C’è stato un tempo in cui gli aggressori in Ucraina eravamo noi: era il 1941 in piena seconda mondiale. L’Italia fascista seguì Hitler nella sua folle impresa di Russia.
I toni sono quelli pomposi tipici dell’epoca, la musica è incalzante, percussioni e ottoni a farla da padroni, sopralzano persino gli archi, relegati una volta tanto a gregari. Le immagini sono quelle in bianco e nero, firma inconfondibile dei filmati dell’Istituto Luce d’epoca fascista.
E in quel filmato, poco più di tre minuti in tutto, al minuto 1:21 la voce narrante ci informa che quelle che stiamo vedendo sono le riprese girate da “i nostri ricognitori nei cieli di Dniepropetrovsk, la grande città industriale, dopo i bombardamenti effettuati dai bombardieri italiani”.
Ancora oggi, nel pieno dell’invasione russa dell’Ucraina, il corso del Dnepr – il principale fiume ucraino che bagna anche la capitale Kiev – è uno spartiacque, divide il fronte orientale da quello occidentale del conflitto. Ma c’è stato un tempo in cui su quella linea di fronte c’eravamo noi, noi italiani, con le nostre truppe arraffazzonate e i nostri carrarmati di cartone.
A leggere i nomi di dove passammo, di dove combattemmo in quei mesi, sembra di leggere le cronache dei giornali di oggi: non solo Dnepr, dove le truppe italiane arrivarono dopo una marcia di centinaia di chilometri lungo i terreni argillosi resi impraticabili dalle avverse condizioni del tempo, ma anche Voznesensk, Pokrovika, Kharkiv, Kiev. Kiev, soprattutto: fu qui che gli italiani parteciparono insieme alle truppe naziste alla manovra di accerchiamento della capitale per prendere successivamente parte all’offensiva nel Dombass – dove si insediarono tra l’ottobre e il novembre del 1941 – e, più a sud, lungo la costa del Mar d’Azov prima di entrare in territorio russo.
A partire, nell’estate del 1941, fu il cosiddetto Corpo di Spedizione Italiano in Russia, CSIR, costituito da tre divisioni, la 3° Divisione Celere Principe Amedeo Duca D’Aosta, la Divisone Pasubio e la Divisione Torino. Ad esse, su richiesta tedesca, si aggiunsero poi altre sei divisioni che trasformarono la CSIR in ARMIR, l’8° Armata, di cui facevano parte quasi 230 mila uomini. Uno sforzo immane per l’Italia, frutto del tentativo – atrocemente goffo – di Benito Mussolini di prendere parte a una spedizione che si pensava trionfante e che invece si trasformò in una delle più grandi tragedie italiane – e non solo – della Seconda guerra mondiale. Non solo presunzione, comunque, ma il desiderio folle di assicurarsi un posto a tavola quando ci sarebbe stato da spartirsi il bottino con l’alleato tedesco.
Il resto è storia: le truppe italiane ripassarono in Ucraina (e in Bielorussia) nel 1943, nel pieno della drammatica ritirata dalla Russia, quella raccontata in modo straordinariamente efficace da Mario Rigoni Stern ne “Il sergente nella neve” o, ancora, quella narrata in prima persona nel diario di Eugenio Corti “I più non ritornano”.
I numeri della disfatta sono incerti ma lasciano poco margine all’inquadramento dell’impresa sul fronte orientale come disfatta umana, prim’ancora che militare: almeno 90 mila le vittime – ammazzati in combattimento o morti per congelamento e sfinimento durante la ritirata – oltre trentamila i feriti. Un’ecatombe.
Ci vollero duecento tradotte ferroviarie per trasportare le nostre truppe al fronte, ne bastarono diciassette per riportare indietro i superstiti. Un viaggio, tanto malinconicamente quanto magnificamente, evocato da una canzone di Marco Paolini e i Mercanti di Liquore:
Cosa canta il soldato, soldatino / Dondolando, dondolando gli scarponi / Seduto con le gambe ciondoloni / Sulla tradotta che parte da Torino. / Macchinista del vapore / Metti olio nei stantuffi / Della guerra siamo stufi / A casa nostra vogliamo andare.
Molti di quelli che fecero ritorno furono poi internati in Germania dopo l’8 settembre e finirono per lavorare in modo coatto nelle fabbriche tedesche. A fine guerra il rientro dai campi di prigionia tedeschi e russi fu completato solo nel 1954 quando Mosca restituì gli ultimi dodici connazionali. Fatta la conta dei morti accertati e dei prigionieri ritornati dopo anni, mancano all’appello ancora 75 mila uomini, spariti nel nulla.
“(…) vede signora, ogni girasole, ogni albero, ogni campo di grano nascondono i corpi dei soldati italiani (…)”, è una frase dal film “I girasoli” di Vittorio De Sica che rende perfettamente il senso di questo pezzo di storia.
Oggi una nuova invasione arriva da oriente, tutto è cambiato ma tutto resta immutato. Solo un paradosso apparente della storia, la storia si ripresenta sempre uguale a se stessa, cambiano gli attori, non il risultato. È per questo che è utile ricordare che c’è stato un tempo in cui gli invasori eravamo noi, noi gli aggressori, noi dalla parte del torto.(Foto: Pietro Aleotti / East Journal)
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