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22 set 2022

Quella volta che...

 


*FATTI DI ALTRI TEMPI*

Ricordi di fine anni 50:le stelle alpine



GIAN PAOLO GRI
"Vietato fotografare"
Negli anni Sessanta le strade del Friuli erano ancora accompagnate da minacciosi avvisi "Vietato fotografare". Alle servitù e ai cartelli materiali giustificati da presunte ragioni militari si aggiungevano divieti mentali non meno pervasivi, a tutela di confini guardiati con anche maggior cura. C'era un Friuli che non doveva essere mostrato: soggetti tabù, immagini da non divulgare, aspetti che era meglio nascondere sotto le pieghe. Resta esemplare la reazione del Messaggero Veneto al manifesto del "Gruppo friulano per una nuova fotografia", diffuso il 1 dicembre 1955 dai giovani spilimberghesi desiderosi di importare qui, in un Friuli provinciale e conformista, la lezione di "una fotografia asciutta", che andasse "diritta al nome delle cose". Arturo Manzano, autorevole critico d'arte, certo del plauso dei lettori, poteva ironizzare con titolo e sottotitolo: "Infelice annuncio dell'avvento di una "nuova fotografia". La presunzione al posto della conoscenza dei fatti e del doveroso rispetto delle persone".
I cartelli, quelli materiali e gli altri, pesavano soprattutto sul Friuli marginale; e come negli anni Cinquanta ci fu la protesta benpensante e cittadina contro le immagini "asciutte" che svelavano le valli prealpine del Friuli occidentale, così una decina di anni dopo toccò alle immagini delle Valli del Natisone di Riccardo Toffoletti. I due contesti erano egualmente problematici, antropologicamente "densi" per le caratteristiche di diversità e specificità, segnati da una condizione strutturale - economica e demografica - che li faceva pensare giunti al capolinea, in attesa del colpo finale.
Invece sono ancora là. Restano contesti non meno problematici di allora, così che la riproposta di immagini di quattro decenni fa non ha nulla di nostalgico o di artificioso; ma alle vecchie questioni non risolte se ne è aggiunta una nuova, ed è quella rappresentata proprio dal loro resistere: l'ostinata volontà di continuare ad esserci e a contare, nonostante tutto, con le proprie caratteristiche peculiari.
Fotoreportage definiva 40 anni fa Toffoletti il suo lavoro. L'indicazione del 'genere' chiariva di per sé la scelta di fotografare e proporre al pubblico un problema, non un ambiente caratteristico, con i suoi personaggi, non un paesaggio tipico; già la definizione affermava il legame con la tradizione fotografica impegnata e rinnovata, che fra i suoi propositi aveva la scelta di dar voce ai mondi marginali e subalterni. "Persone e non personaggi", diceva uno slogan. E siccome, a differenza dei personaggi che recitano copioni altrui, le persone parlano di sé e per sé, ecco che la fotografia diventava operazione complessa e richiedeva non solo scatti, ma anche ascolto e dialogo, anche osservazione partecipante, come si direbbe in antropologia. Da qui la scelta conseguente di utilizzare come didascalie proprio spezzoni di dialogo colti dal vivo: frasi capaci di esprimere dall'interno le diverse sfaccettature del problema rappresentato dalla situazione in cui versavano le Valli del Natisone.
Una didascalia mi ha colpito particolarmente; è una frase colta da Toffoletti a Mersino, interessante già dal punto di vista linguistico per lo sforzo di traduzione che rivela dal dialetto in lingua, ma forte come un macigno perché ha a che fare con la dignità e tocca proprio quella questione della "resistenza" che giustifica 40 anni dopo la riproposta delle immagini di allora e del dibattito che ne derivò: "A me non mi dice nessuno lei, così io non ci ho nessun rispetto anche di nessuno, perché tutti mi chiamano tu. Un rispetto deve avere anche altri di me! Ci vorrebbe più soldi e più rispetto".
Anche in Friuli il Novecento è stato il secolo che ha visto costituirsi in maniera vigorosa, e a contrasto con un folklorismo di maniera sempre risorgente, l'intreccio complesso e obbligato fra una etnologia fatta di parole e una etnologia fatta di immagini. Non c'è ambito dell'etnografia regionale che possa prescindere dai corredi fotografici, talvolta in maniera diretta e privilegiata (le forme dell'insediamento, l'architettura tradizionale, gli arredi interni, i saperi tradizionali e gli strumenti di lavoro, le forme della socialità e della ritualità comunitaria), in altri ambiti in maniera più complessa. Lo si vede bene ora, dopo che negli ultimi anni si è sviluppato un intenso lavoro di inventario, catalogazione e riproposta di fondi fotografici: strumenti indispensabili per una fondata e perfino sofisticata descrizione etnografica, capace di cogliere le specificità interne e i processi di trasformazione che nel corso del Novecento hanno determinato la messa ai margini del genere di vita tradizionale.
Ma oltre l'etnografia? Lavorando alcuni anni fa proprio nel Cividalese e cogliendo dalla voce dei protagonisti il durissimo prezzo pagato per passare dai campi ai cementifici locali fotografati da Toffoletti nel loro desolato abbandono, l'antropologo Douglas R. Holmes scriveva: "Per chi viene da fuori, italiano o straniero, il Friuli" - e al suo interno la Benecia tanto più - "è una zona non molto nota, e nemmeno è stata spesso meta di antropologi. Non sono stati ancora formulati interrogativi antropologici per affrontare il suo ingannevole carattere" (Disincanti culturali. Contadini-operai in Friuli, 1991). E' vero; ma buoni interrogativi antropologici intorno al "carattere ingannevole" vengono indirettamente formulati proprio da fotografie come queste, interessate meno ai paesaggi, ai mestieri, agli oggetti e alle forme tipiche, e più ai problemi. Fotografie non reticenti, proposte sapendo di toccare nervi scoperti e di violare il tabù imposto dal "Vietato fotografare", sapendo di attirarsi l'accusa di parzialità.
Mi è difficile oggi decifrare completamente la natura originaria dell'operazione. In quel 1968, probabilmente, era più forte di quanto non possa essere oggi l'illusione di riuscire a far parlare attraverso le immagini una realtà oggettiva. Ma anche allora la natura stessa del fotografare, fatta di scelte, non poteva che lasciare fra le mani la consapevolezza delle tante selezioni messe in atto e la coscienza del peso della soggettività all'interno del proprio lavoro di fotografo, anche quando voleva essere di polemica documentazione. Il "realismo ingenuo" era semmai di altri, meno consapevoli che basta cambiare punto di vista e inquadratura per mutare il significato; altri che pretendevano una fotografia "utilizzata anziché come illustrazione, come documentazione assoluta di una realtà, necessaria e oggettiva alla stregua di una tavola di risultati statistici". Trovo l'affermazione nell'anomalo e provocatorio catalogo che accompagnava, nel novembre di quel 1968, la presentazione del fotoreportage di Toffoletti a Udine, nella Galleria del Centro.
A incorniciare alcune delle foto, in quel catalogo sta infatti un singolare Rapporto antropogeografico firmato dall'architetto Giovanni Pietro Nimis. Leggendolo, si capisce come - miscelato alle fotografie - abbia potuto innescare un dibattito dai toni accesi, di cui fortunatamente resta traccia scritta. Episodio interessante, e non secondario, del Sessantotto udinese. Sullo sfondo di immagini asciutte e di didascalie cariche di interrogativi impliciti ed espliciti (basterebbe il confronto con il ricco e articolato repertorio di fotografie delle Valli di Mario Magajna, in quello stesso periodo), il Rapporto di Nimis aggiungeva benzina al falò: un breve profilo storico, la scelta di Savogna come comune-campione a cui riferire una batteria impietosa di tavole statistiche relative alle variabili demografiche, una proposta di soluzione ancora più impietosa delle tabelle.
A leggere quelle pagine oggi, 40 anni dopo, non si capisce bene se si tratta di un'analisi-proposta seria, pensata e formulata in termini realistici, o non piuttosto di una provocazione giocata sul paradosso, come un pamphlet settecentesco carico di ironia nei confronti della supponenza efficientista e arrogante della political arithmetic: il Mandeville della Modesta difesa delle pubbliche case di piacere, o meglio ancora lo Swift della Modest Proposal, con il suggerimento di risolvere il problema della fame delle famiglie d'Irlanda con la trasformazione in cibo dei figli bastardi. Là il problema dell'incremento demografico a fronte della fissità delle risorse, qui il fenomeno opposto di un drammatico decremento demografico giudicato irreversibile: con la proposta - seria, temo - di uno "spopolamento organizzato", di una eutanasia programmata, luciferinamente razionale. Soluzione ideale? Intervenire col bisturi, disgiungendo: che finalmente si separino montagna e montanari; che i montanari residui vengano fatti arretrare con decisione sulla linea di pedemontana, a Cividale e dintorni, così da ricavarne quel che ancora si può di utile e garantire servizi altrimenti impossibili; che l'ambiente così liberato dalle servitù di una comunità umana comunque segnata, venga riorganizzato in funzione del bisogno di natura e del loisir cittadino: paesi che si fanno villaggio turistico, l'ambiente che si trasforma in parco, e quant'altro.

1 commento:

⚠️Gradisco commenti e critiche per la crescita del blog.
Generalmente rispondo ai commenti,ma seguendo parecchi blog non sempre ci riesco.
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