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27 gen 2022

Per non dimenticare


 Auschwitz di Salvatore Quasimodo

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell'aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.
Da quell'inferno aperto da una scritta
bianca: " Il lavoro vi renderà liberi "
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all'alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all'acqua con la bocca
di scheletro sotto le doccie a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d'animali,
o sei tu pure cenere d'Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d'ebrei: sono reliquie
d'un tempo di saggezza, di sapienza
dell'uomo che si fa misura d'armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

dal web

25 gen 2022

Poesia di Sandro Penna

 

Una storia senza nome


SANDRO PENNA

ERO SOLO E SEDUTO

Ero solo e seduto. La mia storia
appoggiavo a una chiesa senza nome.
Qualche figura entrò senza rumore,
senz'ombra sotto il cielo del meriggio.

Nude campane che la vostra storia
non raccontate mai con precisione.
In me si fabbricò tutto il meriggio
interno a una storia senza nome.

(da Poesie, Garzanti, 1973)

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È uno struggimento che continua a lavorare sotto traccia quello di Sandra Penna, un desiderio ardente che freme e si contiene senza mai traboccare, riversandosi nella solitudine di anonimo osservatore di un’anonima vita: “Nubi leggere ad una ad una il cuore / gremirono di segni senza nome”.

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EDWARD HOPPER, "DOMENICA"

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LA FRASE DEL GIORNO
Ma il mio canto d’amore, il mio più vero, / era per gli altri una canzone ignota.
SANDRO PENNA, Poesie




Sandro Penna (Perugia, 12 giugno 1906 – Roma, 21 gennaio 1977), poeta italiano. Con toni epigrammatici, le sue poesie esprimono spesso un’intenso desiderio sensoriale di vita talora malinconico e cantano l’amore omosessuale (“Poeta esclusivo d’amore”, si definì egli stesso).

https://cantosirene.blogspot.com/


15 gen 2022

La bottiglia è quella

 

La bottiglia è quella


EUGENIO MONTALE

PRESTO O TARDI

Ho creduto da bimbo che non l’uomo
si muove ma il fondale, il paesaggio.
Fu quando io, fermo, vidi srotolarsi
il lago di Lugano nel vaudeville
di un Dall’Argine che probabilmente
in omaggio a se stesso, 
nomen omen,
non lasciò mai la proda. Poi mi accorsi
del mio puerile inganno e ora so
che volante o pedestre, stasi o moto
in nulla differiscono. C’è chi ama
bere la vita a gocce o a garganella;
ma la bottiglia è quella, non si può
riempirla quando è vuota.

(da Diario del ' 71 e del ’72, Mondadori, 1973)

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Tutto è stato inganno e illusione, dice Eugenio Montale, giunto a 75 anni: il poeta della “teologia negativa” non ha saputo prendere le misure del mondo, inquadrare nel suo schema il passaggio dell’uomo, anche il suo, quei “lineamenti / fissi, volti plausibili o possessi” che citava trentenne in Mia vita, a te non chiedo. Il linguaggio non è ancora in grado, neppure dopo tanto tempo, di tracciare “la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe”.

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ELABORAZIONE GRAFICA CON PAINNT

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LA FRASE DEL GIORNO
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
EUGENIO MONTALE, Ossi di seppia




Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981), poeta e scrittore italiano, Gli fu conferito il Premio Nobel per la Letteratura nel 1975 “per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”, ovvero la “teologia negativa” in cui il "male di vivere"  si esprime attraverso la corrosione dell'Io lirico tradizionale e del suo linguaggio.


da https://cantosirene.blogspot.com/



11 gen 2022

La giulugne/brina

dal web


di Angelo Floramo
Il paesaggio che la campagna invernale friulana regala nelle mattinate di gennaio e di febbraio ha tutto lo splendore di un incanto, conservando il profilo delle fiabe raccontate attorno al fuoco, capaci di evocare spiriti e prodigi a involarsi nella cappa fuligginosa del camino. I prati e i campi biancheggiano sotto una scintillante carezza di gelo che trasporta in una dimensione straniante, in bilico tra il sogno e la visione. Le stoppie graffiano la terra, i gelsi sembrano ancora più curvi e nodosi di sempre, quasi fossero irreali processioni di anime penitenti avvolte dalla bruma. La lingua italiana chiama questo fenomeno “brina”, ma in friulano il vocabolo assume una connotazione più forte, quasi ancestrale e profondamente pagana: “giulugne”. Il suo nome deriva da quello di Jule, il dio dell’inverno gelato venerato dai popoli germanici e rimbalzato fin qui tra il V e il VI secolo da sotto le tende di pelle dei Goti o forse rotolato giù dalle rocche di pietra dei Longobardi cantati da Paolo Diacono, quelli che elessero la nostra terra come il loro primo ducato. Concedersi una passeggiata lungo i sentieri che delimitano i poderi, di primo mattino, quando dai fossi riluce il riflesso del ghiaccio e l’erba rinsecchita crocchia sotto le scarpe è un’esperienza di rara bellezza, che andrebbe assaporata con calma. Solo così si possono interiorizzare quei paesaggi che si sono sedimentati nel nostro immaginario collettivo, ereditati dai nostri antenati contadini. Loro, in questo tempo apparentemente sospeso, sapevano bene quanto la terra fosse generosa di piccoli tesori sotto quella coperta di vetro. L’orto malgrado l’alito gelato della bora, regala le rotondità biancastre dei cavolfiori, i cavoli cappucci, le verze, i cardi e le rape, capaci di assicurare alla tavola, anche in mesi di magra, certe soddisfazioni non certo trascurabili perfino per i golosi. Non è un caso che in numerose raccolte statutarie friulane redatte nel Medioevo il furto di questi ortaggi, che garantivano la sopravvivenza della comunità nei mesi più freddi dell’anno, veniva severamente sanzionato. Foglie, radici, gambi si facevano bollire e quindi venivano conservati in recipienti a strati alternati con sale e lievito oppure si mangiavano cotti sotto forma di zuppe e minestre, lasciate sobbollire per ore sul fuoco e poi “ministrate”, ovvero servite nella logica dell’accoglienza e della condivisione. Oggi come allora da quelle pentole si diffonde quell’odore di terra che sa di caldo, di buono, di casa.
da Vita nei campi fb


Angelo Floramo insegna Storia e Letteratura al Magrini Marchetti di Gemona ed è ancora convinto che malgrado tutto sia il mestiere più bello del mondo. Medievista per formazione, ha pubblicato molti saggi e articoli specialistici, collabora con diverse riviste nazionali ed estere; dal 2012 collabora con la Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli in veste di consulente scientifico.

Per Bottega Errante Edizioni ha pubblicato Balkan Circus (Ediciclo-Bottega Errante, due edizioni, finalista al premio “Albatros di Letteratura di viaggio”); Guarneriana Segreta (finalista al premio Latisana Nordest) e L’osteria dei passi perduti (4 edizioni), La veglia di Ljuba (2 edizioni), Come papaveri rossi.https://www.bottegaerranteedizioni.it/?team=angelo-floramo

5 gen 2022

Canto per l'Europa

 

Un viaggio da oriente verso occidente, in barca. A bordo Evropa, una fuggiasca siriana, e quattro cavalieri: Petros il nocchiero greco, Ulivi il cuoco turco, Sam il nostromo francese e il narratore. In libreria "Canto per l'Europa", di Paolo Rumiz. Una recensione


29/12/2021 -  Fabio Fiori

Un libro di Paolo Rumiz è sempre un viaggio. In bici verso Istanbul, in treno per Odessa, a piedi sulla Via Appia, con una vecchia topolino su e giù per gli Appennini. Ha anche camminato nelle trincee delle guerre europee, ha viaggiato da fermo nel ventre di un ciclope in forma di faro. Senza dimenticare la sua predilezione per l'Oriente. In particolare per i Balcani, forse perché “dell'Europa ne sono il cuore di cui mai abbastanza ci si servirà”, riprendendo le parole di un'altro straordinario scrittore errante: Nicolas Bouvier.

In questo nuovo  “Canto per Europa” (Feltrinelli; 255 pp, 17 euro), si viaggia a vela, nella maniera più antica, almeno tra le sponde di quel Mediterraneo che oggi per “molti è solo una massa infinita d'acqua salata”, mentre per i migranti è “Pontos, passaggio, imbarcadero di terra promessa”. Un Mediterraneo che da millenni è al centro di straordinarie avventure e di terribili disavventure, ieri come oggi. Ed è proprio su questo doppio registro, di favola e tragedia, che oscilla questo viaggio di Paolo Rumiz, arricchito dalle illustrazioni oniriche di Cosimo Miorelli, che firma anche la copertina.

Il narratore di questa storia è un Rapsodolevantino, permettendosi un epiteto che si aggiunge agli altri: Scriba, Barbadineve, Taciturno. Perciò nel libro cerca innanzitutto un ritmo, quello dell'endecasillabo, e l’avvia nel proemio come una vecchia fiaba: “In una notte nitida di ottobre”. Una fiaba con una principessa chiamata Evropa, una fuggiasca siriana, e quattro cavalieri: Petros il nocchiero greco, Ulivi il cuoco turco, Sam il nostromo francese e il narratore. Una fiaba nera, come le nuvole che attraversano oggi, o forse da sempre, i cieli d'Europa, “il sogno di chi non ce l'ha”; quello della protagonista: l'Enigmatica, l'Ostinata, la Caparbia. Una giovane figlia dell’Asia che, come tante, scappa da una terra in fiamme, da violenze inenarrabili, da follie sanguinarie. “La divina migrante risplendeva / e quel suo piccolo corpo umiliato riabilitava gli uomini, aveva il potere di liberare il mondo / dal caos, dal disamore e dal frastuono”. Ma, come in tutte le favole, gli uomini non sono i soli personaggi; altrettanto importanti sono gli dei, gli animali, le geografie: terrestri, marine e celesti. Inoltre c'è una seconda, seducente protagonista: Moya, la barca, senziente e parlante.

Moya è realtà che supera la fantasia, perché Moya esiste e naviga ancora oggi. Un barca varata in Inghilterra più di cento anni fa, capace di superare due guerre e un naufragio, con scafo nero e vele rosse. Il suo albero genealogico, quello dei suoi armatori, suggella “uno sposalizio tra due mondi”, d'oltremanica e mediterraneo. Perciò ancora più straziante è il dolore di Petros, il suo ultimo comandante, per un'Europa rimasta orfana proprio dell'Inghilterra. Petros, “ammiraglio delle anime”, triestino di nascita ma figlio pagano dell'Ellade, inglese d'adozione, insegnante a Cardiff, dove cercava di far capire ai ragazzi le meraviglie del mare degli antichi.

Petros che con appassionata perizia marinaresca teneva a poppa l'Union Jack e issava ogni giorno alle crocette la bandiera blu stellata. Bandiere e vele al vento, per un viaggio che parte nell'estremo oriente mediterraneo, con un incontro fatale a Tiro, sulle coste del Libano. Lì, in un tramonto di marzo, nella vita dei quattro barbuti irrompe una ragazza che “sapeva di elicriso e di spavento”, ma controllava la paura e aveva un unico obiettivo. “Andarsene voleva in capo al mondo”, lontano dalla sua patria siriaca sfigurata da guerra, ferocia e ingiustizia.

Così il viaggio dei moyanauti diventa mitopietico: nella barca si rinnova l'unione tra Zeus ed Europa, dalla barca si osserva la follia degli uomini, sulla barca si ritrova la necessaria relazione con il dionisiaco. Moya naviga da oriente verso occidente, toccando Cipro isola sacra ad Afrodite, Rodi l'isola-mandorla, Creta che ha pelle di rugiada, Lesbo fiammeggiante, Ikaria artigliata dall'Austro, Tinos con le sue seicento chiese e tanti altri luoghi di quell'Arcipelago che è antica culla dei miti mediterranei. Ma il viaggio prosegue, i moyanauti inseguono il sole per poter soddisfare le richieste della ragazza, che si rivelerà essere Nostra Signora del Mediterraneo. Avvisteranno l'Etna, il monarca di fuoco, attraverseranno lo Stretto dagli infidi gorghi, seguiranno il falò dello Stromboli. Tanto altro accadrà nell'ultimo capitolo, intitolato “Libro del mare immenso”. Fatti marinareschi ordinari e straordinari, accadimenti divini dolci e amari.

Perché, come ricorda Eros a Tànatos, nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese: “Quando un dio avvicina un mortale, segue sempre una cosa crudele”.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Europa-bella-amata-e-dannata-214804

creative commons

3 gen 2022

FLORA NIVALIS

 


ARTURO GRAF

FLORA NIVALIS

Bianco di neve, lucido di gelo,
Grandeggia il bosco in cupo sonno immerso:
Scintillante di stelle, algido, terso,
Traspar fra i rami irrigiditi il cielo.

E la crescente luna di gennajo,
Che nel sommo del ciel splende falcata,
Sembra una squamma d’oro intarsïata
In uno specchio di brunito acciajo.

Trema per l’alta notte e pei divini
Soporati silenzii a quando a quando
Teneramente doloroso e blando
Un gorgheggio di flauti e di clarini.

Chi è costei che così sola e franca
Per la foresta, in mezzo all’ombre, incede,
E segna appena con lo scarso piede
In suo cammin la intatta neve e bianca?

Chi è costei che in verde gonna, cinta
L’aureo capo di sì pia corona,
Raggia da tutta la gentil persona
Il dolce lume onde l’aurora è tinta?

Di quanti fior la primavera i piani
Allieta e i clivi ed ogni erboso lembo,
Tu fiorite hai le trecce e pieno il grembo,
E piene, o cara, ambe le bianche mani.

O donzelletta, cui benigno elesse
A così nova meraviglia il cielo,
Stringe ogni gleba aspro e tenace il gelo:
Tu dov’hai colta sì gioconda messe?

O cara e pia! se amor non anche è morto,
Spargi lungo la via; spargi i tuoi fiori:
Troppo è la via selvaggia ed aspra, e i cuori
Vengon men per l’angoscia e lo sconforto.

(da Morgana, Treves, 1901)

https://cantosirene.blogspot.com/

31 dic 2021

R0SA DELL' ANNO

 

SIBILLA ALERAMO

ROSA DELL'ANNO

Arrivai una volta,
che un anno finiva,
in un paese di mare,
era sera era freddo
io nessuno conoscevo,
saliva alla stanza
gelida e vasta
suono di danza
e, di più lontano,
l'ansito del mare.
Così m'addormii, né più ricordo
se in sogno piansi.
Una rosa ricordo
che il domani mi comprai,
nella stanza portai
per me sola il giorno
che l'anno incominciava,
bella e bianca fiorita
per me nel mattino del gelo,
e il mare che si lamentava.

Ancora in una sera
che l'anno finisce,
vasta è la stanza
ma c'è fuoco ed è mia,
lungi è il mare,
lungi chi vorrei con me, e tace,
sono sola come quella
che nella sera lontana
sì freddo aveva,
udiva il lamento del mare,
ancor non conosceva
l'amore d'oggi che tace.
Sono sola né piango,
se non forse in cuore,
c'è fuoco nella stanza,
fuori grida salve la città
grida speranza
nella notte dell'anno,
e domani, se non io,
qualcuno una rosa si comprerà.

(da Tutte le poesie, Mondadori, 2004)

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Due strofe per due stagioni della vita nella medesima giornata, quella del 31 dicembre: la poetessa Sibilla Aleramo ricorda di avere trascorso un lontano Capodanno solitario in una stanza d’albergo e di avere acquistato una rosa rossa come segno di auspicio per rallegrare l’anno che iniziava. Molto tempo è passato, molta vita sotto i ponti: ora è nella tranquillità della propria casa, ma lontano è l’amato, ancora trascorre da sola la notte che chiude l’anno e ne apre un altro. Domani qualcuno comprerà una rosa rossa come segno di auspicio.

Buon 2022, lettori del Canto delle Sirene! A voi porgo la rosa rossa della poesia.

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IMMAGINE DI PUBBLICO DOMINIO DA PXHERE

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LA FRASE DEL GIORNO
Non importa quanto sia stato duro il passato, puoi sempre ricominciare.
BUDDHA




Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta Rina (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960), scrittrice e poetessa italiana. Attiva nell’impegno femminista, esordì con il romanzo autobiografico Una donna. La relazione con il poeta Dino Campana generò un importante carteggio e numerose poesie.

Nella consuetudine del tempo – Luisa Delle Vedove

 


 


 Il nuovo libro di Luisa Delle Vedove, Nella consuetudine del tempo, si presenta al lettore senza titoli, suddiviso in quattro sezioni. L’assenza dei titoli, scansionata solo da esergo riportati in calce dall’autrice, è determinata dalla volontà di consegnare al lettore un’opera che si colloca in un percorso poetico senza interruzioni.

Il libro si profila dunque, fin dalla prima sezione, come un cammino senza sosta che esalta l’esperienza dello stare al mondo avvertita nei luoghi innocenti di un’infanzia murata, sfigurata, nella consuetudine del tempo. La vita ha accumulato il dissolversi su ogni cosa guardata, come evidenzia il primo esergo del poeta Mario Benedetti. Ma cosa avviene? Dove stiamo andando? In una casa esausta, fredda dimora di confine in cui le ombre si sono a lungo prolungate. Cosa si è ammassato nella casa prima, molto tempo prima?

La casa – suggerisce l’autrice – è il luogo interiore della ferita, non sappiamo quale. Nei versi c’è un blocco di buio che pronuncia stentatamente una sola parola: madre. Il presente sembra riflettere il disfacimento, ma al lettore arriva un’emozione innocente che si perde nel ricordo emozionale di un microcosmo di neve visto fuori.

Il paesaggio di luce è un bagliore bianco che copre ogni cosa. Le frasi tronche sono il riconoscimento di una grande morte che ingrandisce il buio dentro la casa.      Luigia Sorrentino


«il cielo, di un azzurro vario

– da pennello – ma quello,

con una stella che ritorna

di paesaggio in paesaggio

quella

Sono i versi estratti dalla prima poesia della quarta sezione: leggendo ho avuto la netta impressione di scorgere la luce, quella diagonale della polvere in sospensione che folgora l’interno semibuio di una stanza. La vocazione di San Matteo di Caravaggio, l’illuminazione sui giocatori. È chiaramente evocata la tua attività di pittrice: in che modo la pratica pittorica ha influenzato il percorso di scrittura?

Innanzitutto ti ringrazio per la bella e lusinghiera immagine che hai disegnato con le tue sensibili parole. La luce è forse data dal mio occhio pittorico che agisce e si intromette prospetticamente, senza che io me ne accorga, anche in poesia? Me lo chiedo, perché per me è difficile vedere le analogie dei due ambiti, io vivo il fenomeno dal di dentro. Devo dire però che due mie amiche, entrambi poete, hanno affermato la stessa cosa: tu scrivi poesie, come dipingi. E dunque dovrei chiedere a loro la risposta, ma soffermandomi un attimo a pensare, posso dire che effettivamente c’è qualcosa di simile in pittura e in poesia per me ed è il processo creativo, la tecnica. In pittura creo delle macchie o anche le fotografo e poi osservandole cerco di fare emergere da esse l’immagine che mi suggeriscono. In fondo questo portare dall’indistinto al distinto un’immagine è quello che faccio anche in poesia con la parola. La mia predilezione per figure distinte, ma non definitive, che si impongono su uno sfondo che resta comunque incerto, penso sia effettivamente ciò che può essere visto nei miei testi. Sono immagini attraversate dal tempo, mobili e in divenire.

«di pochi giochi

era tiepido un angolo»

è un estratto dalla nona poesia della prima sezione. Il gioco, dal punto di vista del bambino, è una cosa seria. Secondo la leggenda, o la verità, non sappiamo, il poeta Arnaut Daniel avrebbe inventato la sestina lirica che, nella sua forma, è legata al gioco dei dadi, gioco che ridusse Arnaut in povertà. E nella tua scrittura, che rapporto c’è tra la poesia e il gioco?

Per me il territorio della poesia è sacro e deve essere attraversato con rispetto e devozione. Penso altresì che immergersi seriamente nell’esperienza poetica ci cambi, ci faccia essere sostanzialmente diversi da prima: come essere refrattari, insensibili in quello che è un cammino che si misura con la dimensione umana del dolore, che deve misurarsi con essa, come dice anche Ingeborg Bachmann, per essere autentico? Fatta questa premessa dovrei dire che no, non c’entra nulla il gioco con la poesia, ma subito mi appare una distinzione. Infatti, un conto è il gioco finalizzato a qualcosa altro da sé, come nel quadro della vocazione di San Matteo, dove si gioca per guadagnare denaro e/o avere quella scarica adrenalinica che tanto piace ai giocatori, un conto è il gioco finalizzato a se stesso, che non vuole altro da sé. Qui penso al gioco infantile, libero da costrizioni, che pensa solo a farsi, ad essere. Che inventandosi costruisce un mondo, il mondo del bambino, spinto da un’energia che viene dal di dentro. Un tipo di gioco che ha negli occhi la meraviglia. Ecco forse in questo senso mi arrischio a dire che può esserci qualcosa di simile tra la poesia e il gioco stesso così inteso. Anche in poesia, quando ci abbandoniamo ad essa, quando diventiamo inconsapevolmente la sua mano, tracciamo con le parole un percorso nuovo che ha negli occhi la meraviglia, che sentiamo pulsare di un’energia che sembra quasi non appartenerci e che ci fa dimentichi di noi. In fondo l’atto creativo non è forse uguale in tutti i campi? Per quanto mi riguarda, posso in parte testimoniare quanto dico essendo sia pittrice che poeta. Inoltre, pur non essendo musicista, ho spontaneamente suonato dei piccoli brani e devo dire che con stupore ho riscontrato che la prima esperienza creativa in musica ha superato in intensità le altre, tanto che considero quel primo brano musicale la mia migliore poesia. Lo so che sto divagando, ma che sia stato perché la musica e, in primis, la semplice produzione di suoni, fanno parte dell’esperienza più ancestrale dell’essere umano? Perché il suono dà il ritmo al respiro della vita? Nell’ovattato e protetto luogo della gestazione non incontra il feto il battito cardiaco della madre, l’unico suono che nasce per autoproduzione e non per contatto, suono che ci mette in comunicazione con l’universo, ripetendo in noi la vibrazione dell’esserci?

«tic tac e sono più che un’intenzione

tic tac respiro respiro!»

La tua raccolta, abbiamo detto, è divisa in quattro sezioni e, più che altro, si tratta, mi pare, di momenti di riposo, di quiete, come di stazioni riflessive tra una sezione e l’altra, come una lunga galleria che a un certo punto apre una grande finestra, l’esergo, che spinge lo sguardo a deviare dallo scritto e a ritornare con ulteriore impeto. Con quale criterio hai suddiviso la raccolta e che ruolo ha, secondo te, il respiro nella scrittura poetica?

Nella raccolta c’è un criterio temporale, le sezioni infatti riguardano chi il passato, chi il futuro ecc. La distinzione non è stata fatta tanto per dare un qualche ordine formale all’opera, ma nasce da una necessità intrinseca. Il libretto è il frutto di cinque anni di vita. Di cinque anni tribolati in cui la poesia è stata il tempo della sublimazione. Non l’ho deciso io, l’ho sentito come esigenza di sopravvivenza. Fino dall’inizio tenevo in tasca un quadernetto in cui scrivevo e guai se lo dimenticavo da qualche parte, mi sentivo persa. Ho dovuto mettere in discussione tante cose, ritirarmi in me stessa essendo catapultata nell’incertezza e nel dolore e trovandomi davanti alle grandi domande della vita, inevitabilmente. La successione cronologica risponde quindi alle fasi di riflessione che si sono manifestate mano a mano nel tempo. Sviluppandoli, avrei potuto fare benissimo quattro libri autonomi, ma ho pensato che la compresenza dei diversi temi avrebbe dato maggiore risalto e forza a quello che in fondo era stato un cammino evolutivo di cui il testo, così concepito, poteva dare testimonianza. Avevo e ho la speranza che chi legge e/o leggerà le mie poesie possa essere sollecitato a porsi le stesse domande che mi sono posta io nell’ambito di importanti tematiche esistenziali: la ferita dell’infanzia, la morte, l’aldilà e Dio, l’essere umano nel suo porsi al mondo. Nelle diverse sezioni, sostanzialmente, prendo atto di ciò che vedo, di ciò che succede e non do risposte definitive. L’unica vera risposta, la mia risposta al mondo, è l’accettazione di ciò che accade, l’accettazione della paura e del tempo che inesorabilmente passa e ci cancella, ma con la consapevolezza che attraverso lo sguardo dell’altro veniamo riconosciuti e ognuno di noi allora può dire: anch’io, anch’io sono stato!

Per quanto concerne il respiro, credo sia indispensabile al ritmo della poesia, alla sua melodia, al suo stesso esistere, anzi direi che la poesia è il nostro personale respiro, il nostro porci al mondo, che determina ciò che siamo e non ciò che pensiamo. Il grande poeta coreano Ko Un suggerisce che la poesia per le sue specificità, non può nemmeno essere classificata come letteratura, in quanto essa è la vita stessa e questa illuminante prospettiva dà corpo in modo perfetto anche alle mie parole. Forse sembrerà impropria questa considerazione della poesia, poiché ci appare immediatamente davanti agli occhi ciò che invece è il mondo nella sua brutalità. Sì, è legittimo questo dubbio, ma la potenza della poesia la si misura anche negli effetti della sua mancanza: è come con l’amore.

«il ramo nero della Notte si è diviso:

puro cristallo imperituro al centro

e rossi tizzoni a spegnersi»

Alla fine della raccolta c’è una traccia nascosta. Siamo un grido, il desiderio lacerante della passione. Che funzione ha questo testo finale, quasi esterno alla raccolta e al libro-oggetto? E che ruolo nella tua produzione artistica e poetica il corpo e il desiderio?

La scelta di introdurre un testo in una pagina secondaria, alla fine del libro nasce da un’idea dell’editore, Alessandro Canzian, che vuole che l’autore doni così una poesia in più al lettore. Una scoperta, che a mio avviso è anche una provocazione. È come se la poesia invitasse il lettore a collocarla al posto giusto: spetta a te, sembra dire, se hai letto bene il libro, capire cosa c’entro! A me è piaciuta molto questa iniziativa, che del resto è una prassi nei libri pubblicati dalla Samuele Editore, come anche la presenza in quarta di copertina di un ulteriore testo che vuole essere un’apertura ad un successivo e possibile libro. Nel mio caso il tema del male a cui accenno in questa poesia, è proprio il tema su cui ora ho iniziato a lavorare. Per quanto riguarda la seconda domanda, penso questo: se immagino un corpo che desidera, immagino qualcosa di limitato, perché un corpo desidera ciò che soddisfa se stesso come corpo, ma se inverto le parole e mi figuro il desiderio che vuole un corpo, allora mi figuro il mondo creativo dell’arte. L’arte si fa in una tensione sempre alla ricerca di diventare oggetto e poi di superarlo (quadro, scultura, poesia ecc.). Immaginare il desiderio iniziale senza un corpo è riconoscere la mancanza, il vuoto, l’abisso da cui ognuno di noi proviene e da cui è accompagnato per tutta l’esistenza. Viviamo perdendo sempre qualcosa, per avere qualcos’altro e il processo è potenzialmente senza fine: perdo il primo dentino, per avere denti più forti, perdo la mano della madre, per camminare da solo ecc. Tutto questo vale anche per me, per cui posso affermare che è nel tentativo di superare il corpo che creo, nel tentativo di dimenticarlo, anche se è ben presente e fa parte di quella sinergia, difficile da spiegare, che si crea tra corpo, spirito e intelletto nell’atto creativo. Non possiamo non riconoscere che la suddivisione sopra citata è surrettizia, il corpo è comunque l’attore principale, è lui che è, è lui che sente, è lui che pensa. A noi la scelta di farci guidare da l’uno o dall’altro aspetto, o forse meglio a noi la scelta di portarlo, il corpo, dove non sempre vorrebbe andare.https://www.satisfiction.eu/nella-consuetudine-del-tempo-intervista-a-luisa-delle-vedove/


23 dic 2021

NATALE

 


NATALE

di Giuseppe Ungaretti, 1916
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

22 dic 2021

NATALE

 

Natale in poesia


Ma quando facevo il pastore
allora ero certo del tuo Natale.
I campi bianchi di brina,
i campi rotti dal gracidio dei corvi
nel mio Friuli sotto la montagna,
erano il giusto spazio alla calata
delle genti favolose.
I tronchi degli alberi parevano
creature piene di ferite;
mia madre era parente
della Vergine,
tutta in faccende,
finalmente serena.
Io portavo le pecore fino al sagrato
e sapevo d'essere uomo vero
del tuo regale presepio.

padre  David Maria Turoldo  
David Maria Turoldoal secolo Giuseppe Turoldo (Coderno22 novembre 1916 – Milano6 febbraio 1992), è stato un religioso e poeta italiano, membro dell'Ordine dei servi di Maria. È stato, oltre che poeta, figura profetica in ambito ecclesiale e civile, resistente sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso, di ispirazione conciliare. È ritenuto da alcuni uno dei più rappresentativi esponenti di un cambiamento del cattolicesimo nella seconda metà del '900, il che gli è valso il titolo di "coscienza inquieta della Chiesa",



Mercoledì 22 novembre di cento anni fa nasceva in un paesino del Friuli padre David Maria Turoldo, frate dei Servi di Maria, poeta, giornalista, predicatore, testimone appassionato di una fede che non temeva di “impolverarsi” nelle strade della terra e della storia...http://www.famigliacristiana.it/articolo/lultimo-dono-del-mio-amico-padre-turoldo.aspx

10 dic 2021

ANDREA ZANZOTTO PER IL MITE DICEMBRE OVE L’ERBA



Per il mite dicembre ove l'erba
immune ridonda
offerta ultima sui vecchi balconi,
acque gentili a stimolare i tardi
campi, sussurro fervido di venti
felicemente giunti.
E' dunque il fausto
il pingue inizio,
sparisce la devastazione?
Deviante per selve raggio ignaro,
per cristalline sedi, angoli angelici,
intirizziti
intirizziti amori?
...............
Non adulti i dolori?

(da Vocativo, Mondadori, 1957)

dal web

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo10 ottobre 1921 – Conegliano18 ottobre 2011) è stato un poeta italiano tra i più significativi della seconda metà del Novecento.

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Ivan Trinko

"O ti zemlja rodna, zemlja bedna, ki te milost božja, meni v last je dala" (I. Trinko) "O terra natia, terra misera, piccola, che la grazia divina, mi ha donato" (traduzione)

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Bambini azzannati da pitbull

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