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1 gen 2022

È urgente investire sui nostri giovani/Nujno je, da stavimo na naše mlade

 


Si approssima il Natale, quello vero, quello di Gesù Cristo; avvenimento che ha dato una svolta al problema del vivere umano su questo pianeta. A 33 anni si proclamò re, e questo gli costò la vita. Ma il messaggio che ha lasciato non è morto. Un regno, il suo, che non domina; per farne parte bisogna volerlo. Poche le condizioni poste dal re, una: «Amatevi come Io ho amato voi!», unica «arma» per sconfiggere il gene di Caino. Natale è questo. Il Babbo Natale è una farsa irriverente, così come le ragioni per cui è stato inventato. Il mio augurio è che si tenti, almeno, di riscoprirne il senso ai fini di un mondo pacificato e finalmente umano. Finora, da Caino in poi, è sta la guerra la vera molla del cosiddetto progresso umano. Una «contradictio in terminis». Facciamo pure festa, dunque, per il Natale, sapendo che è una festa tradita, tra Babbi Natale barbuti volanti su fantomatiche slitte a trazione animale e la finta bontà da supermercato.

Ma siamo, comunque, anche a fine anno: un’altra serie di festività, dove pare che ogni bene stia in quello che è possibile consumare, godere, trasgredire.

Per quello che mi riguarda, è abitudinario tentare di fare un qualche bilancio del tempo trascorso, come per verificare se ho vissuto o mi sono semplicemente lasciato vivere. Ho trovato senso? Non manca neppure un pensiero rivolto al futuro e non solo al mio.

Per 50 dei miei 74 anni, per via dei miei studi e poi del mio lavoro, ho studiato, seguito ed operato nello sforzo di dare un senso positivo e dinamico alla nostra comunità slovena minoritaria e, come tale, dimenticata, bistrattata, vilipesa e costretta ad un’inesorabile eutanasia.

Riflettendo sulla nostra situazione minoritaria attuale vedo con rammarico un processo sociale, culturale, economico, demografico che sta conducendo le nostre valli slovene verso un cambiamento epocale. Mi guardo attorno e valuto, confronto i tempi trascorsi, anche solo quelli relativi alla mia età, e le prospettive di un troppo vicino futuro. In primis mi chiedo: ha ancora senso continuare ad insistere nel tentativo di mantenere e magari far rivivere le caratteristiche peculiari della nostra compagine sociale di minoranza linguistica? Intendo i rimasugli di quello che furono il linguaggio, le tradizioni, la cultura materiale ed immateriale di un piccolo popolo che si è ritagliato, comunque, un angolino nella storia d’Europa?

Non è affatto morta la nostra comunità, ma di giorno in giorno sta perdendo i connotati man mano che il tempo inesorabile si porta via la gente con le loro/nostre tradizioni, i saperi, le storie individuali e collettive, le vere ragioni di un’identità specifica. L’età, appunto, mi fa guardare attorno e stimola il conteggio di collaboratori, operatori culturali, colleghi di impegni comuni, che dalla pensione ancora resistono nella promozione della nostra comunità, ma che difficilmente trovano la generazione seguente a rimpiazzarli.

Ovviamente non dimentico l’opera della scuola bilingue slovena- italiana, delle associazioni, dei circoli culturali, della divulgazione stampata e dei social in promozione. Ed è proprio questo un problema nel problema di un mantenimento o del riconoscimento della propria identità etnica e linguistica. Ben venga l’insegnamento della lingua slovena standard, ben si susseguano iniziative culturali di alto livello, ma di quello che fummo che cosa rimane, che cosa rimarrà?

Parlo dell’identità individuale e collettiva, di quel senso di appartenenza e solidarietà che non è solo campanilismo territoriale, ma impegno di accrescimento e di difesa comune degli interessi di tutti. Purtroppo è mancata quella sutura, quel flusso vitale che dal genitore, dal nonno, dalla comunità di villaggio avrebbe dovuto trasfondersi ai figli ed ai nipoti.

Quale è il papà o la nonna che parla, si confida, racconta al figlio o al nipote nel linguaggio locale, tramandato da infinite generazioni, della propria esperienza di vita, del suo senso e dei suoi valori?

L’età dei principali, più attivi e più presenti operatori culturali locali fa presumere serie difficoltà nei ricambi generazionali. Le nostre valli sfornano, sì, ogni anno diversi giovani diplomati e laureati di alto livello, ma quali e quanti di essi hanno davanti a sé una reale prospettiva di potersene servire «per e nel» proprio ambito locale, per dargli una prospettiva di crescita, di sviluppo, di recupero dei valori storici legati a questa particolare comunità?

Ho letto anch’io del lodevole tentativo di raddoppiare il budget previsto dalla legge di tutela per lo sviluppo di Benecia, Resia e Valcanale, affinché quei giovani possano restare produttivi ed attivi sul proprio territorio. Un’utopia? Probabile.

Come da me stesso verificato, la nostra gioventù è sempre stata di un elevato grado culturale, ma è anche per questo che se n’è andata. E le nostre componenti slovene organizzate in Confederazione e Unione (Sso e Skgz) che soluzioni, da tempi ormai vetusti, hanno proposto e sostenuto?

Nei 40 anni del mio lavoro, specie quando rivestivo qualche responsabilità in esse, ho sempre insistito sul fatto che c’era bisogno di aiutare concretamente i giovani disponibili ad impegnarsi per la nostra comunità slovena. Occorreva creare quadri preparati ad affrontare le sfide del mondo in cambiamento parossistico.

Qualcosa c’è stato, perché io stesso ho potuto usufruire dei corsi estivi a Lubiana, ma c’era bisogno di ben altro. Oggi stesso, in che condizione si trova la famiglia di uno studente che voglia frequentare corsi di studi superiori in ambito sloveno e quindi poter essere preparato a compiti organizzativi e dirigenziali all’interno della nostra comunità? Secondo me la compagine slovena regionale dovrebbe privilegiare nei suoi programmi un aiuto economico adeguato almeno a chi dimostri interesse ed impegno negli studi in ambito dell’istruzione slovena. Specificamente nel nostro ambito provinciale.

Io, ai miei tempi, ho potuto laurearmi con una borsa di studio. Ringrazio chi me lo ha permesso. Pensiamoci su!

Riccardo Ruttar

BUON 2022

 La vita è un ciclo continuo, sempre in movimento: se i bei tempi passano, passeranno anche i momenti difficili.(Proverbio indiano)




BON AN

SREČNO NOVO LETO

HAB EIN GUTES JAHR 

31 dic 2021

R0SA DELL' ANNO

 

SIBILLA ALERAMO

ROSA DELL'ANNO

Arrivai una volta,
che un anno finiva,
in un paese di mare,
era sera era freddo
io nessuno conoscevo,
saliva alla stanza
gelida e vasta
suono di danza
e, di più lontano,
l'ansito del mare.
Così m'addormii, né più ricordo
se in sogno piansi.
Una rosa ricordo
che il domani mi comprai,
nella stanza portai
per me sola il giorno
che l'anno incominciava,
bella e bianca fiorita
per me nel mattino del gelo,
e il mare che si lamentava.

Ancora in una sera
che l'anno finisce,
vasta è la stanza
ma c'è fuoco ed è mia,
lungi è il mare,
lungi chi vorrei con me, e tace,
sono sola come quella
che nella sera lontana
sì freddo aveva,
udiva il lamento del mare,
ancor non conosceva
l'amore d'oggi che tace.
Sono sola né piango,
se non forse in cuore,
c'è fuoco nella stanza,
fuori grida salve la città
grida speranza
nella notte dell'anno,
e domani, se non io,
qualcuno una rosa si comprerà.

(da Tutte le poesie, Mondadori, 2004)

.

Due strofe per due stagioni della vita nella medesima giornata, quella del 31 dicembre: la poetessa Sibilla Aleramo ricorda di avere trascorso un lontano Capodanno solitario in una stanza d’albergo e di avere acquistato una rosa rossa come segno di auspicio per rallegrare l’anno che iniziava. Molto tempo è passato, molta vita sotto i ponti: ora è nella tranquillità della propria casa, ma lontano è l’amato, ancora trascorre da sola la notte che chiude l’anno e ne apre un altro. Domani qualcuno comprerà una rosa rossa come segno di auspicio.

Buon 2022, lettori del Canto delle Sirene! A voi porgo la rosa rossa della poesia.

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IMMAGINE DI PUBBLICO DOMINIO DA PXHERE

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LA FRASE DEL GIORNO
Non importa quanto sia stato duro il passato, puoi sempre ricominciare.
BUDDHA




Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta Rina (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960), scrittrice e poetessa italiana. Attiva nell’impegno femminista, esordì con il romanzo autobiografico Una donna. La relazione con il poeta Dino Campana generò un importante carteggio e numerose poesie.

Nella consuetudine del tempo – Luisa Delle Vedove

 


 


 Il nuovo libro di Luisa Delle Vedove, Nella consuetudine del tempo, si presenta al lettore senza titoli, suddiviso in quattro sezioni. L’assenza dei titoli, scansionata solo da esergo riportati in calce dall’autrice, è determinata dalla volontà di consegnare al lettore un’opera che si colloca in un percorso poetico senza interruzioni.

Il libro si profila dunque, fin dalla prima sezione, come un cammino senza sosta che esalta l’esperienza dello stare al mondo avvertita nei luoghi innocenti di un’infanzia murata, sfigurata, nella consuetudine del tempo. La vita ha accumulato il dissolversi su ogni cosa guardata, come evidenzia il primo esergo del poeta Mario Benedetti. Ma cosa avviene? Dove stiamo andando? In una casa esausta, fredda dimora di confine in cui le ombre si sono a lungo prolungate. Cosa si è ammassato nella casa prima, molto tempo prima?

La casa – suggerisce l’autrice – è il luogo interiore della ferita, non sappiamo quale. Nei versi c’è un blocco di buio che pronuncia stentatamente una sola parola: madre. Il presente sembra riflettere il disfacimento, ma al lettore arriva un’emozione innocente che si perde nel ricordo emozionale di un microcosmo di neve visto fuori.

Il paesaggio di luce è un bagliore bianco che copre ogni cosa. Le frasi tronche sono il riconoscimento di una grande morte che ingrandisce il buio dentro la casa.      Luigia Sorrentino


«il cielo, di un azzurro vario

– da pennello – ma quello,

con una stella che ritorna

di paesaggio in paesaggio

quella

Sono i versi estratti dalla prima poesia della quarta sezione: leggendo ho avuto la netta impressione di scorgere la luce, quella diagonale della polvere in sospensione che folgora l’interno semibuio di una stanza. La vocazione di San Matteo di Caravaggio, l’illuminazione sui giocatori. È chiaramente evocata la tua attività di pittrice: in che modo la pratica pittorica ha influenzato il percorso di scrittura?

Innanzitutto ti ringrazio per la bella e lusinghiera immagine che hai disegnato con le tue sensibili parole. La luce è forse data dal mio occhio pittorico che agisce e si intromette prospetticamente, senza che io me ne accorga, anche in poesia? Me lo chiedo, perché per me è difficile vedere le analogie dei due ambiti, io vivo il fenomeno dal di dentro. Devo dire però che due mie amiche, entrambi poete, hanno affermato la stessa cosa: tu scrivi poesie, come dipingi. E dunque dovrei chiedere a loro la risposta, ma soffermandomi un attimo a pensare, posso dire che effettivamente c’è qualcosa di simile in pittura e in poesia per me ed è il processo creativo, la tecnica. In pittura creo delle macchie o anche le fotografo e poi osservandole cerco di fare emergere da esse l’immagine che mi suggeriscono. In fondo questo portare dall’indistinto al distinto un’immagine è quello che faccio anche in poesia con la parola. La mia predilezione per figure distinte, ma non definitive, che si impongono su uno sfondo che resta comunque incerto, penso sia effettivamente ciò che può essere visto nei miei testi. Sono immagini attraversate dal tempo, mobili e in divenire.

«di pochi giochi

era tiepido un angolo»

è un estratto dalla nona poesia della prima sezione. Il gioco, dal punto di vista del bambino, è una cosa seria. Secondo la leggenda, o la verità, non sappiamo, il poeta Arnaut Daniel avrebbe inventato la sestina lirica che, nella sua forma, è legata al gioco dei dadi, gioco che ridusse Arnaut in povertà. E nella tua scrittura, che rapporto c’è tra la poesia e il gioco?

Per me il territorio della poesia è sacro e deve essere attraversato con rispetto e devozione. Penso altresì che immergersi seriamente nell’esperienza poetica ci cambi, ci faccia essere sostanzialmente diversi da prima: come essere refrattari, insensibili in quello che è un cammino che si misura con la dimensione umana del dolore, che deve misurarsi con essa, come dice anche Ingeborg Bachmann, per essere autentico? Fatta questa premessa dovrei dire che no, non c’entra nulla il gioco con la poesia, ma subito mi appare una distinzione. Infatti, un conto è il gioco finalizzato a qualcosa altro da sé, come nel quadro della vocazione di San Matteo, dove si gioca per guadagnare denaro e/o avere quella scarica adrenalinica che tanto piace ai giocatori, un conto è il gioco finalizzato a se stesso, che non vuole altro da sé. Qui penso al gioco infantile, libero da costrizioni, che pensa solo a farsi, ad essere. Che inventandosi costruisce un mondo, il mondo del bambino, spinto da un’energia che viene dal di dentro. Un tipo di gioco che ha negli occhi la meraviglia. Ecco forse in questo senso mi arrischio a dire che può esserci qualcosa di simile tra la poesia e il gioco stesso così inteso. Anche in poesia, quando ci abbandoniamo ad essa, quando diventiamo inconsapevolmente la sua mano, tracciamo con le parole un percorso nuovo che ha negli occhi la meraviglia, che sentiamo pulsare di un’energia che sembra quasi non appartenerci e che ci fa dimentichi di noi. In fondo l’atto creativo non è forse uguale in tutti i campi? Per quanto mi riguarda, posso in parte testimoniare quanto dico essendo sia pittrice che poeta. Inoltre, pur non essendo musicista, ho spontaneamente suonato dei piccoli brani e devo dire che con stupore ho riscontrato che la prima esperienza creativa in musica ha superato in intensità le altre, tanto che considero quel primo brano musicale la mia migliore poesia. Lo so che sto divagando, ma che sia stato perché la musica e, in primis, la semplice produzione di suoni, fanno parte dell’esperienza più ancestrale dell’essere umano? Perché il suono dà il ritmo al respiro della vita? Nell’ovattato e protetto luogo della gestazione non incontra il feto il battito cardiaco della madre, l’unico suono che nasce per autoproduzione e non per contatto, suono che ci mette in comunicazione con l’universo, ripetendo in noi la vibrazione dell’esserci?

«tic tac e sono più che un’intenzione

tic tac respiro respiro!»

La tua raccolta, abbiamo detto, è divisa in quattro sezioni e, più che altro, si tratta, mi pare, di momenti di riposo, di quiete, come di stazioni riflessive tra una sezione e l’altra, come una lunga galleria che a un certo punto apre una grande finestra, l’esergo, che spinge lo sguardo a deviare dallo scritto e a ritornare con ulteriore impeto. Con quale criterio hai suddiviso la raccolta e che ruolo ha, secondo te, il respiro nella scrittura poetica?

Nella raccolta c’è un criterio temporale, le sezioni infatti riguardano chi il passato, chi il futuro ecc. La distinzione non è stata fatta tanto per dare un qualche ordine formale all’opera, ma nasce da una necessità intrinseca. Il libretto è il frutto di cinque anni di vita. Di cinque anni tribolati in cui la poesia è stata il tempo della sublimazione. Non l’ho deciso io, l’ho sentito come esigenza di sopravvivenza. Fino dall’inizio tenevo in tasca un quadernetto in cui scrivevo e guai se lo dimenticavo da qualche parte, mi sentivo persa. Ho dovuto mettere in discussione tante cose, ritirarmi in me stessa essendo catapultata nell’incertezza e nel dolore e trovandomi davanti alle grandi domande della vita, inevitabilmente. La successione cronologica risponde quindi alle fasi di riflessione che si sono manifestate mano a mano nel tempo. Sviluppandoli, avrei potuto fare benissimo quattro libri autonomi, ma ho pensato che la compresenza dei diversi temi avrebbe dato maggiore risalto e forza a quello che in fondo era stato un cammino evolutivo di cui il testo, così concepito, poteva dare testimonianza. Avevo e ho la speranza che chi legge e/o leggerà le mie poesie possa essere sollecitato a porsi le stesse domande che mi sono posta io nell’ambito di importanti tematiche esistenziali: la ferita dell’infanzia, la morte, l’aldilà e Dio, l’essere umano nel suo porsi al mondo. Nelle diverse sezioni, sostanzialmente, prendo atto di ciò che vedo, di ciò che succede e non do risposte definitive. L’unica vera risposta, la mia risposta al mondo, è l’accettazione di ciò che accade, l’accettazione della paura e del tempo che inesorabilmente passa e ci cancella, ma con la consapevolezza che attraverso lo sguardo dell’altro veniamo riconosciuti e ognuno di noi allora può dire: anch’io, anch’io sono stato!

Per quanto concerne il respiro, credo sia indispensabile al ritmo della poesia, alla sua melodia, al suo stesso esistere, anzi direi che la poesia è il nostro personale respiro, il nostro porci al mondo, che determina ciò che siamo e non ciò che pensiamo. Il grande poeta coreano Ko Un suggerisce che la poesia per le sue specificità, non può nemmeno essere classificata come letteratura, in quanto essa è la vita stessa e questa illuminante prospettiva dà corpo in modo perfetto anche alle mie parole. Forse sembrerà impropria questa considerazione della poesia, poiché ci appare immediatamente davanti agli occhi ciò che invece è il mondo nella sua brutalità. Sì, è legittimo questo dubbio, ma la potenza della poesia la si misura anche negli effetti della sua mancanza: è come con l’amore.

«il ramo nero della Notte si è diviso:

puro cristallo imperituro al centro

e rossi tizzoni a spegnersi»

Alla fine della raccolta c’è una traccia nascosta. Siamo un grido, il desiderio lacerante della passione. Che funzione ha questo testo finale, quasi esterno alla raccolta e al libro-oggetto? E che ruolo nella tua produzione artistica e poetica il corpo e il desiderio?

La scelta di introdurre un testo in una pagina secondaria, alla fine del libro nasce da un’idea dell’editore, Alessandro Canzian, che vuole che l’autore doni così una poesia in più al lettore. Una scoperta, che a mio avviso è anche una provocazione. È come se la poesia invitasse il lettore a collocarla al posto giusto: spetta a te, sembra dire, se hai letto bene il libro, capire cosa c’entro! A me è piaciuta molto questa iniziativa, che del resto è una prassi nei libri pubblicati dalla Samuele Editore, come anche la presenza in quarta di copertina di un ulteriore testo che vuole essere un’apertura ad un successivo e possibile libro. Nel mio caso il tema del male a cui accenno in questa poesia, è proprio il tema su cui ora ho iniziato a lavorare. Per quanto riguarda la seconda domanda, penso questo: se immagino un corpo che desidera, immagino qualcosa di limitato, perché un corpo desidera ciò che soddisfa se stesso come corpo, ma se inverto le parole e mi figuro il desiderio che vuole un corpo, allora mi figuro il mondo creativo dell’arte. L’arte si fa in una tensione sempre alla ricerca di diventare oggetto e poi di superarlo (quadro, scultura, poesia ecc.). Immaginare il desiderio iniziale senza un corpo è riconoscere la mancanza, il vuoto, l’abisso da cui ognuno di noi proviene e da cui è accompagnato per tutta l’esistenza. Viviamo perdendo sempre qualcosa, per avere qualcos’altro e il processo è potenzialmente senza fine: perdo il primo dentino, per avere denti più forti, perdo la mano della madre, per camminare da solo ecc. Tutto questo vale anche per me, per cui posso affermare che è nel tentativo di superare il corpo che creo, nel tentativo di dimenticarlo, anche se è ben presente e fa parte di quella sinergia, difficile da spiegare, che si crea tra corpo, spirito e intelletto nell’atto creativo. Non possiamo non riconoscere che la suddivisione sopra citata è surrettizia, il corpo è comunque l’attore principale, è lui che è, è lui che sente, è lui che pensa. A noi la scelta di farci guidare da l’uno o dall’altro aspetto, o forse meglio a noi la scelta di portarlo, il corpo, dove non sempre vorrebbe andare.https://www.satisfiction.eu/nella-consuetudine-del-tempo-intervista-a-luisa-delle-vedove/


Nell’anno nuovo con la koleda koledo


Una volta il giorno di Capodanno in Val Torre i bambini andavano di casa in casa per ricevere il "koledo".Questo era una "mancia" che consisteva in noci,nocciole,castagne,mele,solo più tardi caramelle ,uova o qualche monetina.

Questa usanza la troviamo anche a Resia, in Val Natisone, in Slovenia e in altri paesi di origine slovena.In Val Torre i bambini cantavano una filastrocca:
"koledo novo ljeto,Buoh nan dejte no dorò lieto".



koledniki di M.Gaspari (pittore sloveno)
Koledniki:i ragazzi che andavano il giorno di Capodanno a chiedere la "mancia"

Anche la Slavia si sta preparando a festeggiare la fine dell’anno vecchio e l’arrivo del 2022.. Una delle tradizioni più antiche è la «koleda», la questua del periodo natalizio conosciuta in Slovenia e in tutto il mondo slavo. Un tempo il rito si svolgeva in tutti i paesi. Ora nelle Valli del Natisone è restato a Cicigolis di Pulfero, dove nell’ultima sera dell’anno  gli uomini del paese, portando una stella, intonando canti tradizionali, effettuano una questua di casa in casa. Al mattino (dalle 9.30) si svolge, invece, la koleda dei bambini. A Lusevera, nell’Alta val Torre, i bambini raccolgono la «Koleda» l’1 gennaio, mentre a Ugovizza, in Valcanale, lo fanno il 6 gennaio, nella solennità dell’Epifania. Il Capodanno sarà atteso nelle valli slovene del Friuli con veglioni nelle abitazioni e nei locali pubblici. Ormai è tradizione che gli appassionati della montagna si ritrovino a farsi gli auguri in vetta al Matajur. I membri della Planinska družina Benečije facevano il veglione nel loro rifugio «Dom na Matajure», mentre quelli della sottosezione Cai «Valnatisone» salivano dal paese di Montemaggiore.
Ora con la pandemia molte manifestazioni sono state annullate,

30 dic 2021

Stop alla quarantena per i vaccinati e Super Green Pass sui trasporti

 

Il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo decreto sull'estensione, dal 10 gennaio, dell'uso del certificato verde rafforzato. Ecco le attività interessate


29 dicembre 2021

Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente Mario Draghi e del Ministro della salute Roberto Speranza, ha approvato un decreto-legge che introduce nuove misure urgenti per il contenimento della diffusione dell’epidemia e disposizioni in materia di sorveglianza sanitaria.

Il testo prevede l’estensione del Green Pass rafforzato (che si può ottenere con il completamento del ciclo vaccinale e la guarigione) e modifiche alle quarantene per i vaccinati. 

Non passa, però, il fronte di chi chiedeva di estendere l'obbligo del Super Green Pass a tutte le categorie di lavoratori, nonostante la sponda delle Regioni che avevano avanzato una netta richiesta in questo senso.

Ma non prevale neanche la linea rigorista di chi, come il ministro della Salute Speranza, sulla scorta dei pareri del Cts e pur d'accordo sulle modifiche alle regole sull'auto-isolamento, chiedeva norme non troppo 'blande'.

Sia in cabina di regia sia in Cdm il confronto è stato serrato: Pd e Forza Italia hanno subìto lo stop della Lega e di M5S sul varo dell'obbligo del certificato verde rafforzato per tutti i lavoratori.

C'è intesa, invece, per calmierare il prezzo delle mascherine Ffp2: una proposta condivisa nell'Esecutivo della quale ora sarà incaricata la struttura commissariale, che dovrebbe stipulare apposite convenzioni con le farmacie.

Ecco nel dettaglio le novità.

Green Pass rafforzato. Dal 10 gennaio 2022 fino alla cessazione dello stato di emergenza, si amplia l’uso del Green Pass rafforzato alle seguenti attività:

- alberghi e strutture ricettive;
- feste conseguenti alle cerimonie civili o religiose;
- sagre e fiere;
- centri congressi;
- servizi di ristorazione all’aperto;
- impianti di risalita con finalità turistico-commerciale anche se ubicati in comprensori sciistici;
- piscine, centri natatori, sport di squadra e centri benessere anche all’aperto;
- centro culturali, centro sociali e ricreativi per le attività all’aperto.

Inoltre il Green Pass rafforzato è necessario per l’accesso e l’utilizzo dei mezzi di trasporto, compreso il trasporto pubblico locale o regionale.

Quarantene. Il decreto, accogliendo la richiesta delle Regioni, prevede che la quarantena precauzionale non si applica a coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al Covid nei 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario o dalla guarigione nonché dopo la somministrazione della dose di richiamo.

Fino al decimo giorno successivo all'ultima esposizione al caso, è fatto obbligo d'indossare mascherine tipo Ffp2 e di effettuare - solo qualora sintomatici - un test antigenico rapido o molecolare al quinto giorno successivo all’ultima esposizione al caso.

Infine, si prevede che la cessazione della quarantena o dell’auto-sorveglianza consegua all’esito negativo di un test antigenico rapido o molecolare, effettuato anche presso centri privati; in questo caso la trasmissione all’Azienda sanitaria del referto negativo, con modalità anche elettroniche, determina la cessazione di quarantena o del periodo di auto-sorveglianza.

Capienze. Il decreto prevede che le capienze saranno consentite al massimo al 50% per gli impianti all’aperto e al 35% per gli impianti al chiuso.

https://www.ilfriuli.it/articolo/politica/stop-alla-quarantena-per-i-vaccinati-e-super-green-pass-sui-trasporti/3/258069

In prima linea nella difesa delle Valli / V prvi obrambi liniji Benečije

mons.Marino Qualizza

 Zoticoni, barbari, montanari e via elencando con apposizioni e attributi dispregiativi per quella popolazione. «Slavi da eliminare» era il programma dichiarato 155 anni fa proprio in questo periodo dell’anno: «Noi dobbiamo molto considerare gli Slavi che abbiamo sul nostro territorio al confine… adopereremo la lingua e la cultura di una civiltà prevalente quale è l’italiana per italianizzarli… civiltà che deve brillare ai confini tra quegli stessi che sono piuttosto ospiti nostri. Questi Slavi bisogna eliminarli ». (Giornale di Udine 22 novembre 1866. Ufficiale pegli Atti giudiziari ed amministrativi della Provincia di Udine). Non ci riuscì ad eliminarli il Regno e neppure il Fascismo. Purtroppo ci sta riuscendo la Repubblica. Ci furono comunque fattori ed attori che favorirono, coltivarono quella specie di resistenza o, come si direbbe oggi, di resilienza, vale dire di quella capacità di affrontare e superare eventi traumatici senza soccombere del tutto.

Non intendo certo affrontare questa tematica piuttosto complessa. Vorrei soffermarmi, invece, su quelle particolari figure emblematiche che la comunità slovena ha saputo esprimere, tra cui a un livello elevato i sacerdoti, pastori nel senso più ampiamente concreto e simbolico del termine. Bello e istruttivo sarebbe poter creare un dossier completo relativo a queste figure che hanno avuto le valli slovene per culla, per scuola ed esperienza di vita. Che hanno usufruito sì, come alunni, ma spesso come maestri, insegnanti, professori e artefici di quella «civiltà prevalente» cui sono stati soggetti, senza esservi assorbiti e men che meno «eliminati». Sono stati, invece, iniettori di linfa vitale, di apporti culturali, civili, addirittura tecnici, in quella e per quella che si definiva «civiltà prevalente». Tanto orgogliosamente prevalente da chiudersi in se stessa, quasi ignorando l’immenso mondo culturale panslavo a cui apriva la stessa presenza della nostra comunità slovena. Un confine non-confine, creato dall’inimicizia politica e militare con gli Arciducali dell’impero austroungarico; un confine discriminatorio interno esasperato dal rifiuto fascista di dar dignità ai non-italiani di lingua e cultura. Per poi proseguire in tutta la seconda metà del ’900 repubblicano con una infinita diatriba linguistica e identitaria tesa a quella italianizzazione forzata, a tratti violenta, programmata un secolo prima dal citato «Giornale di Udine».

Già un secolo prima a nulla sono serviti gli studi, le pubblicazioni, gli appelli a rivedere quel programma da parte di intellettuali originari delle valli slovene. Avvocati come Carlo Podrecca, geologi e geografi come Francesco Musoni, entrambi di Špietar, per fare solo due nomi, fanno ancora da manifesto alla vuotezza di significato di qualsiasi pretesa superiorità culturale di parte.

Essi e tanti altri con loro, nativi delle Valli e portatori della specifica cultura ed apertura mentale, hanno usufruito certamente di quanto potesse offrire loro il patrimonio del sapere italiano, ma partivano con un bagaglio valoriale e spirituale di un’altra levatura.

Ma ci sono stati ben altri intellettuali, operatori culturali, promotori di sviluppo sociale, culturale e anche economico, che dai pulpiti e dalle canoniche hanno dato linfa e vita alla nostra gente. I sacerdoti. Penso ad esempio a don Genjo Blankin/Eugenio Blanchini, di cui sabato 27 novembre abbiamo ricordato, con una santa messa a Špietar, il centenario della morte. Un prete di quelli che «magari ce ne fossero»! Ne potrebbe celebrare le qualità umane, religiose, sociali con riconoscenza la comunità udinese della parrocchia di S. Giorgio, dove la sua enorme creatività e capacità organizzativa hanno lasciato segni concreti ancora validi oggi.

A lui non possiamo non affiancare mons. Ivan Trinko, altrettanto attivo sul piano intellettuale e didattico. A lui va ascritto quel germe che ha portato innumerevoli sacerdoti ad un’attività di promozione culturale, linguistica, pastorale della nostra gente. Quelli sono stati i veri promotori di quell’identità linguistica e culturale che ha permesso alla nostra gente di mantenere la propria dignità personale e di gruppo.

Preti eroici dai tempi lontani quanto il Plebiscito (1866), quanto il buio fascista, quanto l’avversione politica antislovena del secondo dopoguerra. Preti in prima linea, forti e decisi come quelli i cui nomi troviamo incisi sulla lapide commemorativa sul fianco della chiesa di Cras (Dreka/Drenchia), purtroppo una delle poche in cui ad ogni celebrazione possiamo ancora commuoverci nell’ascolto dei canti di un tempo, della parola calda dei nostri nonni e padri. Grazie all’ultimo prete-samurai, mons. Marino Qualizza, il simbolo della resilienza di tutti i nostri sacerdoti che lo hanno preceduto.

Riccardo Ruttar     tradotto dal Dom

continua in sloveno https://www.dom.it/in-prima-linea-nella-difesa-delle-valli_v-prvi-obrambi-liniji-benecije/


Con la Casa degli Esperimenti, alunni e studenti sono rimasti affascinati dalla fisica, dall'astronomia e dalla biologia

 


Alla bilinge di San Pietro al Natisone si è svolto un seminario di due giorni organizzato da un'istituzione slovena rivolto agli alunni. Miha Kos, direttore del centro di conoscenza Casa degli esperimenti, ha spiegato gli obiettivi di un seminario di due giorni organizzato da un'istituzione slovena di Lubiana il 20 e 21 dicembre nell'ambito della sua attività mobile, la Casa degli esperimenti, presso la bilingue Paolo Petričič bilingue di Špeter/San Pietro al Natisone. Il coordinatore del progetto è Andreja Perat.

Gli alunni e gli studenti delle scuole primarie e secondarie di primo grado hanno potuto interessarsi di fisica, astronomia e biologia e si sono incuriositi. Hanno eseguito esperimenti altrimenti originali e hanno seguito diverse avventure. Sono stati in grado di scoprire quanto è lontana la Luna dalla Terra (la distanza è molto maggiore di quanto immaginiamo), quanto sono forti il ​​magnetismo e la pressione dell'aria, quanta energia forniscono i diversi alimenti, o anche come il cervello elabora le informazioni ottenute attraverso gli occhi o le orecchie... Il regista Miha Kos ci ha raccontato che in venticinque anni di attività, durante i quali si è fatta conoscere in tutta Europa, la Casa degli Esperimenti ha preparato più di cinquanta esperimenti originali adatti a tutte le età. “La curiosità sulla conoscenza è importante per tutti. È bello quando i bambini e gli insegnanti ammettono di non sapere qualcosa. Così scopriamo che non tutto è già noto,

Il direttore della Casa degli Esperimenti ci ha dato un'altra lezione importante e molto attuale: "Il proverbio sloveno dice che 'tutti sanno tutto'. Oggi, troppo spesso, lo interpretiamo male, soprattutto sui social media, perché "ogni uomo sa tutto". Non così. "
Se qualcuno, indipendentemente dall'età, vuole provare le attività della Casa degli Esperimenti e diventare un pensatore più curioso e critico, può partecipare a un workshop che si svolgerà tramite Zoom il 29 dicembre. Le informazioni e le domande sono raccolte sul sito web www.he.si/spletnevsebine.

tradotto dal Novi Matajur


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