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18 gen 2021

La rosa di Gorizia


 La Rosa di Gorizia è una varietà locale di radicchio (Cichorium intybus della sottospecie sativum) tipica della zona di Gorizia in Friuli-Venezia Giulia. È riconosciuto tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali Friulani e Giuliani e come presidio Slow Food.La Rosa di Gorizia è una varietà di cicoria caratterizzata da un colore rosso intenso o da un rosso con sfumature che portano al rosa a seconda del tipo di selezione effettuata. Le foglie sono larghe e disposte a forma di rosa aperta. Il sapore è solo leggermente amarognolo, a differenza dei radicchi veneti (radicchio di Castelfranco, di Chioggia, di Treviso, di Verona), e al palato risulta croccante. La varietà della Rosa di Gorizia dal gusto più delicato è detta “Canarino” ed è ottenuta probabilmente da un incrocio con la cicoria bionda di Trieste. Il Canarino è dotato di un fogliame di colore giallo e un gusto ancora più dolce.La storia della Rosa di Gorizia risale già ai tempi degli Asburgo, ma le prime fonti scritte comparvero nel volume “Gorizia – la Nizza austriaca” del 1873, scritto dal Barone Carl von Czoernig-Czernhausen, vissuto a Gorizia nella seconda metà dell'800. Nel volume, tra la descrizione dei legumi coltivati nella città, viene citata anche una “cicoria rossastra” coltivata nella piana tra Gorizia e Salcano e, in misura minore nelle aree periferiche della città.

La Rosa di Gorizia ha avuto in passato una grande importanza per l’economia della città che era basata prevalentemente sull'agricoltura e che contava molto sulla produzione di questo particolare radicchio.[2] Gli agricoltori più anziani della zona ricordano di averlo sempre prodotto perché una delle poche e sicure fonti di reddito durante la fredda stagione invernale goriziana.

Una delle ipotesi sull'origine della Rosa nel territorio goriziano riferiscono di un signor Vida, sfuggito a un'epidemia di peste scoppiata in Veneto portando con sé i semi a Gorizia. Vida potrebbe aver trasportato sementi del radicchio rosso veneto, o forse quelle del Chioggia, che una volta seminate nei terreni goriziani avrebbero dato origine della Rosa di Gorizia.

Un'altra ipotesi fa risalire l'origine delle sementi alla contessa di Gorizia, Leukardis, dal 1046 al 1072 badessa del monastero di Castel Badia ove le monache erano pratiche nella coltivazione di fiori e ortaggi, i quali, a causa del clima rigido, avevano necessità di particolari cure. Visti i rapporti strettissimi che ai tempi sussistevano tra quelli che oggi sono i territori della Val Pusteria e del goriziano, si può immaginare che tra i due luoghi ci fossero scambi frequenti di prodottiLa Rosa era coltivata in larga parte nella piana tra Gorizia e Salcano (oggi in Slovenia), nel corso degli anni però la coltivazione si è ridotta a causa dell'allargamento dei centri urbani. La sua produzione non è quindi di tipo intensivo e questo garantisce al prodotto un mercato di nicchia, che rende la Rosa un'eccellenza italiana da proteggere . Oggi si trova in vendita a prezzi molto elevati a causa delle elevate necessità di manodopera. La Rosa di Gorizia, ha avuto negli ultimi anni un assoluto accrescimento commerciale nell'alta ristorazione mondiale. Riconosciuta come il radicchio più costoso al mondo, è ricercata da chef di tutto il mondo per la sua bellezza e peculiarità gastronomiche. La sua bellezza e perfezione nella forma, unite alla croccantezza e alla dolcezza della costa, ne fanno l'ingrediente speciale del periodo invernale. Compare nelle cucine dei più famosi ristoranti Europei e mondiali, i quali la considerano preziosa come il tartufo, e quindi degna di abbinamenti come il caviale ed altri preziosi ingredienti. Un esempio della divuldazione della Rosa di Gorizia è l'evento Cookitraw del 2010, avvenuto sul Collio Goriziano, dove 20 chef mondiali l'hanno celebrata nelle creazioni a tavola. Chef del calibro di Renè Redzepi, Yoshihiro Narisawa, Massimo Bottura, l'hanno interpretata nelle varie elaborazioni di cucina facendo capire come sia possibile utilizzarla nelle più svariate forme, dal cotto al crudo, sino ad arrivare alla versione sott'olio extra vergine di oliva, anch'essa tutelata e diventata Presidio Slow Food.li

Il radicchio, leggermente amarognolo, è da assaporare possibilmente crudo, tagliato il meno possibile per evitarne l'ossidazione e accompagnato da patate lesse, fagioli lessati, uova sode a spicchi oppure condito con olio d’oliva, aceto di vino e sale. Anche la piccola radice è ottima da mangiare, tagliata sottile e unita all'insalata .  continua.https://it.wikipedia.org/wiki/Rosa_di_Gorizia

17 gen 2021

Proverbio friulano

 

dal web

proverbio friulano della settimana

di Vita nei campi
“Sant Antoni da barbe blancje, s’a no plûf la nêf no mancje”” ovvero a Sant’Antonio Abate (il 17 gennaio) se non piove la neve non manca” a sottolineare il cattivo tempo del periodo.

Santo Antonio abate, detto anche sant'Antonio il Grandesant'Antonio d'Egittosant'Antonio del Fuocosant'Antonio del Desertosant'Antonio l'Anacoreta (in greco anticoἈντώνιοςAntṓnios, in latinoAntonius, in coptoⲀⲃⲃⲁ ⲀⲛⲧⲱⲛⲓQumans12 gennaio 251 – deserto della Tebaide17 gennaio 356), è stato un abate ed eremita egiziano, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati.

A lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio. La sua vita è stata tramandata dal suo discepolo Atanasio di Alessandria. È ricordato nel Calendario dei santi della Chiesa cattolica e da quello luterano il 17 gennaio, ma la Chiesa ortodossa copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde, nel suo calendario, al 22 del mese di Tobi...

continua https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_abate

UN FIORE BELLO DA MANGIARE

 UN FIORE BELLO DA MANGIARE


di Roberto Zottar
dalla rubrica radiofonica della TgrRaiFVG
Vita Nei Campi
Bella e romantica come il profumato fiore, ma decisamente più saporita, la rosa di Gorizia è una delle eccellenze culinarie di questo periodo, annoverata tra i PAT - Prodotti alimentari tradizionali – della nostra Regione e tra i presidi Slow food.
L'estetica basterebbe da sola, ma quando il gusto incontra la sua delicata dolcezza e croccantezza si capisce appieno il suo valore e si cambia per sempre la percezione sui radicchi invernali veneti solitamente amari. E’ una coltivazione limitata solo alle campagne di Gorizia i cui segreti vengono gelosamente custoditi e tramandati da poche famiglie produttrici.
Questo radicchio che è sostanzialmente una cicoria, un ecotipo di Cichorium intybus varietà sativa, deve il nome alla forma del cespo a bocciolo di rosa, caratterizzato da un colore rosso intenso. La rosa ha anche un fratello più raro e più dolce, il radicchio canarino, che ha le foglie giallo chiaro ed assomiglia ad un uccellino arruffato. La rosa, che esprime un’antica sapienza contadina, non ha origini certe: probabilmente i primi semi furono portati a Gorizia dal Veneto nell’Ottocento e l’ortaggio si è adattato alle condizioni ed alle esigenze locali. La prima citazione di questo radicchio risale al 1873 negli scritti del barone Karl von Czoernig von Czernhausen, funzionario boemo, lo stesso che battezzò Gorizia “la Nizza austriaca” per il suo clima mite.
Ma come si ottiene questo ortaggio che è il radicchio più caro del mondo? La tecnica culturale rientra tra le mode di metà Ottocento di forzatura dei radicchi introdotte nel trevigiano dal vivaista belga Van den Borre. Dopo le prime gelate in campo, le piante, raccolte e legate in mazzi, sono messe al buio a 12° per 15 giorni su un letto di torba, mentre nel passato si accatastavano sul letame delle stalle che con il suo calore di fermentazione le preservava dai danni del freddo. Nel tepore umido la pianta riprende a vegetare, il cuore cresce, si colora, diventa croccante e acquisisce un sapore dolce. Al momento della vendita si tolgono le foglie esterne, con uno scarto dell’ottanta percento, e si lavano i piccoli cespi.
In cucina, a mio avviso, la rosa di Gorizia non va assolutamente cotta: il radicchio va assaporato crudo e accompagnato da patate e fagioli lessati, uova sode a spicchi oppure solo condito con olio d’oliva, aceto e sale. Anche la piccola radice, tagliata sottile, è ottima da mangiare. Splendido anche assaggiato alla friulana, tagliato in quattro quarti e condito con lis fricis di maiale tostate in padella e sfumate con aceto. Si può servire ridotto a julienne, con appena un filo d’extravergine e del fior di sale, appoggiato su un filetto di branzino cotto al vapore. Un sogno!
Buon appetito! da fb

IL MONTE CANIN

 

Di I, Johann Jaritz, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2378093

Il monte Canin (mont Cjanine in friulanoKanin in slovenoCjanen in resiano[1]) (2.587 m s.l.m.) è una montagna delle Alpi Giulie, che dà il nome all'omonima catena e segna il confine fra provincia di Udine (comuni di Chiusaforte e Resia) e la Slovenia (comune di Plezzo), l'ultimo massiccio montuoso delle Alpi Giulie in territorio italiano, scendendo da nord verso sud.

Il gruppo del Canin è costituito da un colossale altipiano calcareo, alto dai 1.800 ai 2.300 m culminante in una larga cresta che lo percorre in tutta la sua estensione, posta tra la Val Raccolana a nord e la Val Resia a sud. Solo verso est questa cresta si biforca, dando origine alla val Mogenza.

A sud, verso la conca di Plezzo, l'altopiano ha la forma di un grande mare di roccia. Sul lato Nord, in territorio italiano, è presente un ghiacciaio (in effetti tre piccoli ghiacciai), che con i suoi 2200 m di quota è uno dei più bassi della catena alpina e che è però, al pari di tanti suoi simili nelle Alpi, in forte regressione negli ultimi anni in conseguenza dei mutamenti climatici in atto.Dalla cima si gode un panorama: verso nord lo Jôf di Montasio (2.754 m) e lo Jôf Fuart (2.666 m), verso est il Mangart (2.677 m), lo Jalouz e il Tricorno (2.853 m), verso sud i Monti Musi e il Gran Monte, la pianura friulana e l'Alto Adriatico. continua su https://it.wikipedia.org/wiki/Monte_Canin

16 gen 2021

Giulio Regeni, un altro non compleanno

 


Giulio Regeni ieri avrebbe compiuto 33 anni
. Su Facebook il ricordo di sua madre, Paola Deffendi e il tweet di 'Verità per Giulio': "Chissà quanti ponti avresti costruito ancora, quanta bellezza donato ancora a questo mondo. Ti facciamo gli auguri così, gridando al mondo la nostra promessa. Non ci fermeremo fino alla verità e alla giustizia".https://www.ilfriuli.it/articolo/tendenze/giulio-regeni-un-altro-non-compleanno/13/234721

Per chi non conosce la sua storia ....https://it.wikipedia.org/wiki/Omicidio_di_Giulio_Regeni

Citazione

 Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi.

(Two things are infinite: the universe and human stupidity; and I’m not sure about the universe)

– Albert Einstein

dal web


In Friuli

 

Siamo arrivati alla fine della settimana e oggi fa più freddo di ieri - 2,5.In Friuli da domani saremo in zona arancione per due settimane (non si potrà uscire dal proprio comune salvo deroghe)

Ieri alcuni bar e ristoranti  hanno aderito all'iniziativa "io apro"e hanno tenuto aperto dopo le ore 18,sono scattate le multe e alcuni si sono ritirati.

A Cividale i ragazzi di un liceo si sono messi a seguire le lezioni col loro Pc portatile davanti allea scuola ben coperti per proteggersi dal freddo.

Il Tar ha dato ragione ai genitori che chiedevano la riapertura delle scuole,Fedriga ha detto che farà una nuova ordinanza per non riaprire prima del 1 febbraio.

dal Messaggero Veneto


Quelle bandiere sbeffeggiate


 Fu il tricolore della Francia rivoluzionaria ad ispirare bandiere semplicemente tricolori e sotto il potere francese, per rappresentare la repubblica Cisalpina, nel lontano 1797 prese forma la bandiera coi colori che oggi vediamo sventolare sui pennoni italiani. Fu un certo Giuseppe Compagnoni a suggerirne i colori. Il verde – che prese il posto del blu francese e che, tra l’altro, riproduceva il verde dei Visconti di Milano – avrebbe simboleggiato la natura e i diritti naturali, ossia libertà e uguaglianza, ma soprattutto il colore delle pianure italiane e del rigoglioso territorio nazionale. Il bianco come richiamo simbolico al biancore invernale dei rilievi montani al centro della bandiera, affiancato, sul battente, dal rosso a simboleggiare il sangue dei caduti per liberare l’Italia dagli invasori. Tuttavia il vessillo dell’Italia libera, nella sua semplice vivacità cromatica, si presta a svariate interpretazioni al di là del richiamo ai valori ereditati dalla rivoluzione francese.

Ecco, quindi, il ricco e variegato mondo che la bandiera nasconde dentro i suoi colori ed il messaggio che dovrebbe comunicare a chi vi guardasse come idealità per una nazione chiamata alla solidarietà, alla collaborazione, all’unità di valori, di intenti e di progetti di vita individuale e sociale.

È passata quasi sotto silenzio, quest’anno, la Giornata nazionale del Tricolore, indetta per il 7 gennaio, per celebrare il 224°anniversario della nascita del vessillo nazionale e, constatando il presente politico e sociale della «nazione», leggo più come un auspicio che come dato reale le parole del presidente Mattarella: «Il Tricolore, come forse mai accaduto di recente in maniera così intensa, ha saputo rappresentare la nostra identità, il sentimento di coesione di un popolo che vuole guardare avanti, senza dimenticare le sofferenze provocate dalla pandemia, ma con la volontà di ripartire».

Bandiere di ogni tipo in circolazione, troppo spesso una contro l’altra, in competizione se non in lotta tra loro; più disfide da ring, per ora incruente, che competizioni tra campioni per acclamare i migliori. Il simbolo d’unità nazionale per antonomasia esposto sui balconi più per sostenere la squadra di calcio nazionale che per acclamare chi

l’Italia la vuole unita, solidale, autrice e sostenitrice dei valori che la bandiera tricolore simboleggia.

La cosa che più mi colpisce e spaventa l’ho vista rappresentata nelle immagini sconvolgenti che ci sono giunte dai tanto celebrati Stati «uniti» d’America. Uniti da che cosa? In nome di quali principi, quali valori e intenti? Il simbolo a stelle e strisce, vessillo di libertà, democrazia, rispetto dei valori fondanti la grande nazione, sbandierato dai rivoltosi, ostentato su pettorine, cappelli, magliette e quant’altro, nel mentre si violentava, si umiliava, si distruggeva irridendo in modo blasfemo la concretezza dei luoghi dove quei valori trovavano la propria sede, forza e dignità. Campidoglio di Washington, sede del parlamento federale statunitense, dove una masnada di mentalmente e sentimentalmente plagiati sbeffeggiava il luogo dove si esercitano i diritti e i doveri simboleggiati dalla bandiera dell’Unione e dove la stessa bandiera veniva sventolata per svilirne e svuotarne del suo nobile contenuto ideale. E pensare che a fomentare questa discrasia, questa frattura si staglia contro un cielo plumbeo la figura del capo dello Stato, il garante dei valori rappresentati da Campidoglio e bandiera nazionale.

Non è la prima volta che proprio la bandiera, i suoi colori e i valori umani e civili che simboleggia viene usata per contraddire gli stessi.

Quante volte ho visto lungo le strade della Benečija, sui balconi e pennoni dei nostri paesi sventolare il tricolore con l’intento specifico e determinato di affermare un’appartenenza per escluderne un’altra. Come gridare: «Siamo italiani», ma non nel senso rappresentato dalla bandiera, la quale, interpretando la Costituzione non esclude, anzi tutela, il diverso per lingua o per altro. Esporla per affermare un nazionalismo discriminante e razzista. Quanti crimini e quante prevaricazioni nel nome di una bandiera usata come arma sguainata per dividere invece che mano tesa per chiamare a raccolta e favorire l’unità.https://www.dom.it/quelle-bandiere-sbeffeggiate_oskrunjene-zastave/?fbclid=IwAR3bJspzzYzGb3LY_9dz2XXYmqQfoEPfJRdaNTvMmJBXf7kLyZsGygl9j3g

 

15 gen 2021

La pitina che cos'è?

 

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pitina_IGP_01.jpg#/media/File:Pitina_IGP_01.jpg

La pitina è una polpetta di carne affumicata originaria della Val Tramontina a nord di Pordenone in Friuli Venezia Giulia.In passato, nelle valli a nord di Pordenone, quando si abbatteva un camoscio o un capriolo, se si feriva o ammalava una pecora o una capra (troppo preziose per essere seppellite) era d'obbligo trovare un metodo di conservazione di lungo periodo. Proprio dall'esigenza di conservazione delle carni nacque la pitina e le sue varianti[1]. L'animale veniva disossato e la carne triturata finemente nella pestadora (un ceppo di legno incavato). Alla carne si aggiungevano sale, aglio, pepe nero spezzettato. Con la carne macinata si formavano piccole polpette, si passavano nella farina di mais e si facevano affumicare sulla mensola del focolare bruciando soprattutto legno di pino mugo. Una volta affumicata la pitina poteva resistere per molti mesi e diventava quindi un riferimento nella dieta dei tramontini.Sembra che già nella prima metà del 1800 fosse in uso fra le genti che abitavano le borgate di Frassaneit, località sita nel comune di Tramonti di Sopra[2].Originalmente la pitina era composta esclusivamente da carni ovine o caprine o da selvaggina ungulata d'alta montagna (camoscio o capriolo). La forma di polpetta è dovuta al fatto che in zone montane non c'erano possibilità di reperire budella per insaccare la carne e quindi conservarla, per cui si era sfruttato questo espediente per sopperire questa carenza. La preparazione non richiedeva particolari attrezzature quindi era possibile prepararle ovunque anche in malghe lontane da centri abitati. Questo succedeva normalmente senza un preciso programma, per cui una capra che si spezzava una zampa, un malessere da parto o l'abbattimento di un camoscio, erano l'occasionale condizione per l'immediata preparazione delle Pitine.https://it.wikipedia.org/wiki/Pitina

Tentativi di Haiku


 neve candida

copre tutto il prato

gioia dei bimbi

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confinamento

 stanno tutti in casa

è reclusione

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