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🌞Blog che parla del Friuli: in particolare delle minoranze linguistiche slovena,friulana e tedesca e non solo. ❤️ Sono figlia di madre slovena (Ljubljana) e di padre appartenente alla minoranza slovena della provincia di Udine🌞 (Benecia).Conosco abbastanza bene la lingua slovena.Sono orgogliosa delle mie origini.OLga

INNO SLOVENO

তততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততত INNO SLOVENO "Vivano tutti i popoli che anelano al giorno in cui la discordia verrà sradicata dal mondo ed in cui ogni nostro connazionale sarà libero, ed in cui il vicino non sarà un diavolo, ma un amico!"❤️ FRANCE PREŠEREN poeta sloveno তততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততততত

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30 mag 2022

E' morto Boris Pahor, memoria storica del Novecento



https://www.ilfriuli.it/articolo/cronaca/e--morto-boris-pahor-memoria-storica-del-novecento/2/266917 


0 maggio 2022

Si è spento, a 108 anni, Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena. Con lui se ne va un testimone diretto delle principali pagine di storia del Novecento.

Pahor era sopravvissuto alla Spagnola, che invece uccise l'amata sorella, alle persecuzioni fasciste, alla guerra in Libia, a cinque di lager e al sanatorio francese dove trascorse un anno e mezzo, perché malato di tubercolosi.

Aveva vissuto una vita piena, difficile, contrassegnata dalla violenza e dai contrasti del ‘Secolo breve’, ma anche ricca di successi internazionali, grazie alle sue opere che testimoniano il suo vissuto.

Nato nel 1913 a Trieste, allora porto principale dell'impero asburgico, quando governava Francesco Giuseppe, con la sua vita e i suoi racconti ha attraversato tutto il ‘900: dalle prime persecuzioni della minoranza slovena, allo squadrismo fascista, fino alle Guerre Mondiali e ai campi di sterminio nazisti, dove fu deportato.

Pahor era stato testimone dell'incendio del Narodni Dom - sede centrale delle organizzazioni della comunità slovena -, il 13 luglio 1920 a Trieste, evento che lo aveva profondamente segnato e che aveva poi descritto nella raccolta di novelle "Il rogo nel porto".

Testimone fin da bambino delle discriminazioni verso la sua minoranza, quella slovena, nel 1940 venne arruolato nell'esercito italiano e mandato sul fronte in Libia. Poi nel '43, dopo l'armistizio dell'8 settembre torna a Trieste, ormai sotto occupazione tedesca dove decide di unirsi alle truppe partigiane slovene che operavano nella Venezia Giulia, aderendo alla Resistenza (nel 1955 descriverà quei giorni decisivi nel famoso romanzo Mesto v zalivu ("Città nel golfo"), col quale diventerà celebre nella vicina Slovenia) e nel '44 fu consegnato ai nazisti e internato in vari campi di concentramento in Francia e in Germania (Natzweiler-Struthof, Dachau e Bergen-Belsen). La deportazione durante la Seconda Guerra Mondiale è narrata nel suo capolavoro autobiografico "Necropoli".

Finita la guerra, tornò nella città natale, aderendo a numerose imprese culturali dell'associazionismo cattolico e non-comunista sloveno. Negli Anni '50, diventa il redattore principale della rivista triestina Zaliv (Golfo) che si occupa, oltre a temi strettamente letterari, anche di questioni di attualità. In quel periodo, Pahor continua a mantenere stretti rapporti con Edvard Kocbek, ormai diventato un dissidente nel regime comunista jugoslavo. I due sono legati con uno stretto rapporto di amicizia. Nel 1975 Pahor pubblica, assieme all'amico triestino Alojz Rebula, il libro "Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca".

Nel libro-intervista, pubblicato a Trieste, il poeta sloveno denuncia il massacro di 12.000 prigionieri di guerra, appartenenti alla milizia anti-comunista slovena (domobranci), e i crimini delle foibe perpetrati dal regime comunista jugoslavo nel maggio del 1945.

Il libro provoca durissime reazioni da parte del governo jugoslavo. Le opere di Pahor vengono proibite nella Repubblica Socialista di Slovenia e a Pahor viene vietato l'ingresso in Jugoslavia. Grazie alla sua postura morale e estetica, Pahor diventa uno dei più importanti punti di riferimento per la giovane generazione di letterati sloveni, a cominciare da Drago Jancar. Le sue opere, scritte in sloveno, sono tradotte in francese, tedesco, serbo-croato, ungherese, inglese, spagnolo, italiano, catalano e finlandese.

Nel novembre 2008 gli era stato conferito il Premio Resistenza per il libro Necropoli. Il 18 dicembre 2008 Necropoli è stato eletto Libro dell'Anno da una giuria di oltre tremila ascoltatori del programma di Radio 3, dedicato ai libri, Fahreneit.

Membro dell'Accademia slovena delle scienze e arti, Pahor è stato insignito di importanti premi e onorificenze, anche a livello internazionale: fra gli altri, nel 1992 ha ricevuto il Premio Prešeren, massimo riconoscimento per i risultati ottenuti in campo artistico in Slovenia, mentre nel 2007 gli è stata attribuita la Legion d'Onore da parte del Presidente della Repubblica Francese. Più volte candidato al Premio Nobel per la letteratura, ha iniziato la sua vasta produzione, che comprende romanzi e saggi tradotti in una decina di lingue, nel 1948 con i racconti dal titolo Moj traški naslov (Il mio indirizzo triestino).

Il 13 luglio 2020, in occasione della storica visita del Presidente Sergio Mattarella e del suo omologo sloveno Borut Pahor, era stato premiato con la doppia massima onorificenza, italiana e slovena.


Anika Horvat - Vse bo še dobro-Andrà tutto bene (Official Video) 2022

Nascita24 maggio 1977 (età 45 anni), Capodistria, Slovenia

29 mag 2022

Il Giro d'Italia


 Il Giro d'Italia (detto anche Giro o Corsa Rosa) è una corsa a tappe maschile di ciclismo su strada professionistico che si svolge annualmente lungo le strade italiane.

Istituito nel 1909 su idea dei giornalisti Tullo MorgagniEugenio Camillo Costamagna e Armando Cougnet, è una delle tre corse a tappe più importanti del calendario ciclistico, insieme al Tour de France e la Vuelta a España, ed è inserito dall'Unione Ciclistica Internazionale nel circuito professionistico del World Tour; storicamente è da ritenersi la seconda corsa a tappe più prestigiosa dopo quella francese[1], anche se, a cavallo tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta e durante gli anni settanta, il prestigio e il numero di grandi ciclisti iscritti portarono il Giro ad avere un'importanza pari a quella del Tour.

A partire dalla prima edizione si è sempre disputato, salvo che per le interruzioni dovute alla prima e alla seconda guerra mondiale, nell'arco di tre settimane tra i mesi di maggio e giugno, fatta eccezione per il 1946, quando si corse tra giugno e luglio, e il 2020, anno in cui, a causa della pandemia di COVID-19, viene rinviato a ottobre[2]. La corsa si svolge sul territorio italiano, ma occasionalmente il percorso può interessare località al di fuori dai confini italiani (sconfinamenti, arrivi o partenze di tappa, prime tappe). Mentre il luogo di partenza è in genere ogni volta diverso, l'arrivo è il più delle volte posto a Milano, città sede de La Gazzetta dello Sport, il quotidiano sportivo che organizza la corsa sin dalla sua istituzione. Proprio il colore delle pagine della Gazzetta, il rosa, caratterizza dal 1931 la maglia del ciclista primo in classifica; anche per questo motivo il Giro è noto come "Corsa rosa".

Il record di vittorie al Giro è condiviso da tre ciclisti, ognuno con cinque vittorie: gli italiani Alfredo Binda, vincitore tra il 1925 e il 1933, e Fausto Coppi, vincitore tra il 1940 e il 1953, e il belga Eddy Merckx, che vinse tra il 1968 e il 1974. Per quel che riguarda le vittorie di tappa, il record appartiene al velocista italiano Mario Cipollini, che nell'edizione del 2003 riuscì a superare il record di 41 vittorie che dagli anni trenta apparteneva ad Alfredo Binda; a quest'ultimo rimangono i record di vittorie di tappa in una stessa edizione, 12 tappe su 15 nel 1927, e di vittorie di tappa consecutive, ben 8 nel 1929. Parallelamente ogni anno è organizzato anche il Giro Baby riservato alla categoria Under-23 uomini e il Giro Donne riservato alla categoria professionistica femminile.

1909-1918: la nascita e i primi anni[modifica | modifica wikitesto]

La nascita del Giro venne formalizzata con un annuncio sulla Gazzetta dello Sport il 24 agosto 1908, con la promessa di 25 000 lire di premio al vincitore e la volontà di organizzare «una delle prove più ambite e maggiori del ciclismo internazionale». Nell'organizzazione del Giro la Gazzetta dello Sport anticipò di poco il Corriere della Sera, che stava per dare il via a un'iniziativa ciclistica nazionale sulla scorta dell'analogo Giro automobilistico d'Italia lanciato qualche anno prima.[3] Il primo Giro d'Italia partì il 13 maggio 1909 alle 2:53 da Piazzale Loreto, a Milano, con 127 ciclisti al via.[3] La prima tappa di sempre fu vinta da Dario Beni sul traguardo di Bologna dopo 397 km a 28,090 di media oraria. Fra il 13 e il 30 maggio si corsero otto tappe, per complessivi 2.447 chilometri, che videro affrontarsi i migliori ciclisti dell'epoca: tra essi Giovanni GerbiGiovanni RossignoliLuigi Ganna (cui andò la vittoria finale), Carlo GalettiEberardo Pavesi e Giovanni Cuniolo.[4] La classifica fu stilata a punti, sulla base dei piazzamenti nelle tappe, e il montepremi effettivo fu di 18 900 lire, di cui 5 325 per il vincitore.[4]

Luigi Ganna vincitore al Giro 1909

Le due seguenti edizioni videro imporsi Carlo Galetti, sempre con un sistema di graduatoria a punti. Da segnalare negli annali è il quarto Giro, quello del 1912, in cui venne stilata la sola classifica per squadre: la vittoria andò così ufficialmente all'Atala (formata da Ganna, Galetti, Pavesi e Micheletto), e solo in via ufficiosa, a livello individuale, a Carlo Galetti. Dopo un Giro 1913 in cui si tornò alla classifica individuale a punti, vinto da Carlo Oriani, nel 1914 fu introdotta la classifica generale a tempo, tutt'ora in vigore, che sostituiva quella a punti: si impose Alfonso Calzolari, nonostante una penalizzazione di tre ore comminatagli dalla Gazzetta e l'iniziale squalifica da parte dell'Unione velocipedistica italiana, revocatagli solo nel 1915 dal Tribunale di Milano, per essersi attaccato a un'autovettura sulla Salita delle Svolte, in Abruzzo.[5] Quel Giro 1914, considerato il più duro di sempre, fu portato al termine da soli otto ciclisti su 81 partiti; si ebbero anche la tappa più lunga di sempre, 430,3 km da Lucca a Roma, e la media oraria di percorrenza più bassa di sempre, 23,347 km/h.[6][5]

La partenza della corsa nelle prime edizioni del Giro fu sempre a Milano, tranne che nel 1911, quando si partì da Roma per celebrare il cinquantenario dell'Unità d'Italia;[4][7] l'arrivo fu invece posto a Milano nel 1909, 1910, 1913 e 1914, mentre nel 1911 fu ancora a Roma e nel 1912 fu spostato da Milano a Bergamo con l'aggiunta di un'ulteriore tappa in sostituzione della frazione Pescara-Roma annullata per lo straripamento di un torrente.[8][4] Dal 1915 al 1918 la corsa dovette quindi fermarsi per l'ingresso dell'Italia nella Prima guerra mondiale.

continua ...https://draft.blogger.com/blog/post/edit/2963768517500394620/1575995704887181417

Il budino al cioccolato di Graziana

 


Il budino al cioccolato di Graziana

di Roberto Zottar
A guardare le scatole dei preparati in polvere fra i banchi del supermercato a nessuno verrebbe in mente che i budini, in realtà, hanno origini antichissime e che, nel passato, erano delle preparazioni salate. L’etimologia remota del termine budino, infatti, si ricollega al latino ‘botellus’, ‘budello’, che in origine si usava per preparare salsicce o budini salati. I romani preparavano il ‘sanguiculus’ – ‘sanguinaccio’ – anche noto come ‘botellus sanguineus’ – ossia una salsiccia ottenuta con sangue di maiale e in Friuli oggi nota come ‘mule’ o ‘sanganel’. Nel medioevo continua la preparazione dell’insaccato e abbiamo documenti tardo medievali, tra cui il Ménagier di fine del XIV secolo, che descrivono ricette per un ‘boudin blanc’, cioè salsiccia, e un ‘boudin noir’, il sanguinaccio, che nella cucina inglese diventa poi ‘(black) pudding’. La carne veniva macinata fino ad una consistenza finissima, quasi spalmabile. Queste preparazioni si sono poi evolute solo nel corso del XVIII secolo nelle tipologie di budini dolci conosciute oggi, mantenendo dei prodotti di salumeria soltanto la consistenza morbida. Della famiglia del budino fanno parte oggi creme in tazza, creme caramel, bavaresi. Il budino era molto diffuso in Veneto, usato non solo come dolce, ma anche come secondo piatto; venivano mescolati latte, miele, riso o semolino o farina, uva passa e zucchero che lo rendevano molto ricco. Nello stesso periodo anche in Gran Bretagna il budino cotto (boiled pudding) era il cibo giornaliero della marina militare, la Royal Navy. Il termine attuale ‘budino’ è un adattamento dell’inglese ‘pudding’: è documentata nel Settecento la forma ‘puddingo’ sul quale in seguito influì probabilmente anche il francese ‘boudin’.
La ricetta di oggi quindi non può che essere quella di un budino, l’ottimo budino al cioccolato di Graziana, una amica di web che per la passione per la cucina anni fa ha lasciato il posto fisso in una azienda pubblica per aprire una rosticceria a Trieste. La ricetta non prevede uova. Setacciate insieme 100 g di farina, 200 g di zucchero e 100 g di cacao amaro di alta qualità e versate il tutto in un tegame dove avrete fatto sciogliere 100 g di burro. Mescolate bene, aggiungete un litro di latte e cuocete per 10’ dal bollore abbassando la fiamma. Caramellate uno stampo da budino, bagnate con un cucchiaio di rum e versatevi la crema. Lasciate raffreddare e rassodate in frigorifero. Invece del cacao si può usare cioccolato fondente e, volendo esagerare, parte del latte può essere sostituito da panna liquida.
Buon appetito!

LIBRI

 


GUERRA E PACE -Tolstoj

Meditata a partire dal 1863, più volte rivista e riscritta fino alla versione del 1886, "Guerra e pace" è l'opera più nota di Tolstòj e una delle più lette e amate della letteratura universale. In queste pagine di altissima scrittura, in cui spiccano le celeberrime figure della contessina Natàsha Rostòva e del principe Andréj Bolkònskij, si narrano le vicende di due famiglie dell'aristocrazia russa, i Bolkònskij e i Rostòv appunto, sullo sfondo della Russia patriarcale e contadina devastata dalle guerre e dall'invasione di Napoleone, ma ancor più sconvolta dall'influsso, borghese e civilissimo, dell'Europa occidentale. Della Grande Russia di inizio Ottocento "Guerra e pace" è infatti insieme il magnifico epos e la struggente elegia. Un capolavoro che esce dagli angusti confini del romanzo.

Guerra e pace mescola personaggi di fantasia e storici; essi vengono introdotti nel romanzo nel corso di una soirée presso Anna Pavlovna Scherer nel luglio 1805Pierre Bezuchov è il figlio illegittimo di un conte benestante che sta morendo di ictus: egli rimane inaspettatamente invischiato in una contesa per l'eredità del padre. L'intelligente e sardonico principe Andrej Bolkonskij, marito dell'affascinante Lise, trova scarso appagamento nella vita di uomo sposato, cui preferisce il ruolo di aiutante di campo (aide-de-camp) del Comandante Supremo Michail Illarionovič Kutuzov nell'imminente guerra contro Napoleone. Apprendiamo pure dell'esistenza della famiglia moscovita dei Rostov, di cui fanno parte quattro adolescenti. Fra loro, s'imprimono soprattutto nella memoria le figure di Natal'ja Rostova ("Nataša"), la vivace figlia più giovane, e di Nikolaj Rostov, il più anziano ed impetuoso. A Lysye Gory ('Colline calve'), il principe Andrej affida al proprio eccentrico padre, ed alla mistica sorella Marja Bolkonskaja, sua moglie incinta e parte per la guerra. all'inizio del romanzo

Uno dei personaggi centrali di Guerra e pace è senz'altro Pierre Bezuchov. Ricevuta un'eredità inattesa, è improvvisamente oberato dalle responsabilità e dai conflitti propri di un nobile russo. Il suo precedente comportamento spensierato svanisce, rimpiazzato da un dilemma tipico della poetica di Tolstoj: come si dovrebbe vivere, in armonia con la morale, in un mondo imperfetto? Si sposa con Hélène, la bella ed immorale figlia del principe Kuragin, andando contro il suo stesso miglior giudizio. Preso dalla gelosia affronta in un duello il suo presunto rivale e malgrado non abbia mai impugnato una pistola lo vince. Si separa dalla moglie lasciandole metà del patrimonio quando in preda a riflessioni e sommerso da dubbi sulla vita incontra i massoni e ne diventa confratello. Pieno di buone intenzioni tenta di liberare i suoi contadini o servi della gleba ma viene imbrogliato dai suoi amministratori e non ottiene niente per migliorare le loro condizioni di vita, tenta anche di migliorare i suoi fondi agrari, ma in definitiva non ottiene risultati.

Il principe Andrej, la cui moglie Lise è nel frattempo morta di parto, rimane gravemente ferito durante la sua prima esperienza guerresca. Decide, in seguito a profonde riflessioni, di dedicarsi all'amministrazione delle sue proprietà; è in questo periodo che inizia a frequentare la casa dei Rostov e si innamora, ricambiato, della giovane Nataša. Amore osteggiato dal vecchio padre di lui, la cui ostilità fa decidere al principe Andrej di separarsi per un anno da Nataša, in attesa che il loro amore si consolidi.

Durante quest'intervallo Hélène e suo fratello Anatole tramano per far sì che quest'ultimo seduca e disonori la giovane e bella Nataša Rostova. Il piano fallisce in extremis; ma Andrej, venutone a conoscenza, ripudia Nataša, che cade in una profonda depressione; tuttavia, per Pierre, è causa di un importante incontro con la giovane Rostova.

Quando Napoleone invade la Russia, Pierre osserva la Battaglia di Borodino da distanza particolarmente ravvicinata, sistemandosi dietro agli addetti di una batteria di artiglieria russa, ed apprende quanto la guerra sia realmente sanguinosa ed orrida. Quando la Grande Armata occupa Mosca, in fiamme ed abbandonata per ordine del governatore Fëdor Vasil'evič Rostopčin Pierre intraprende una missione donchisciottesca per assassinare Napoleone, e viene fatto prigioniero di guerra. Dopo essere stato testimone del saccheggio perpetrato dai francesi su Mosca, con relative fucilazioni di civili, Pierre è costretto a marciare con le truppe nemiche nella loro disastrosa ritirata. Successivamente viene liberato da una banda russa che sta conducendo un'incursione. Andrej, ancora innamorato di Nataša, rimane ferito nella battaglia di Borodino ed alla fine muore dopo essersi ricongiunto a Nataša prima della fine della guerra. Pierre, rimasto vedovo, si riavvicina a Nataša mentre i russi vincitori ricostruiscono Mosca. Pierre conosce finalmente l'amore e sposa Nataša, mentre Nikolaj sposa Mar'ja Bolkonskaja.

Tolstoj ritrae con efficacia il contrasto tra Napoleone ed il (già ricordato) generale russo Kutuzov, sia in termini di personalità, sia sul piano dello scontro armato. Napoleone fece la scelta sbagliata, preferendo marciare su Mosca ed occuparla per cinque fatali settimane, quando meglio avrebbe fatto a distruggere l'esercito russo in una battaglia decisiva. Kutuzov rifiutò di sacrificare il proprio esercito per salvare Mosca: al contrario, dispose la ritirata e permise ai francesi l'occupazione della città. Una volta dentro a Mosca, la Grande Armée si disperse, occupando abitazioni più o meno a casaccio; la catena di comando collassò, e (ineluttabilmente, a giudizio di Tolstoj) ne derivò la distruzione di Mosca a causa di un incendio.

Tolstoj spiega che ciò era inevitabile, perché quando una città costruita in buona parte in legno è lasciata in mano a stranieri, che naturalmente cuociono cibi, fumano pipe e tentano di scaldarsi, necessariamente si attizzano dei focolai. In assenza di un qualche servizio antincendio organizzato, questi roghi avrebbero arso buona parte della città. Dopo gli incendi, l'esercito francese, prossimo allo sbando, tenterà di guadagnare la via di casa, subendo però la durezza dell'inverno russo e le imboscate dei partigiani locali.

Napoleone prese la sua carrozza, con una muta di cavalli veloci, e partì alla testa dell'esercito, ma la maggior parte dei suoi non avrebbe più rivisto la patria. Il generale Kutuzov è convinto che il tempo sia il suo più valido alleato: continua a procrastinare la battaglia campale, mentre in effetti i francesi sono decimati dalla loro penosa marcia verso casa. Sono poi pressoché annientati quando i cosacchi sferrano l'attacco finale, nella battaglia della Beresina.

28 mag 2022

L’insegnante di Cordenons e le lettere alla regina Elisabetta: un rapporto epistolare che dura da trent’anni

 


Vilma Scian ha cominciato a scrivere con i suoi studenti alla casa reale britannica. I Windsor hanno sempre risposto ai messaggi e lei conserva una settantina di lettere

CORDENONS. Fervono in Inghilterra i preparativi per le celebrazioni dei 70 anni dall’ascesa al trono della Regina Elisabetta II, in calendario dal 2 al 5 giugno. Un appuntamento storico, del quale non si è dimenticata Vilma Scian, di Cordenons, che ha avviato un rapporto epistolare con la casa reale britannica già da tempo, quand’era insegnante di inglese, e che continua ancora oggi, in occasione degli eventi che coinvolgono i Windsor.

da Messaggero Veneto

David Maria Turoldo

 


A Milano iniziano le manifestazione per i 30 anni dalla morte di Turoldo.

David Maria Turoldoal secolo Giuseppe Turoldo (Coderno22 novembre 1916 – Milano6 febbraio 1992), è stato  un presbiteroteologofilosofoscrittorepoeta e antifascista italiano, membro dell'ordine dei Servi di Maria. È stato, oltre che poeta, figura profetica in ambito ecclesiale e civile, resistente sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso, di ispirazione conciliare. È ritenuto da alcuni uno dei più rappresentativi esponenti di un cambiamento del cattolicesimo nella seconda metà del '900, il che gli ha valso il titolo di "coscienza inquieta della Chiesa"

Nono di dieci fratelli, Giuseppe Turoldo recepì con intensità le caratteristiche della semplice cultura umana del suo ambiente nativo e prevalentemente contadino. Colse e fece propria la dignità delle condizioni povere della sua terra, che costituirono una solida radice informante tutto lo sviluppo della sua sensibilità e della sua attività futura.

A soli 13 anni fu accolto tra i Servi di Maria nel convento di Santa Maria al Cengio a Isola Vicentina, sede triveneta della Casa di Formazione dell'Ordine Servita: dove trascorse l’anno di noviziato, assumendo il nome di fra David Maria; il 2 agosto 1935 emise la professione religiosa; il 30 ottobre 1938 pronunciò i voti solenni a Vicenza. Incominciò gli studi filosofici e teologici a Venezia. Il 18 agosto 1940 nel santuario della Madonna di Monte Berico di Vicenza venne ordinato presbitero da monsignor Ferdinando Rodolfi, arcivescovo di Vicenza.

Nel 1940 fu assegnato al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso in Milano. Su invito del cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo della città, per circa un decennio tenne la predicazione domenicale nel duomo milanese. Insieme con il suo confratello, compagno di studi durante tutto l'iter formativo nell'Ordine dei Servi e amico Camillo de Piaz, si iscrisse al corso di laurea in filosofia all'Università Cattolica di Milano e conseguì la laurea l'11 novembre 1946 con una tesi dal titolo: La fatica della ragione - Contributo per un'ontologia dell'uomo, redatta sotto la guida del prof. Gustavo Bontadini. Sia Bontadini sia Carlo Bo gli offriranno il ruolo di assistente universitario, il primo presso filosofia teoretica a Milano, il secondo presso la cattedra di Letteratura all'Università di Urbino.

Presenza milanese

Durante l'occupazione nazista di Milano (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945) collaborò attivamente con la resistenza antifascista, creando e diffondendo dal suo convento il periodico clandestino l'Uomo. Il titolo testimonia la sua scelta dell'umano contro il disumano, perché «La realizzazione della propria umanità: questo è il solo scopo della vita». La sua militanza durò tutta la vita, interpretando il comando evangelico "essere nel mondo senza essere del mondo" come un "essere nel sistema senza essere del sistema". Rifiutò sempre di schierarsi con un partito.

Il suo impegno nel dialogo senza preconcetti e nel confronto di idee talvolta anche duro, si tradusse in particolare nel far nascere, insieme con Camillo De Piaz, il centro culturale la Corsia dei Servi (il vecchio nome della strada che dal convento dei Servi conduceva al duomo).

Turoldo fu uno dei principali sostenitori del progetto Nomadelfia, il villaggio nato per accogliere gli orfani di guerra “con la fraternità come unica legge”, fondato da don Zeno Saltini nell'ex campo di concentramento di Fossoli presso Carpi, raccogliendo fondi presso la ricca borghesia milanese.

Tra il 1948 e il 1952 si rende noto al grande pubblico con due raccolte di liriche Io non ho mani (che gli valse il Premio letterario Saint Vincent) e Gli occhi miei lo vedranno, presentato nella collana mondadoriana Lo Specchio da Giuseppe Ungaretti.

A seguito di prese di posizione assunte da politici locali e da alcune autorità ecclesiastiche, nel 1953 deve lasciare Milano e soggiornare in conventi dei Servi dell’Austria e della Baviera. . . .continua https://it.wikipedia.org/wiki/David_Maria_Turoldo


Il Frico friulano

27 mag 2022

Nel Comune di Lusevera/Bardo aspettando il Giro






foto da fb ringrazio il fotografo 

UCRAINA: Quando gli aggressori eravamo noi



C’è stato un tempo in cui gli aggressori in Ucraina eravamo noi: era il 1941 in piena seconda mondiale. L’Italia fascista seguì Hitler nella sua folle impresa di Russia.

I toni sono quelli pomposi tipici dell’epoca, la musica è incalzante, percussioni e ottoni a farla da padroni, sopralzano persino gli archi, relegati una volta tanto a gregari. Le immagini sono quelle in bianco e nero, firma inconfondibile dei filmati dell’Istituto Luce d’epoca fascista.

E in quel filmato, poco più di tre minuti in tutto, al minuto 1:21 la voce narrante ci informa che quelle che stiamo vedendo sono le riprese girate da “i nostri ricognitori nei cieli di Dniepropetrovsk, la grande città industriale, dopo i bombardamenti effettuati dai bombardieri italiani”.

Ancora oggi, nel pieno dell’invasione russa dell’Ucraina, il corso del Dnepr – il principale fiume ucraino che bagna anche la capitale Kiev – è uno spartiacque, divide il fronte orientale da quello occidentale del conflitto. Ma c’è stato un tempo in cui su quella linea di fronte c’eravamo noi, noi italiani, con le nostre truppe arraffazzonate e i nostri carrarmati di cartone.

A leggere i nomi di dove passammo, di dove combattemmo in quei mesi, sembra di leggere le cronache dei giornali di oggi: non solo Dnepr, dove le truppe italiane arrivarono dopo una marcia di centinaia di chilometri lungo i terreni argillosi resi impraticabili dalle avverse condizioni del tempo, ma anche Voznesensk, Pokrovika, Kharkiv, Kiev. Kiev, soprattutto: fu qui che gli italiani parteciparono insieme alle truppe naziste alla manovra di accerchiamento della capitale per prendere successivamente parte all’offensiva nel Dombass – dove si insediarono tra l’ottobre e il novembre del 1941 – e, più a sud, lungo la costa del Mar d’Azov prima di entrare in territorio russo.

A partire, nell’estate del 1941, fu il cosiddetto Corpo di Spedizione Italiano in Russia, CSIR, costituito da tre divisioni, la 3° Divisione Celere Principe Amedeo Duca D’Aosta, la Divisone Pasubio e la Divisione Torino. Ad esse, su richiesta tedesca, si aggiunsero poi altre sei divisioni che trasformarono la CSIR in ARMIR, l’8° Armata, di cui facevano parte quasi 230 mila uomini. Uno sforzo immane per l’Italia, frutto del tentativo – atrocemente goffo – di Benito Mussolini di prendere parte a una spedizione che si pensava trionfante e che invece si trasformò in una delle più grandi tragedie italiane – e non solo – della Seconda guerra mondiale. Non solo presunzione, comunque, ma il desiderio folle di assicurarsi un posto a tavola quando ci sarebbe stato da spartirsi il bottino con l’alleato tedesco.

Il resto è storia: le truppe italiane ripassarono in Ucraina (e in Bielorussia) nel 1943, nel pieno della drammatica ritirata dalla Russia, quella raccontata in modo straordinariamente efficace da Mario Rigoni Stern ne “Il sergente nella neve” o, ancora, quella narrata in prima persona nel diario di Eugenio Corti “I più non ritornano”.

I numeri della disfatta sono incerti ma lasciano poco margine all’inquadramento dell’impresa sul fronte orientale come disfatta umana, prim’ancora che militare: almeno 90 mila le vittime – ammazzati in combattimento o morti per congelamento e sfinimento durante la ritirata – oltre trentamila i feriti. Un’ecatombe.

Ci vollero duecento tradotte ferroviarie per trasportare le nostre truppe al fronte, ne bastarono diciassette per riportare indietro i superstiti. Un viaggio, tanto malinconicamente quanto magnificamente, evocato da una canzone di Marco Paolini e i Mercanti di Liquore:

Cosa canta il soldato, soldatino / Dondolando, dondolando gli scarponi / Seduto con le gambe ciondoloni / Sulla tradotta che parte da Torino. / Macchinista del vapore / Metti olio nei stantuffi / Della guerra siamo stufi / A casa nostra vogliamo andare.

Molti di quelli che fecero ritorno furono poi internati in Germania dopo l’8 settembre e finirono per lavorare in modo coatto nelle fabbriche tedesche. A fine guerra il rientro dai campi di prigionia tedeschi e russi fu completato solo nel 1954 quando Mosca restituì gli ultimi dodici connazionali. Fatta la conta dei morti accertati e dei prigionieri ritornati dopo anni, mancano all’appello ancora 75 mila uomini, spariti nel nulla.

“(…) vede signora, ogni girasole, ogni albero, ogni campo di grano nascondono i corpi dei soldati italiani (…)”, è una frase dal film “I girasoli” di Vittorio De Sica che rende perfettamente il senso di questo pezzo di storia.

Oggi una nuova invasione arriva da oriente, tutto è cambiato ma tutto resta immutato. Solo un paradosso apparente della storia, la storia si ripresenta sempre uguale a se stessa, cambiano gli attori, non il risultato. È per questo che è utile ricordare che c’è stato un tempo in cui gli invasori eravamo noi, noi gli aggressori, noi dalla parte del torto.(Foto: Pietro Aleotti / East Journal)


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"O ti zemlja rodna, zemlja bedna, ki te milost božja, meni v last je dala" (I. Trinko) "O terra natia, terra misera, piccola, che la grazia divina, mi ha donato" (traduzione)

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