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di Angelo Floramo
Il paesaggio che la campagna invernale friulana regala nelle mattinate di gennaio e di febbraio ha tutto lo splendore di un incanto, conservando il profilo delle fiabe raccontate attorno al fuoco, capaci di evocare spiriti e prodigi a involarsi nella cappa fuligginosa del camino. I prati e i campi biancheggiano sotto una scintillante carezza di gelo che trasporta in una dimensione straniante, in bilico tra il sogno e la visione. Le stoppie graffiano la terra, i gelsi sembrano ancora più curvi e nodosi di sempre, quasi fossero irreali processioni di anime penitenti avvolte dalla bruma. La lingua italiana chiama questo fenomeno “brina”, ma in friulano il vocabolo assume una connotazione più forte, quasi ancestrale e profondamente pagana: “giulugne”. Il suo nome deriva da quello di Jule, il dio dell’inverno gelato venerato dai popoli germanici e rimbalzato fin qui tra il V e il VI secolo da sotto le tende di pelle dei Goti o forse rotolato giù dalle rocche di pietra dei Longobardi cantati da Paolo Diacono, quelli che elessero la nostra terra come il loro primo ducato. Concedersi una passeggiata lungo i sentieri che delimitano i poderi, di primo mattino, quando dai fossi riluce il riflesso del ghiaccio e l’erba rinsecchita crocchia sotto le scarpe è un’esperienza di rara bellezza, che andrebbe assaporata con calma. Solo così si possono interiorizzare quei paesaggi che si sono sedimentati nel nostro immaginario collettivo, ereditati dai nostri antenati contadini. Loro, in questo tempo apparentemente sospeso, sapevano bene quanto la terra fosse generosa di piccoli tesori sotto quella coperta di vetro. L’orto malgrado l’alito gelato della bora, regala le rotondità biancastre dei cavolfiori, i cavoli cappucci, le verze, i cardi e le rape, capaci di assicurare alla tavola, anche in mesi di magra, certe soddisfazioni non certo trascurabili perfino per i golosi. Non è un caso che in numerose raccolte statutarie friulane redatte nel Medioevo il furto di questi ortaggi, che garantivano la sopravvivenza della comunità nei mesi più freddi dell’anno, veniva severamente sanzionato. Foglie, radici, gambi si facevano bollire e quindi venivano conservati in recipienti a strati alternati con sale e lievito oppure si mangiavano cotti sotto forma di zuppe e minestre, lasciate sobbollire per ore sul fuoco e poi “ministrate”, ovvero servite nella logica dell’accoglienza e della condivisione. Oggi come allora da quelle pentole si diffonde quell’odore di terra che sa di caldo, di buono, di casa.
da Vita nei campi fb
Angelo Floramo insegna Storia e Letteratura al Magrini Marchetti di Gemona ed è ancora convinto che malgrado tutto sia il mestiere più bello del mondo. Medievista per formazione, ha pubblicato molti saggi e articoli specialistici, collabora con diverse riviste nazionali ed estere; dal 2012 collabora con la Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli in veste di consulente scientifico.
Per Bottega Errante Edizioni ha pubblicato Balkan Circus (Ediciclo-Bottega Errante, due edizioni, finalista al premio “Albatros di Letteratura di viaggio”); Guarneriana Segreta (finalista al premio Latisana Nordest) e L’osteria dei passi perduti (4 edizioni), La veglia di Ljuba (2 edizioni), Come papaveri rossi.https://www.bottegaerranteedizioni.it/?team=angelo-floramo
Cara Olga,
RispondiEliminaAbbracci,
Mariette
Un texto muy interesante y bien narrado.
RispondiEliminaGracias por compartir.
Un abrazo, Olga.
I am back and commenting after a short break, lovely to see your gorgeous work again. xx
RispondiEliminaOlga, non sapevo che in Italia c'è la neve.
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