di Spetič Stojan
Alta, slanciata, con due gambe da favola, bionda. Sonja era una tipica mula triestina, nata e vissuta a San Giacomo con il padre falegname ebanista al cantiere navale San Marco e la madre che, essendo un'ottima cuoca, dava una mano nelle trattorie di questo rione operaio. Quando le sue figlie erano troppo piccole per lasciarle a casa, le dava in custodia ad una giovane sartina, Maria Bernetič.
Venne la guerra e Sonja, adolescente, voleva rendersi indipendente. Partì per Roma dove fece la ballerina di fila negli avanspettacoli di Vanda Osiris e Renato Rascel. Con queste compagnie viaggiarono nelle regioni vicine, come nel film “Polvere di stelle”. A Pescara nei giorni dopo l'armistizio dell'8 settembre '43 vide arrivare i tedeschi. Decise di tornare a Trieste che nel frattempo era stata annessa al Terzo Reich nella regione militare chiamata OZAK (Zona di operazione del Litorale adriatico).
Bisogna dire che sua madre era nata ad Essen in Germania figlia di una famiglia di minatori emigrati da Maribor. Così i tedeschi li considerarono “Volksdeutsche”, cioè cittadini del Reich, e non sudditi di un territorio occupato. E Sonja parlava perfettamente il tedesco. Fece domanda e venne assunta come dattilografa ed interprete al comando della Kriegsmarine, la marina di guerra tedesca, che aveva sede nell'edificio del Comandante del porto.
Prima di fare tutto questo Sonja si era messa d'accordo con il movimento della resistenza sloveno, praticamente con i suoi servizi di spionaggio. I documenti che scriveva, gli elenchi del materiale bellico che veniva fatto passare per il porto, l'arrivo di soldati ed armamenti, veniva meticolosamente annotato e raccolto durante la settimana.
Di sabato Sonja si vestiva come per andare in gita, caricava la sua bicicletta sul treno e scendeva alla stazione di Aurisina. Seguiva una pedalata fino a Gorjansko dove c'era il blocco tedesco. Faceva vedere i documenti e spiegava ai soldati che a Trieste si pativa la fame e che lei sarebbe andata a vedere se c'era del cibo da comprare presso i contadini dei paesi del Carso.
Furbescamente disse loro di aver paura dei partigiani chiedendo se qualcuno di loro era disposto ad accompagnarla. In realtà lei aveva veramente paura, ma non dei partigiani, bensì delle bande di fascisti ucraini e dei collaborazionisti sloveni (domobranci) che non avevano nessun rispetto per le donne.
Ovviamente, vista questa bella ragazza, qualche soldato o sottufficiale si faceva avanti. Accompagnando la bici a piedi assieme al giovane tedesco raggiunse uno dei paesi della zona. Lungo la strada conversarono di arte, musica, poesia. Arrivati nelle vicinanze delle prime case Sonja chiese al tedesco di aspettarla e non farsi vedere: “Se la gente vede che sono con voi non mi daranno il cibo che mi serve. Cerca di capire.”
Da sola raggiungeva il posto stabilito mentre da dietro i cespugli qualcuno vigilava che il tedesco non si muovesse. Sonja consegnò al proprio referente il materiale raccolto ed in cambio le veniva consegnata una cesta con qualche patata, cavoli, uova e strutto. Non dovevano sospettare di nulla. Poi tornarono al blocco dove si congedava dai soldati tedeschi, inforcava la bicicletta per prendere in tempo il treno per Trieste.
Sonja fece la spola tra Trieste ed i piccoli paesini vicino a Comeno per molte settimane portando al suo capo persino carte nautiche e strumenti di precisione per la navigazione che era riuscita a rubare.
Gli ultimi giorni di aprile entrò nel suo ufficio l'ufficiale della Kriegsmarine cui era sottoposta, capitano Stegmann. Chiuse per bene la porta e le disse che le doveva parlare.
“Vedi Sonja”, disse, “io so da tempo che tu fai spionaggio per i partigiani jugoslavi, ma ti ho coperto perché non sono nazista, anzi, li odio. Però devo chiederti un favore. So che i vostri saranno a giorni a Trieste ed io non vorrei lasciare la pelle per qualcosa in cui non credo. Puoi nascondermi da qualche parte finché non sarà passata la buriana?”
Sonja lo portò a casa di sua madre. Non a San Giacomo perché non c'era più, bombardata nel giugno '44, ma in città. Li lo nascosero finché non le riuscì a fargli ottenere un lasciapassare dalle autorità militari jugoslave che gli consentì di tornare in Germania sano e salvo.
La storia potrebbe finire qui, ma c'è ancora un capitolo. Passati tre decenni si presentò a Cattinara un tedesco alto, abbronzato e canuto. Disse a mio padre, sposato con la sorella maggiore, conosciuto nei giorni prima dell'insurrezione e della battaglia finale per liberare Trieste, che voleva portare dei fiori sulla tomba di Sonja. Sgomento mio padre gli disse che Sonja non era morta e che poteva incontrarla. Era il capitano Stegmann che l'aveva protetta e che lei aveva salvato nascondendolo a casa sua. Fu un incontro commovente, rivangarono ricordi e sensazioni. Rimase a Trieste un paio di giorni e se ne andò. Non ne sapemmo più niente.
Svelato anche l'arcano della presunta morte di Sonja. In epoca fascista le era stato italianizzato il nome in Sofia. Era questo il nome sui suoi documenti. Ma la madre di Sonja, che di nome faceva Genoveffa, in famiglia era chiamata Sofia (Zofi, in sloveno) e qualcuno deve aver avvisato Stegmann quando sul giornale vide il necrologio della nonna confondendone i nomi.
Per i meriti acquisiti durante la resistenza e la guerra di liberazione Sonja Stopar venne insignita con due ordini al valore. Le medaglie le furono consegnate dal console jugoslavo a Trieste. In pubblico affinché si sapesse quello che Sonja aveva fatto nel totale segreto cospirativo. Mettendo così a tacere malelingue ed i dubbi di chi sapeva che aveva lavorato per la marina tedesca. Chi sapeva tutti i particolari non era uso a parlare, nemmeno nel pregiato ristorante di pesce che ha gestito fino alla morte. Era questa l'indole di chi ha lavorato per i servizi di informazione militare.
Sonja Stopar riposa ora nel cimitero di Basovizza.
Venne la guerra e Sonja, adolescente, voleva rendersi indipendente. Partì per Roma dove fece la ballerina di fila negli avanspettacoli di Vanda Osiris e Renato Rascel. Con queste compagnie viaggiarono nelle regioni vicine, come nel film “Polvere di stelle”. A Pescara nei giorni dopo l'armistizio dell'8 settembre '43 vide arrivare i tedeschi. Decise di tornare a Trieste che nel frattempo era stata annessa al Terzo Reich nella regione militare chiamata OZAK (Zona di operazione del Litorale adriatico).
Bisogna dire che sua madre era nata ad Essen in Germania figlia di una famiglia di minatori emigrati da Maribor. Così i tedeschi li considerarono “Volksdeutsche”, cioè cittadini del Reich, e non sudditi di un territorio occupato. E Sonja parlava perfettamente il tedesco. Fece domanda e venne assunta come dattilografa ed interprete al comando della Kriegsmarine, la marina di guerra tedesca, che aveva sede nell'edificio del Comandante del porto.
Prima di fare tutto questo Sonja si era messa d'accordo con il movimento della resistenza sloveno, praticamente con i suoi servizi di spionaggio. I documenti che scriveva, gli elenchi del materiale bellico che veniva fatto passare per il porto, l'arrivo di soldati ed armamenti, veniva meticolosamente annotato e raccolto durante la settimana.
Di sabato Sonja si vestiva come per andare in gita, caricava la sua bicicletta sul treno e scendeva alla stazione di Aurisina. Seguiva una pedalata fino a Gorjansko dove c'era il blocco tedesco. Faceva vedere i documenti e spiegava ai soldati che a Trieste si pativa la fame e che lei sarebbe andata a vedere se c'era del cibo da comprare presso i contadini dei paesi del Carso.
Furbescamente disse loro di aver paura dei partigiani chiedendo se qualcuno di loro era disposto ad accompagnarla. In realtà lei aveva veramente paura, ma non dei partigiani, bensì delle bande di fascisti ucraini e dei collaborazionisti sloveni (domobranci) che non avevano nessun rispetto per le donne.
Ovviamente, vista questa bella ragazza, qualche soldato o sottufficiale si faceva avanti. Accompagnando la bici a piedi assieme al giovane tedesco raggiunse uno dei paesi della zona. Lungo la strada conversarono di arte, musica, poesia. Arrivati nelle vicinanze delle prime case Sonja chiese al tedesco di aspettarla e non farsi vedere: “Se la gente vede che sono con voi non mi daranno il cibo che mi serve. Cerca di capire.”
Da sola raggiungeva il posto stabilito mentre da dietro i cespugli qualcuno vigilava che il tedesco non si muovesse. Sonja consegnò al proprio referente il materiale raccolto ed in cambio le veniva consegnata una cesta con qualche patata, cavoli, uova e strutto. Non dovevano sospettare di nulla. Poi tornarono al blocco dove si congedava dai soldati tedeschi, inforcava la bicicletta per prendere in tempo il treno per Trieste.
Sonja fece la spola tra Trieste ed i piccoli paesini vicino a Comeno per molte settimane portando al suo capo persino carte nautiche e strumenti di precisione per la navigazione che era riuscita a rubare.
Gli ultimi giorni di aprile entrò nel suo ufficio l'ufficiale della Kriegsmarine cui era sottoposta, capitano Stegmann. Chiuse per bene la porta e le disse che le doveva parlare.
“Vedi Sonja”, disse, “io so da tempo che tu fai spionaggio per i partigiani jugoslavi, ma ti ho coperto perché non sono nazista, anzi, li odio. Però devo chiederti un favore. So che i vostri saranno a giorni a Trieste ed io non vorrei lasciare la pelle per qualcosa in cui non credo. Puoi nascondermi da qualche parte finché non sarà passata la buriana?”
Sonja lo portò a casa di sua madre. Non a San Giacomo perché non c'era più, bombardata nel giugno '44, ma in città. Li lo nascosero finché non le riuscì a fargli ottenere un lasciapassare dalle autorità militari jugoslave che gli consentì di tornare in Germania sano e salvo.
La storia potrebbe finire qui, ma c'è ancora un capitolo. Passati tre decenni si presentò a Cattinara un tedesco alto, abbronzato e canuto. Disse a mio padre, sposato con la sorella maggiore, conosciuto nei giorni prima dell'insurrezione e della battaglia finale per liberare Trieste, che voleva portare dei fiori sulla tomba di Sonja. Sgomento mio padre gli disse che Sonja non era morta e che poteva incontrarla. Era il capitano Stegmann che l'aveva protetta e che lei aveva salvato nascondendolo a casa sua. Fu un incontro commovente, rivangarono ricordi e sensazioni. Rimase a Trieste un paio di giorni e se ne andò. Non ne sapemmo più niente.
Svelato anche l'arcano della presunta morte di Sonja. In epoca fascista le era stato italianizzato il nome in Sofia. Era questo il nome sui suoi documenti. Ma la madre di Sonja, che di nome faceva Genoveffa, in famiglia era chiamata Sofia (Zofi, in sloveno) e qualcuno deve aver avvisato Stegmann quando sul giornale vide il necrologio della nonna confondendone i nomi.
Per i meriti acquisiti durante la resistenza e la guerra di liberazione Sonja Stopar venne insignita con due ordini al valore. Le medaglie le furono consegnate dal console jugoslavo a Trieste. In pubblico affinché si sapesse quello che Sonja aveva fatto nel totale segreto cospirativo. Mettendo così a tacere malelingue ed i dubbi di chi sapeva che aveva lavorato per la marina tedesca. Chi sapeva tutti i particolari non era uso a parlare, nemmeno nel pregiato ristorante di pesce che ha gestito fino alla morte. Era questa l'indole di chi ha lavorato per i servizi di informazione militare.
Sonja Stopar riposa ora nel cimitero di Basovizza.
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