Igor Jelen*
Sono passati definitivamente i tempi in cui si diceva di una banca che «quanto meno se ne parla, più è affidabile», e anche quando si diceva, proponendo l’acquisto di azioni, «hai mica visto una banca fallire?». Sono pure passati i tempi delle banche guidate da manager di nomina pubblica, cioè politici a caccia di poltrone, o da notabili locali che si costruivano intorno una rete di compiacenze e di favori, preoccupati prima di tutto di vedere la propria nomina confermata indefinitamente. E che spesso non facevano null’altro che acquisire garanzie generate dagli stessi investimenti, spesso immobili di dubbia utilità, magari a servizio di nuove aree edificabili, che finiscono per consumare territorio e rovinare intere porzioni di paesaggio.
Con la crisi finanziaria del 2008, che da noi è diventata ovviamente immobiliare, le cose cambiano. La bolla dei mutui subprime mette in evidenza la propensione di tutti questi ad atteggiarsi a nuovi faraoni (citando articoli della stampa internazionale); spesso si tratta di manager originariamente bancari, ma abbacinati dai sogni della nuova finanza, spesso di imprenditori «palazzinari» che si avvantaggiano del mutuo immobiliare, che non fanno altro che richiedere nuovi finanziamenti su beni che non dispongono ancora, scommettendo su ciò che devono ancora costruire; spesso di colleghi «di chiara fama», che si improvvisano grandi banchieri, causando danni per intere generazioni di risparmiatori. E ancora in quegli anni, ricordo le dichiarazioni di noti esponenti anche locali, affermare che l’edilizia deve fare da traino all’economia con il buon proposito di rilanciare il «credito locale », mentre già a partire dai primi anni dopo il 2000 diversi osservatori (per es. della carta stampata, Financial Times o Handelsblatt, senza citare riviste scientifiche) mettevano in guardia da uno sviluppo trainato da un settore immobiliare ipertrofico, spesso di bassa qualità che non crea vero valore (che privilegia, come è tipico, opere per le quali è facile fare preventivi, costruzioni industrializzate, capannoni, nuove strade che attraversano terreni intonsi, nuove urbanizzazioni).
A volte sono state le stesse banche «affamate di budget» a stimolare grandi operazioni immobiliari, che appaiono oggi un vero e proprio monumento allo spreco, quasi dei moltiplicatori keynesiani al contrario. Qualche anno dopo saranno le stesse banche, alla fine di un circuito vizioso, ad acquisire quegli stessi immobili, finanziati da crediti diventati definitivamente Non Performing Loans.
Ma questa, per fortuna, non è stata la storia della nostra grande piccola banca, la Civibank, la sola in Friuli ad avere attraversato anche momenti tormentati, con le sue sculture di famosi artisti cinesi e l’installazione di una sede direzionale dalle fattezze lunari, e quel grande pallone all’ingresso a significare una passione o un destino, o chissà che cosa. È riuscita a superare momenti difficili, e resta comunque una buona ma piccola banca con circa settanta sportelli, che nel marasma complessivo rischia proprio oggi, se non saranno accolti i ricorsi dei suoi vertici al Tribunale amministrativo del Lazio, di finire preda di una banca appena un po’ più strutturata come appunto la Sparkasse di Bolzano. Un pesce piccolo che viene mangiato da un pesce appena un po’ più grande, non da un pescecane.
Vantaggi dell’acquisizione? Difficile dire, oltre alla lotta tra manager e la conta degli azionisti, quali siano i reali vantaggi o svantaggi dell’operazione. Da una parte si rivendica la necessità di migliore «massa critica », dall’altral’attenzione alla «territorialità », ma che può assomigliare piuttosto a una questione di poltrone. Certamente nessuno dei contendenti ha numeri e dimensioni tali per competere con i maggiori campioni nazionali e internazionali, e per riuscire a imporre servizi e prodotti veramente innovativi o anche semplicemente sufficientemente sofisticati.
Difficile capire che cosa sia il meglio o peggio, nessuna delle due ha la massa, la forza e forse neppure la struttura per continuare a svolgere un ruolo di vero e proprio «player» (cioè di «pescecane», ma si spera che almeno non faccia la fine di un tonno); la nuova compagine dovrebbe rimanere comunque un riferimento per il Nord Est italiano, e magari per le relazioni locali trans-confinarie. Ma queste sono parole. La nostra economia necessiterebbe di ben altro sostegno, affinché i piccoli possano strutturarsi, i grandi ristrutturarsi, perché le idee possano essere realizzate, per supportare una nuova generazione di imprese, che non restino le solite micro- imprese che alla prima difficoltà diventano «invisibili» al credito.
Qui nel Nord Est, le banche hanno spesso privilegiato una funzione di ricerca di «reddito sicuro» per un ceto medio che non ama le sorprese, orientandosi a business tranquilli, spesso in realtà di tipo auto-referenziale (finita l’era dei Bot e del mattone garantito); ma oggi questo significa continuare a perdere opportunità per interi nuovi settori di economia, turismo (quali alberghi investono in piscine, terme, strutture sportive?), mobilità, energie rinnovabili (chi mai investe in un eolico «domestico», in un semplice impianto a biomassa?), elettronica e automazione, ma anche formazione, cultura (fino a quando ci sono ministri preposti al controllo delle banche che dicono che con la «cultura non si mangia» che cosa possiamo aspettarci?) e via dicendo. Gli esempi e i casi di mancati investimenti, ovvero di intere nuove generazioni di imprenditori, potrebbero allungare di molto questo scritto.
I dati dicono come la produttività del lavoro stia drammaticamente calando lasciando indietro interi pezzi di Italia, intere generazioni, e le conseguenze di questo saranno visibili in poco tempo. Non centrano molto la pandemia, la guerra e le periodiche bolle che scoppiano segnando tragicamente questi decenni del nuovo millennio, che si preannuncia pieno di tensioni. La ricchezza non può che derivare dalla crescita di un’imprenditoria coraggiosa e innovativa (oltre che beninteso da altri fattori come l’efficienza del pubblico) che non può che riferirsi alle banche… che dovrebbero essere abbastanza smart da supportare queste tendenze, in realtà opportunità che appaiono ovvie anche ai non esperti di banca.
Una volta il direttore di banca, così come il maresciallo e il parroco, ciascuno attrezzato come confessore per le rispettive funzioni, erano le istituzioni in un mondo che non esiste più, all’ombra di un campanile. Oggi anche la micro-impresa deve essere capace di dialogare con un mercato grande come il mondo, di disporre di idee e tecnologie, di brevetti e competenze di cui una volta solo i grandi potevano trarre naturale vantaggio. Forse il mondo sta diventando troppo grande, e forse anche le nostre banche scontano i ritardi di un’economia, cioè di una cultura solo apparentemente aperta, in realtà che diffida dei cambiamenti e si sta richiudendo in sé stessa.
* docente di Geografia politica ed economica all’Università di Trieste
fonte dom del 15 maggio 2022