Avevo 11 anni quando ho lasciato la mia famiglia, il paese, le valli, per una specie di sogno, di un’avventura suggerita dalle immagini e suggestioni di un libretto cui mi aveva abbonato suor Maruska, la zia pittrice che, allora, stava affrescando la grande abside della cattedrale cattolica di El Obeid in Sudan. Ho saputo che quella cattedrale non esiste più e del grande affresco solo qualche immagine fotografica.
Sono trascorsi oltre 60 anni da allora; il sogno missionario più che svanire si è trasformato, ma da allora «casa mia» è divenuta il sogno di una Benečija da preservare, quasi da redimere, coi suoi antichi valori, il bene di una lingua della mente e del cuore, di una tradizione ricchissima di valori immateriali nella estrema povertà concreta.
E ora, ho davanti agli occhi una cattedrale, la Benečija, che potrei paragonare ai ruderi di El Obeid. Cattedrale che, assieme a tanti altri che l’avevano e l’hanno a cuore, è da ricostruire con le sue colonne economiche portanti, le sue navate/ valli da restituire al lavoro, i paesi da restaurare come pannelli sbiaditidi una Via Crucis e l’immensa abside panoramica di un ambiente naturale da riqualificare.
Mi sono fermato molte volte, nelle mie frequenti scorribande per i nostri monti, su a Kamenica, sulla strada di Tribil per Stara Gora, ad ammirare il panorama ed ho pensato: c’è un posto più bello per chi qui ci è nato?
Perché lasciarlo andare come vuoto a perdere? Perché così pochi se ne prendono cura? Si tratta solo di un destino avverso? Ed il pensiero si perde nei ricordi di bambino, vivi come immagini filmiche, carichi di emozione e rimpianto. Sono avvolto dal silenzio quando le poche auto si allontanano. Una volta il silenzio c’era solo a notte fonda, e magari neppure allora, quando le attività della gente si assopivano. Uccelli notturni, muggiti, rumori di catene delle mucche legate alle mangiatoie, abbaiare di cani. Ricordo il lavoro nei campi; là, lontano dalla parte opposta della valle, sentivo i colpi secchi della scure sul ceppo e vedevo in alto la scure del boscaiolo. Avevo capito, prima che il maestro ce lo spiegasse, che la luce va più veloce del suono. Sentivo il colpo sul tronco e vedevo levata in alto la scure in quel ritmo inusuale. A seconda delle stagioni tutto attorno per i versanti dei monti ferveva una vita intensamente vissuta. Là la voce stridula del ragazzo che richiama a casa la madre; lassù in fondo al campicello il vociare di ragazzi attorno al falò acceso dal padre per bruciare i ricci del castagno o i tralci secchi recisi alle viti. Lontano, sul versante assolato del monte, donne che rastrellano per pulire il prato dalle foglie rinsecchite da portare a casa come lettiera per le bestie nella stalla. Nel periodi del raccolto, intere famiglie chine a raccogliere tra l’erba le preziose castagne, le noci; le gerle appoggiate al muretto da riempire di rinomate mele locali, retaggio di cure ancestrali, di pere, di susine. Ceste negli orti riempite di carote, patate, barbabietole… del ben di Dio, frutto delle fatiche quotidiane.
E le campane, voci dai campanili sui poggi montani, a richiamare al trascendente, come a dire: è l’ora dell’Angelus, dell’Ave Maria; il suono triste del decesso o il richiamo della festa imminente. Quante immagini si accalcano nella mente e un po’ trasognato mi sveglio come disturbato dal suono cupo di un aereo in volo; una scia bianca in alto. Caspita, sono al centro di un mondo cambiato! E mi guardo attorno. Non c’è anima viva nel raggio di chilometri. Un prato davanti a me, residuo fortunato di un mondo che fu. Oltre? Solo bosco, foresta fitta che mi nasconde ogni cosa: strade, paesi, chiese, muri a secco a sostegno di mille campicelli rubati ai ripidi declivi. Niente mede di fieno per bovini che non riempiono più stalle di muggiti e di secchi di latte profumato. Nei paesini di montagna sembra regnare il coprifuoco e tacciono perfino i cani che una volta correvano liberi dietro le rare macchine in circolazione. Il canto del gallo è un ricordo e tra le viuzze dei borghi semideserti non senti l’odore della polenta sul fuoco e nemmeno quel profumo di fieno seccato al sole che sprigionavano le mede nei prati falciati di fresco.
In effetti io stesso rappresento nella mia esperienza di vita quell’abbandono che denuncio, sebbene ben più cosciente degli abitanti rimasti a casa del valore cuturale, storico, religioso, sociale ed anche economico dei luoghi natali.
E mi chiedo ancora, come me lo chiedevo in mezzo secolo di vita, quale sia una possibile strada di rinascita, di recupero, di concreta azione rigenerativa. Vorrei ripetermi quella frase storica, l’«eppur si muove» di Galileo di fronte al tribunale dell’Inquisizione. Forse non è la condanna definitiva e, magari in fondo all’anima, un barlume di speranza.
Riccardo Ruttar
https://www.dom.it/la-mia-benecija-come-i-ruderi-di-el-obeid_moja-benecija-kakor-rusevine-el-oblida/
Buon 2022 Anno!
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