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Resia, quando l’equivoco si radica

L'OPINIONE DI RICCARDO RUTTAR

 Sarà forse anche la pandemia da Covid-19 a portare le menti dei reclusi da coprifuochi notturni, da confinati territoriali, da costretti a sprechi di «virtualità» nella vita quotidiana a suscitare voglie represse di aria aperta, pura, di natura, di panorami diversi da quelli dei balconi di città. Bisogno di aprirsi al mondo un po’ fantastico di monti, foreste, torrenti, borghi atavici, memorie e nostalgie dei tempi di quando padri e nonni, non ancora inurbati, vivificavano paesi e borgate del loro lavoro nei campi, nelle botteghe e officine artigianali. Una fuga consolatoria in emozioni e pensieri trascurati dalla quotidianità. Siamo al clou del bisogno di rivalsa e di libertà dopo un biennio di clausura forzata ed esplode anche nei mass media e sui social il richiamo alla natura e un impellente invito all’evasione.

Oggettivamente è bello ed entusiasmante riscoprire le bellezze che ci circondano, quelle della natura, specie dove mostra ancora le sue fattezze e le sue risorse originarie incontaminate; come può essere rivitalizzante e attrattivo ricercare le ricchezze culturali, quelle immateriali che ci vengono offerte in questo tentativo di ripresa collettiva dopo le chiusure da Covid. Così, nel nostro ambito locale, ad esempio può essere ascoltato il richiamo della mostra d’arte di Illegio (Tolmezzo), ma non è meno significativo quello della Piazza Unità triestina, dell’oasi faunistica di Grado e non meno interessante riscoprire il fascino misterioso delle grotte di Villanova, delle borgatelle della Val Resia ai piedi del Canin e quant’altro. Migliaia sono i luoghi, panorami, torrenti, edifici, chiese, paesi, piccoli tesori nascosti per valli, per monti e pianure; e sono lì, in attesa di essere visti, goduti, studiati, rispettati nella loro integrità e unicità. Non occorre andare lontano per godersi in sicurezza la possibilità di uscire di casa con la famiglia, di ritrovarsi con parenti e amici con un rinnovato senso di benessere e libertà, senza tuttavia dimenticare le opportune precauzioni.

Il mio scritto è comunque un implicito invito ai lettori a considerare con rinnovato interesse i luoghi a me cari, preziosi per essere stati quelli delle mie radici fisiche e culturali, per essere stati oggetto dei miei studi e del mio lavoro ultradecennale, nel tentativo di valorizzarli e preservarli. Parlo delle mie valli del Natisone in primis, ma per naturale estensione, di tutta la fascia confinaria caratterizzata dalla particolare cultura, dall’appartenenza etnica e linguistica slovena. Tutti conosciamo quanto queste caratteristiche, specie le varianti linguistiche, abbiano suscitato diatribe, discussioni, violenze di ogni genere nella storia italiana già dai lontani tempi dei plebisciti (1866), che instaurarono il Regno dei Savoia. Allora si proclamò: «Questi slavi dobbiamo eliminarli!».E, purtroppo il programma fu consequenziale; basti pensare che una legge dello Stato che riconoscesse e tentasse di tutelare la minoranza linguistica slovena venne alla luce solo alla fine del secondo millennio (L. 482/99) e all’inizio del terzo millennio (L. 38/2001). Fino ad allora fu un secolo e mezzo di dimenticanze, di pressioni snazionalizzatrici su tutto il territorio e sulla gente che l’abitava. I risultati si vedono ora dai borghi montani semidisabitati dove la natura sta ricoprendo di un immenso manto verde prati, pascoli, campi, orti e cortili.

Oggi potrebbe essere proprio questa natura rigogliosa a dar loro un nuovo senso per l’uomo che la ricerca e contribuire alla riscoperta anche delle ricchezze culturali di lingua, di tradizioni, di architettura, di arte, otre che di bellezze paesaggistiche. Credo che sia giunto il tempo di dare ragione alle giuste rivendicazioni delle comunità locali e del territorio in relazione alla propria storia, con la presa d’atto dei fattori che ne hanno condizionato l’involuzione.

Abbiamo tutti i mezzi per dare vero senso anche alla nostra ineguagliabile storia. Storia e vicende che vanno finalmente epurate dalle incrostazioni - retaggio delle politiche di snazionalizzazione ed assimilazione forzata. Chi altri può vantare le Banche di Antro e Merso, simboli di autonomia e orgoglio etnico e linguistico specifico? Chi può ancora non ridare valore ad antiche tradizioni come ad esempio quelle delle vallate di Resia? È un passato che dà valore al presente e come tale va rivisto nelle sue reali, documentate ricostruzioni.

A tal proposito una considerazione proprio sulla collocazione storica, antropologica e sociale della popolazione di Resia. Proprio su Resia ho letto di recente un interessante articolo, su un noto periodico dedicato alla platea femminile, della nota scrittrice gemonese Ilaria Tuti. «Identità nascosta», è il titolo. Lo trovo come esempio emblematico di come un’informazione parziale possa deviare il senso storico scientificamente documentato, specialmente trattandosi proprio di un argomento tanto dibattuto come quello dell’identità etnolingustica. Quanto sia corretta l’affermazione che il resiano sia «Una lingua parlata da una stirpe indipendente dal punto di vista glottologico» è fuorviante ed è sicuramente errato – dimostrato proprio da approfonditi studi glottologici – l’assunto «…assimilati per errore agli sloveni». Avrebbe fatto miglior servizio alla questione identitaria resiana, oggettivamente «combattuta», almeno una qualche forma dubitativa, magari cercando informazioni anche sull’altra sponda, quella documentata e non estrapolata da interpretazioni di parte.

È vero, se si entra in quel tessuto tradizionale, Resia è speciale per la sua caratteristica di isola tra i monti, del suo sviluppo culturale e linguistico più unico che raro. Ma anche Resia – come da proclama del 1866 – ha dovuto subire il trattamento di «particolare interesse» dello Stato italiano prima monarchico, poi fascista ed infine anche repubblicano.

Anche Tuti avrebbe potuto affrontare tematiche come la conclamata sindrome di Stoccolma o, in termini psicanalitici, l’identificazione coll’aggressore. È in parte incredibile come pervicacemente la questione linguistica abbia avvelenato al suo interno la vita degli sloveni della provincia di Udine: sloveno sì -sloveno no; resiano, po našin, natisoniano, paleoslavo, veteroslavo, rečansko, nediško, valtorriano… e via con la fantasia. Per quanto riguarda Resia è abbondantemente superata la tesi di oscure origini altaiche siberiane, o migrazioni dalle sponde kazakistane del Mare D’Aral. Tesi che hanno lo stesso valore probatorio del canto «La Roseane» che declama «Da la Russie l’antenat… soi di Resie, sin furlans».

RICCARDO RUTTAR

dal Dom del 15 giugno 2021



Stolvizza-Solbica foto di Valter della Schiava

da wikipedia

3 commenti:

  1. io basta che faccia due passi da casa e sono già immerso nella natura. certo non rigogliosa e molto varia: si tratta solo della piatta campagna emiliana. ma è comunque piacevole. ciao

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