparativa. Secondo la prima “slavo” andrebbe accostato a “slovo”, cioè “parola”. Gli slavi sarebbero quindi “coloro che parlano con le stesse parole” in contrapposizione a “nemcy”, i “muti” (è significativo che quell’appellativo, conservatosi nella lingua polacca, si riferisca oggi ai soli tedeschi). La connessione tra “slavo” e “slovo” è quasi automatica e sappiamo che molte tribù slave del Medioevo non distinsero mai i due termini.  E’ questa la teoria più accreditata e diffusa.
La teoria geografica
Suggestiva è poi la teoria geografica. Grazie all’archeologia sappiamo che le genti slave, prima della grande migrazione verso il cuore dell’Europa, che differenzierà i vari popoli, vivevano in uno “spazio comune” situato nel bacino paludoso del Pripjat, tra i fiumi Dnepr e Dnestr. Secondo alcuni studiosi il termine “slavo” indicherebbe proprio quello spazio originario acquitrinoso, derivando dall’indoeuropeo “skloak” (che in latino ha dato origine a “cloaca” che significa “canale di scolo” o “acquitrino”). Insomma, il classico trasferimento del nome del luogo al popolo che vi abita, cosa per altro comune tra le genti slave: la tribù dei Vislani, che viveva lungo il fiume Vistola (oggi Wisla in polacco); quella dei Pomerani, che viveva po (a ridosso) more (del mare); quelli che vivevano nelle pole (pianure), cioè i polani / polacchi. Secondo questa teoria gli slavi sarebbero dunque “il popolo che vive negli acquitrini”, in quella regione originaria da cui sono poi migrati per segnare per sempre la storia d’Europa.
http://www.eastjournal.net/archives/49527

6 mag 2022

TERREMOTO - TRES

  Il Friuli ringrazia e non dimentica

               Il Friul al ringrazie e nol dismentee
               Furlanija se zahvaljuje in ne pozabi
Moreno Tomasetig L'Orcolat ("orcaccio", spregiativo del friulano orcul, "orco") è un mostruoso essere che la tradizione popolare indica come causa dei terremoti in Friuli. L'Orcolat è una figura ricorrente soprattutto nei racconti della tradizione popolare. Vivrebbe rinchiuso nelle montagne della Carnia: ogni suo agitarsi bruscamente provocherebbe un terremoto.
Dopo il 1976 è divenuto sinonimo del terremoto che colpì il Friuli in quell'anno.
immagine da fb
Il 6 maggio 1976 era un venerdì ,la serata era calda.I bambini di Pradielis/Ter giocavano,come ogni sera in piazza, prima del rientro alle proprie case.
Era molto afoso,gli anziani ,come di consueto,dopo l'Ave Maria si stavano preparando per andare a dormire,per poter continuare il giorno dopo i lavori nella stalla e nei campi.
Alcuni si trattenevano nell' osteria del paese per bere al banco un bicchiere di vino dopo le fatiche della giornata.
Tutto era calmo,poi il primo allarme,una specie di tuono,ma nessuno ci fece caso, un rimbombo, i vetri delle finestre risuonarono.Si sentì un boato,poi una terribile scossa alle 21 e 24 minuti che è durata 59 secondi(magnitudo 6,5 Richter).
Il terremoto colpì tutto il Friuli e portò solo distruzione.Le case crollarono e con esse tutto ciò vi era dentro,le campane cominciarono a suonare da sole,gli orologi sui campanili si fermarono alle 21.Le case di sasso crollarono e sotto di sè affondavano tutto ciò che era nelle vicinanze.Le luci si spensero ,molte fontane non erogarono l'acqua.La gente rimase di sasso,scappò e molti furono colpiti dal crollo.
A Podbardo/Ciseriis morirono sotto le macerie 6 persone e successivamente 2 per le conseguenze.Dalle frane ,dalle rocce e dai ghiaioni si diffondeva una polvere soffocante,dalle pendenze dei Musi ,del Zajavor,dalla Velika Glava e da Tanaroba si innalzava una nebbia soffocante.Cumuli di sassi ricoprivano tutto,molte case crollarono.La gente scappava all'aperto,spaventata senza rendersi conto di cosa stesse succedendo.
A Podbardo/Ciseriis due donne rimasero intrappolate nella stalla per il crollo del tetto e rimasero sotto le macerie.Anche gli animali cercavano di scappare.
Gli aiuti da Tarcento e da Nimis non potevano arrivare perchè le strade erano impraticabili,gli abitanti cercarono di aiutarsi a vicenda.Si poteva arrivare a Lusevera solo a piedi attraverso i sentieri.
Per prima cosa si radunarono nella Velika Njiva/Grande Campo a Bardo/Lusevera per vedere quanti erano presenti.Mancava all'appello un'anziana e quindi andarono a cercarla:era bloccata nel letto e non poteva muoversi e fu aiutata ad uscire.E così successe in altri paesi del comune di Lusevera/Bardo.
Arrivarono le tende,si fecero le tendopoli e furono sistemati alla buona i tetti delle case dai proprietari.
Giunsero le donazioni degli emigranti, i contributi dello Stato,delle associazioni umanitarie, gli aiuti internazionali e quelli delle nazioni vicine.
I tecnici della Slovenia che avevano contribuito alla ricostruzione di Skopje organizzarono sul castello di Udine un seminario con esempi pratici per insegnare agli addetti ai lavori come si doveva aggiustare e ricostruire in modalità antisismica.
Arrivarono le roulottes,molte persone furono trasferite a Lignano,Grado,in altri luoghi o da parenti.
Gli animali ad Arta Terme e altri luoghi della Carnia.
Furono montate le case prefabbricate slovene,le"valentine"casette di legno costruite dalla ditta Piero della Valentina.
Poi ci fu la ricostruzione, è stato ricostruito tutto com'era,col minimo di interventi legislativi e coi risultati migliori.
Trent'anni dopo ogni opera è compiuta e non c'è muro che non sia stato ricostruito come prima.
Nell'immaginario collettivo ,merito dei friulani e del loro carattere laborioso.Nella realtà,risultato di scelte politiche un tempo tanto sagge.

tradotto dal libro "Na izpostavljenem mestu/Tra la propria gente"
racconto autobiografico in memoria di Viljem Černo scomparso 


Viljem  Černo

il terremoto del Friuli del 1976
 Fu un sisma di magnitudo 6.5 della scala Richter che colpì il Friuli, e i territori circostanti, alle ore 21:00:12 del 6 maggio 1976, con ulteriori scosse l'11 e 15 settembre
I danni del terremoto del maggio 1976 furono amplificati da altre due scosse, a fine dell'estate.
L'11 settembre 1976 la terra tremò di nuovo: si verificarono infatti due scosse alle 18:31 (Mw 5.3) e alle 18:35 (Mw5.6).Il 15 settembre 1976, prima alle ore 5:15 e poi alle ore 11:21, si verificarono due ulteriori forti scosse, rispettivamente di magnitudo 5.9 e 6.0 I comuni di TrasaghisBordanoOsoppoMontenarsGemona del FriuliBujaVenzone e la frazione di Monteaperta, le località maggiormente colpite, furono fortemente danneggiati. La popolazione di quei comuni fu trasferita negli alberghi di GradoLignano SabbiadoroJesolo e altre località marittime. Là furono ospitati anche i terremotati di altri comuni, rimasti senza alloggio...

Il sisma in cifre
Aree colpita: 5.500 chilometri quadrati

3 apr 2022

A Resia sulle tracce del passato


 A giusta ragione il 2022 è stato definito l’anno dell’archeologia. Ricorrono, infatti, tanti anniversari emozionanti, che riportano la memoria al fascino delle grandi scoperte archeologiche e di famosi archeologi “cacciatori di tesori”.

Come Jean-François Champollion, che due secoli esatti fa riuscì a decifrare i geroglifici della stele di Rosetta; Howard Carter, che giusto 100 anni fa trovò le scale che conducevano alla tomba del faraone più famoso di tutti i tempi, il giovane Tutankhamon, e soprattutto Heinrich Schliemann, di cui quest’anno si celebra anche il bicentenario della nascita e che riuscì a ritrovare Troia in Turchia, sulla collina di Hissarlik, semplicemente “fidandosi” dei poemi di Omero.

Come Schliemann anche il Museo della gente della Val Resia, sulla base di alcune leggente della tradizione orale locale, ha voluto impegnarsi per approfondire la storia del castello di Stolvizza/Solbica, situato sul monte Grad.

Dopo tre anni di sondaggi archeologici e la successiva fase di ricerca, sabato, 2 aprile, alle 10.00, nel Municipio di Resia a Prato/Ravanca sarà presentata la mostra archeologica «Ta-na Rado. Un sito fortificato in Val Resia/Utrjeno najdišče v Reziji». Alla presentazione, durante la quale sarà proiettato il documentario «Tana Rado. Tra leggenda e realtà. Alla scoperta di un sito archeologico in Val Resia», che racconta l’esperienza archeologica, seguirà la visita al Museo di Stolvizza.

Con questo allestimento temporaneo, che è stato completato anche con la stampa di un catalogo, si vuole restituire alla comunità di riferimento e ai molti turisti che visitano il museo ciò che è stato scoperto durante i sondaggi archeologici e le ricerche condotte dal 2018 al 2021 dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia in località ta-na Rado, dove è stato portato alla luce, quasi per intero, ciò che resta di un sito fortificato di altura di epoca tardoantica sorto a seguito dell’apprestamento delle opere di difesa dell’arco alpino orientale in epoca dioclezianea.

È stato appurato che questo sito abbia avuto una vita che va dal IV al VII secolo.

All’impianto originario di natura militare di epoca tardo imperiale (285-476) è seguita una successiva evoluzione in chiave insediativa, avvenuta in età altomedievale, che è possibile stringere al VI-VII secolo. Dopo il VII secolo il luogo venne abbandonato e avvolto da un’aura di mistero. (Sandro Quaglia)

https://www.dom.it/v-reziji-odkrivajo-sledi-preteklosti_a-resia-sulle-tracce-del-passato/

17 gen 2022

Per non dimenticare

  dal blog di Enrica 

Trieste era stata occupata dalle truppe del Regno d'Italia il 3 novembre 1918, al termine della prima guerra mondiale, e poi ufficialmente annessa all'Italia con la ratifica del Trattato di Rapallo del 1920.

Subito dopo la prima guerra mondiale il Friuli Venezia Giulia risultava una regione colpita duramente.



 Le difficoltà economiche e sociali e il vuoto politico, e la non sentita appartenenza al territorio italiano, hanno disorientato le forze politiche presenti sul territorio.

La mancanza di dialogo tra cattolici e repubblicani e movimenti operai più vicini al partito socialista, hanno creato un vuoto che è stato subito riempito dall’ideologia estremista del nazional socialismo.

L’illusione che questi ideali davano, la sensazione di poter risolvere tutto attraverso la potenza nazionale, risultava affascinante in quella parte della piccola borghesia, che era molto frustrata e arrabbiata con tutti e contro tutti, contro il governo italiano che mancava nell’organizzazione e nella precisione, rispetto al governo austro-ungarico che di Trieste e del Friuli aveva fatto la fortuna, arrabbiata contro i nuovi ricchi, contro i proletari, la piccola borghesia era pronta a difendere uno stato di cose che non esistevano più nella realtà non avevano più nulla da conservare…..

Il programma di uno stato forte e potente, l’espansione economica, la voglia di reprimere le lotte sociali e proletarie, ma soprattutto impedire che la Jugoslavia disponesse di città portuali per evitare qualunque concorrenza economica, furono i temi che convinsero molti cittadini triestini ad aderire al fascio triestino di combattimento, guidati e organizzati da uno dei più esperti e disonesti uomini senza remore morali, chiamato Francesco Giunta. Sotto la guida di questo personaggio iniziano nel 1920 le “nobili azioni risolutive” che divennero il modello per tutto lo squadrismo italiano.

Incendiarono l’albergo Balcan, era la sede della Casa del popolo, spacciando quest’azione come un sacra santa vendetta nazionale, non bastava bruciare, il Balkan venne anche mitragliato, anche altri importanti edifici come quello di Pola vengono danneggiati,



succede così che i fasci di combattimento in Trieste e in Friuli Venezia Giulia danno l’avvio ad un movimento che a parole era di rinnovamento nazionale, ma in realtà lo steso Giunta definiva :

“ Lasciando molti morti sulle strade il fascismo giuliano marcia ognor più speditamente verso la meta”.

Il 20 settembre 1920 Mussolini visita Trieste e ne rimane favorevolmente colpito.


30 dic 2021

La mia Benečija come i ruderi di El Obeid/ Moja Benečija kakor ruševine El Obeida


Avevo 11 anni quando ho lasciato la mia famiglia, il paese, le valli, per una specie di sogno, di un’avventura suggerita dalle immagini e suggestioni di un libretto cui mi aveva abbonato suor Maruska, la zia pittrice che, allora, stava affrescando la grande abside della cattedrale cattolica di El Obeid in Sudan. Ho saputo che quella cattedrale non esiste più e del grande affresco solo qualche immagine fotografica.

Sono trascorsi oltre 60 anni da allora; il sogno missionario più che svanire si è trasformato, ma da allora «casa mia» è divenuta il sogno di una Benečija da preservare, quasi da redimere, coi suoi antichi valori, il bene di una lingua della mente e del cuore, di una tradizione ricchissima di valori immateriali nella estrema povertà concreta.

E ora, ho davanti agli occhi una cattedrale, la Benečija, che potrei paragonare ai ruderi di El Obeid. Cattedrale che, assieme a tanti altri che l’avevano e l’hanno a cuore, è da ricostruire con le sue colonne economiche portanti, le sue navate/ valli da restituire al lavoro, i paesi da restaurare come pannelli sbiaditidi una Via Crucis e l’immensa abside panoramica di un ambiente naturale da riqualificare.

Mi sono fermato molte volte, nelle mie frequenti scorribande per i nostri monti, su a Kamenica, sulla strada di Tribil per Stara Gora, ad ammirare il panorama ed ho pensato: c’è un posto più bello per chi qui ci è nato?

Perché lasciarlo andare come vuoto a perdere? Perché così pochi se ne prendono cura? Si tratta solo di un destino avverso? Ed il pensiero si perde nei ricordi di bambino, vivi come immagini filmiche, carichi di emozione e rimpianto. Sono avvolto dal silenzio quando le poche auto si allontanano. Una volta il silenzio c’era solo a notte fonda, e magari neppure allora, quando le attività della gente si assopivano. Uccelli notturni, muggiti, rumori di catene delle mucche legate alle mangiatoie, abbaiare di cani. Ricordo il lavoro nei campi; là, lontano dalla parte opposta della valle, sentivo i colpi secchi della scure sul ceppo e vedevo in alto la scure del boscaiolo. Avevo capito, prima che il maestro ce lo spiegasse, che la luce va più veloce del suono. Sentivo il colpo sul tronco e vedevo levata in alto la scure in quel ritmo inusuale. A seconda delle stagioni tutto attorno per i versanti dei monti ferveva una vita intensamente vissuta. Là la voce stridula del ragazzo che richiama a casa la madre; lassù in fondo al campicello il vociare di ragazzi attorno al falò acceso dal padre per bruciare i ricci del castagno o i tralci secchi recisi alle viti. Lontano, sul versante assolato del monte, donne che rastrellano per pulire il prato dalle foglie rinsecchite da portare a casa come lettiera per le bestie nella stalla. Nel periodi del raccolto, intere famiglie chine a raccogliere tra l’erba le preziose castagne, le noci; le gerle appoggiate al muretto da riempire di rinomate mele locali, retaggio di cure ancestrali, di pere, di susine. Ceste negli orti riempite di carote, patate, barbabietole… del ben di Dio, frutto delle fatiche quotidiane.

E le campane, voci dai campanili sui poggi montani, a richiamare al trascendente, come a dire: è l’ora dell’Angelus, dell’Ave Maria; il suono triste del decesso o il richiamo della festa imminente. Quante immagini si accalcano nella mente e un po’ trasognato mi sveglio come disturbato dal suono cupo di un aereo in volo; una scia bianca in alto. Caspita, sono al centro di un mondo cambiato! E mi guardo attorno. Non c’è anima viva nel raggio di chilometri. Un prato davanti a me, residuo fortunato di un mondo che fu. Oltre? Solo bosco, foresta fitta che mi nasconde ogni cosa: strade, paesi, chiese, muri a secco a sostegno di mille campicelli rubati ai ripidi declivi. Niente mede di fieno per bovini che non riempiono più stalle di muggiti e di secchi di latte profumato. Nei paesini di montagna sembra regnare il coprifuoco e tacciono perfino i cani che una volta correvano liberi dietro le rare macchine in circolazione. Il canto del gallo è un ricordo e tra le viuzze dei borghi semideserti non senti l’odore della polenta sul fuoco e nemmeno quel profumo di fieno seccato al sole che sprigionavano le mede nei prati falciati di fresco.

In effetti io stesso rappresento nella mia esperienza di vita quell’abbandono che denuncio, sebbene ben più cosciente degli abitanti rimasti a casa del valore cuturale, storico, religioso, sociale ed anche economico dei luoghi natali.

E mi chiedo ancora, come me lo chiedevo in mezzo secolo di vita, quale sia una possibile strada di rinascita, di recupero, di concreta azione rigenerativa. Vorrei ripetermi quella frase storica, l’«eppur si muove» di Galileo di fronte al tribunale dell’Inquisizione. Forse non è la condanna definitiva e, magari in fondo all’anima, un barlume di speranza.

Riccardo Ruttar

https://www.dom.it/la-mia-benecija-come-i-ruderi-di-el-obeid_moja-benecija-kakor-rusevine-el-oblida/

i 700 di DANTE con le 500 Pubblicato il 23/12/2021 da grammidistoria

 

Mancano pochi giorni alla fine del 2021, quindi siamo ancora dentro l’Anno di Dante, l’anno che celebra i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri (1265-1321).


Lo dico perchè mi sono ricordato appena in tempo di una moneta nella mia collezione; coniata nel 1965 per celebrare i settecento anni dalla nascita del sommo poeta.

500 Lire – 1965

Sono le 500 Lire del 1965, una moneta in argento 835, dal peso di 11g.

/d:

Sul dritto c’è una classica rappresentazione di Dante, il volto iconico che conosciamo rivolto a sinistra. Ecco la descrizione che fece di lui il Boccaccio.

“questo nostro poeta di mediocre statura e poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto; e il suo andare grave e mansueto; d’onestissimi panni sempre vestito. Il suo volto fu lungo, e ‘l naso aquilino; e gli occhi anzi grossi che piccoli; le mascelle grandi; e dal labbro disotto era quello di sopra avanzato; e il colore era bruno; e i capelli e la barba spessi, neri e crespi: sempre in faccia malinconico e pensoso”.

/r:

Sul rovescio c’è la parte più interessante: è infatti rappresentata l’allegoria della Divina Commedia.

Si possono distinguere chiaramente: il paradiso in alto, con i raggi solari e le stelle; al centro il purgatorio rappresentato dalle nubi, e sotto le fiamme dell’inferno.

/b:

Nella “terza faccia” ossia nel bordo, in rilievo è riportata la scritta: 7° CENTENARIO DELLA NASCITA DI DANTE.

il bordo delle 500L Dante

Quanti studenti avranno avuto modo, nell’Anno di Dante, di conoscere questa moneta?

29 dic 2021

Documenti storici e scritti antichi in lingua Giorgio Ziffer

 




Nella provincia di Udine si conservano alcune preziose testimonianze scritte che documentano l’importanza di quest’area per la storia linguistica e culturale slovena e che, in ragione delle lampanti situazioni di contatto fra diverse lingue in esse riflesse, hanno un indubbio significato anche per la civiltà linguistica del Friuli. Mentre il più antico documento scritto in resiano, comunque solo settecentesco, la Cra(t)ka Dottrina cristian(s)ca, era passato dal conte Jan Potocki alla biblioteca Ossolin´ski a Breslavia, prima che se ne perdessero le tracce, la sorte riservata alle altre più antiche testimonianze vergate in varie forme di sloveno in quest’area è stata almeno parzialmente più fortunata. Il Manoscritto di Cergneu (in sloveno Åernjejski rokopis) è oggi per esempio conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Cividale. Si tratta dell’Anniversario di Legati latino-italiano-slavo della confraternita di S. Maria di Cergneu, studiato e pubblicato tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento da Vatroslav Oblak e quindi da Jan Baudouin de Courtenay. Le annotazioni di varie mani, fatte in una lingua, o koinè, priva di particolari tratti dialettali della Val Torre o della Val Natisone, datano dalla fine del XV secolo (1497?) e si estendono per alcuni decenni. Il Manoscritto di Castelmonte (Starogorski rokopis), che fa parte del Libro della fraternità di Santa Maria del Monte, consistein due pagine, risalenti verosimilmente agli anni 1492- 1498 e contenenti il Padre nostro, l’Ave Maria e il Credo. Questi testi sono stati scoperti soltanto negli anni sessanta del secolo scorso, e in seguito pubblicati da Angelo Cracina; conservati inizialmente presso l’Archivio arcivescovile di Udine, la loro collocazione attuale è tuttavia ignota. Particolarmente interessante risulta il loro confronto con il Manoscritto di Klagenfurt (Celovski rokopis), che conserva le medesime tre preghiere. Il Manoscritto di Udine (Videnski rokopis), conservato nella Biblioteca civica «Vincenzo Joppi» reca la trascrizione, effettuata nel 1458 a opera di tale «Nicholo Pentor», di una serie di numeri – le unità fino al quarantadue, le centinaia fino a cinquecento, le migliaia fino a duemila soltanto. Al di là del loro rilievo solo apparentemente modesto, queste testimonianze arricchiscono in maniera sostanziale le nostre conoscenze sul divenire della lingua slovena nel lungo periodo che cade tra i Monumenti di Frisinga e la pubblicazione, nel 1550, del primo libro a stampa sloveno. Benché in realtà esse non abbiano svolto – per i loro contenuti così specifici come per la loro marginalità geografica – alcun ruolo nella formazione della lingua letteraria slovena, nondimeno esse costituiscono una prova della vitalità dello sloveno già in un’epoca tanto remota. Il quadro dei documenti manoscritti presenti nella provincia di Udine sarebbe però incompleto se non si facesse almeno un rapido cenno a uno dei suoi più importanti cimeli in assoluto, l’Evangeliario di S. Marco, conservato presso il già menzionato Museo di Cividale (ma alcune sue parti sono a Venezia e a Praga)
dal web


24 dic 2021

IL PRESEPIO

 Il presepe, o presepio, è una rappresentazione della nascita di Gesù, che ha origine da tradizioni tardo antiche e medievali; l'usanza, inizialmente italiana, di allestire il presepio in casa nel periodo natalizio è diffusa oggi in tutti i paesi cattolici del mondo.

Le fonti per la raffigurazione del presepe sono i 180 versetti dei Vangeli di Matteo e di Luca, cosiddetti "dell'infanzia", che riportano la nascita di Gesù avvenuta al tempo di re Erode, a Betlemme di Giudea, piccola borgata ma sin da allora nobile, perché aveva dato i natali al re Davide. Molti elementi del presepe, però, derivano dai Vangeli apocrifi e da altre tradizioni, come il Protovangelo di Giacomo e leggende successive.

Il presepe tradizionale è una complessa composizione plastica della Natività di Gesù Cristo, allestita durante il periodo natalizio; vi sono presenti statue formate di materiali vari e disposte in un ambiente ricostruito in modo realistico. Vi compaiono tutti i personaggi e i luoghi della tradizione: la grotta o la capanna, la mangiatoia dov'è posto Gesù Bambino, i due genitori, Giuseppe e Maria, i Magi, i pastori, le pecore, il bue e l'asinello e gli angeli. La statuina di Gesù Bambino viene collocata nella mangiatoia alla mezzanotte tra il 24 e il 25 dicembre, mentre le figure dei Magi vengono avvicinate ad adorare Gesù nel giorno dell'Epifania. Lo sfondo può raffigurare il cielo stellato oppure può essere uno scenario paesaggistico. A volte le varie tradizioni locali prevedono ulteriori personaggi.

Per tradizione, il presepe si mantiene fino al giorno dell'Epifania, quando si mettono le statuine dei Re Magi di fronte alla Sacra Famiglia, o anche sino al giorno della Candelora, sia in Italia che in altri paesi[2]. Esiste anche un altro modo per allestire il presepio: si tratta del presepe vivente, in cui agiscono persone reali; di origine medievale, ha avuto negli ultimi decenni in Italia una notevole diffusione.

Raffigurazioni pittoriche e scultoree della Natività

La più antica raffigurazione della Vergine con Gesù Bambino è raffigurata nelle Catacombe di Priscilla sulla Via Salaria a Roma, dipinta da un ignoto artista del III secolo all'interno di un arcosolio del II secolo.[3]

Nella tradizione bizantina la Natività di Gesù è raffigurata in una grotta, con la Vergine Maria distesa su un giaciglio, con il figlio nella mangiatoia, mentre San Giuseppe è raffigurato simbolicamente all'esterno, in disparte. Ne sono esempi i dipinti di Pietro Cavallini a Roma. Il primo presepe scultoreo si ritiene sia quello di Arnolfo di Cambio nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.

Giotto fu il primo pittore a raffigurare a Padova nella Cappella degli Scrovegni una Natività più realistica, con dettagli naturalistici, seppur ancora legata ai canoni bizantini.

Nel Quattrocento alcuni grandi maestri della pittura italiana raffigurarono scene della Natività, dette anch'esse "presepe": Botticelli nell'Adorazione dei Magi (FirenzeGalleria degli Uffizi) raffigurò personaggi della famiglia Medici. Filippino Lippi compose la Natività che si trova al Museo Diocesano di MilanoPiero della Francesca la Natività della National Gallery di Londra, il Correggio la Natività della Pinacoteca di Brera.

Anche Luca e Andrea Della Robbia hanno rappresentato scene della Natività, in bassorilievo: per tutte valga quella del convento della Verna. Un'altra terracotta robbiana, con sfondo affrescato da Benozzo Gozzoli, si trova nel duomo di Volterra e rappresenta i pastori e il corteo dei Magi.

Origine del presepe
Il presepe di Greccio, nella Basilica superiore di AssisiGiotto (attribuzione), 230x270 cm, 1290-1295 circa.

La tradizione pittorica di raffigurare la Natività fu seguita poi dalla rappresentazione tridimensionale, allestita in occasione delle festività natalizie, ossia a ciò che comunemente si intende oggi con il termine "presepe"[4]. Questa usanza, all'inizio prevalentemente italiana, ebbe origine all'epoca di San Francesco d'Assisi che nel 1223 realizzò a Greccio la prima rappresentazione della Natività, dopo aver ottenuto l'autorizzazione da papa Onorio III. Francesco era tornato da poco (nel 1220) dalla Palestina e, colpito dalla visita a Betlemme, intendeva rievocare la scena della Natività in un luogo, Greccio, che trovava tanto simile alla città palestinese[5]Tommaso da Celano, cronista della vita di San Francesco descrive così la scena nella prima Vita[6]:

«Si dispone la greppia, si porta il fieno, sono menati il bue e l'asino. Si onora ivi la semplicità, si esalta la povertà, si loda l'umiltà e Greccio si trasforma quasi in una nuova Betlemme

Il presepio di Greccio ha come antefatto le "sacre rappresentazioni" delle varie liturgie celebrate nel periodo medievale. Nella rappresentazione preparata da San Francesco, al contrario di quelle successive, non erano presenti la Vergine MariaSan Giuseppe e Gesù Bambino; nella grotta fu celebrata la Messa con un altare portatile[7] posto sopra una mangiatoia presso la quale erano i due animali ricordati dalla tradizione, ossia l'asino e il bue[8]. Nella prima Vita Tommaso da Celano ci dà una descrizione più dettagliata della notte in cui fu allestito il primo presepio a Greccio; il racconto di Tommaso è poi ripreso da Bonaventura da Bagnoregio nella Leggenda maggiore[9]:

«I frati si radunano, la popolazione accorre; il bosco risuona di voci, e quella venerabile notte diventa splendente di luci, solenne e sonora di laudi armoniose. L'uomo di Dio [Francesco] stava davanti alla mangiatoia, pieno di pietà, bagnato di lacrime, traboccante di gioia, Il rito solenne della messa viene celebrato sopra alla mangiatoia e Francesco canta il Santo Vangelo. Poi predica al popolo che lo circonda e parla della nascita del re povero che egli [...] chiama "il bimbo di Betlemme". Un cavaliere virtuoso e sincero, che aveva lasciato la milizia e si era legato di grande familiarità all'uomo di Dio, messer Giovanni di Greccio, affermò di avere veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo bimbo addormentato che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno.»

https://it.wikipedia.org/wiki/Presepe#:~:text=Questa%20usanza%2C%20all'inizio%20prevalentemente,autorizzazione%20da%20papa%20Onorio%20III.


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