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Questo blog parla delle minoranze linguistiche del Friuli:SLOVENA,FRIULANA eTEDESCA,articoli dei giornali della minoranza slovena,degli usi,costumi,eventi e tanto altro.Buona lettura.OLga

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27 mag 2020

Le grotte di Villanova/Zavarh


Col termine generico di grotte di Villanova vengono indicate le principali grotte che si aprono nell'area di Villanova delle Grotte (frazione di Lusevera, in provincia di Udine).
In una piccola area delle Prealpi Giulie compresa fra il massiccio dei Monti La Bernadia e la catena del Gran Monte sono state scoperte numerose cavità fra cui le maggiori sono la Grotta Doviza, la Grotta Nuova di Villanova, la Grotta Egidio Feruglio e l'Abisso Vigant. Le prime tre cavità si aprono nel territorio del comune di Lusevera, la quarta in quello di Nimis. Altre grotte si aprono nel territorio di Taipana (Monteaperta, ...).
Le grotte dell'area di Villanova sono state esplorate da intere generazioni di speleologi a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Attualmente sono stati esplorati e rilevati oltre quindici chilometri di gallerie.

Grotta Doviza

La grotta Doviza o Tazajama si apre nei pressi di Villanova delle Grotte (Lusevera, Udine) con tre ingressi posti sul versante destro della valle Ta pot Cletia. La lunghezza delle gallerie esplorate finora è superiore a tre chilometri. La grotta, particolarmente complessa, si sviluppa su più livelli. I rami principali sono percorsi da alcuni ruscelli che si uniscono nel Salone delle Confluenze. Le prime esplorazioni della grotta Doviza risalgono alla seconda metà del XIX secolo (1876), ma l'esplorazione ed il rilievo topografico più completi risalgono al primo decennio del Novecento ad opera di Giovanni Battista De Gasperi. All'epoca delle prime esplorazioni erano noti solamente due ingressi, definiti come Superiore ed Inferiore. La pianta topografica e la descrizione della cavità vennero pubblicate nel 1916 sulla monografia Grotte e Voragini del Friuli nell'ambito della rivista Mondo Sotterraneo del Circolo Speleologico ed Idrologico Friulano. Nella seconda metà del Novecento ulteriori contributi al rilievo topografico della grotta vennero da speleologi di diverse associazioni friulane ed isontine. La scoperta del terzo ingresso della cavità è avvenuta nel 2007.

Grotta Nuova di Villanova

La grotta Nuova di Villanova si trova esattamente in corrispondenza dell'abitato di Villanova delle Grotte (Lusevera). La Grotta Nuova è particolarmente interessante poiché si tratta di una delle maggiori cavità di contatto conosciute: si sviluppa infatti al contatto fra una bancata di flysch ed una di conglomerato calcareo. Le gallerie principali sono caratterizzate da una tipica sezione trapezoidale, col soffitto in conglomerato, pareti in flysch e fondo coperto da sedimenti.
La grotta venne scoperta nel 1925 da un abitante del luogo, Pietro Negro. Quasi subito egli fondò insieme ad altri locali il Gruppo Esploratori e Lavoratori delle Grotte di Villanova, che esplorò la cavità e la rese accessibile al pubblico attraverso un accesso artificiale. Ancora oggi le visite guidate alla grotta sono gestite dalla stessa associazione locale.

Abisso Vigant

L'abisso Vigant è una cavità che si apre nei pressi di borgo Vigant, in comune di Nimis. È costituita da un inghiottitoio, diversamente dalle tipiche entrate a pozzo. Con 10 verticali abbastanza semplici si arriva a una profondità di meno 254 metri.

Grotte di Monteaperta

Grotta "pod Lanisce" (semi-allagata) presso la località Ponte Sambo, grotte "del Briec e del Celò" (sopra Debellis), grotta "della Divia Jáma" (sopra la pod Biéla Skála a Monteaperta).

Riapertura grotte di Villanova-Zavarh jame
foto di Guido Marchiol

26 mag 2020

La restituzione del Narodni dom non è un regalo ma un atto doveroso di pacificazione storica


Trieste è una città che si vanta, giustamente, del proprio passato glorioso mitteleuropeo, di cui oggi se ne intravede,malgrado tutto, ancora qualche raggio di luce. Una mescolanza di radici latine, germaniche e slave, identità plurime di questa nostra città di confine. Poi, però, c'è chi ha cercato con la violenza di determinare il sopravvento della propria identità cercando di sradicare quella considerata con arroganza e prepotenza "inferiore" o "nemica", così annichilendo l'identità stessa della città di Trieste e della nostra regione.
L'emblema di questo scontro, di questa arroganza, di questa prepotenza è stato certamente il Narodni dom in una città che conoscerà nel '900 plurime violenze nazionaliste. Non era solo un centro culturale ed economico sloveno, era l'affermazione di una delle identità storiche di Trieste che andava a completare con ciò che rappresentava quell'edificio progettato da Fabiani, il puzzle dell'essere mitteleuropeo di questa località a volte contesa anche da Dio. Un contenitore potente, immenso di vitalità, c'era il famoso Hotel Balkan con 62 stanze, uno dei più moderni d'Europa per l'epoca, c'erano palestre, due ristoranti, un caffè, una tipografia, una sala di lettura, un teatro con oltre 400 posti a sedere, trovavano ospitalità società di vario tipo, da musicali a teatrali, da sportive a società di mutuo soccorso. Era un qualcosa di unicum, irripetibile. Venne assaltato dai nazionalisti italiani, capeggiati dal dannunziano Giunta. Il 21 luglio del 1920 alla Camera del Regno d'Italia il deputato Barberis fu il primo a portare nelle aule di Roma la prima testimonianza di quanto accadde a Trieste il 13 luglio del 1920 evidenziando che si trattava di opera "dei nazionalisti teppisti". L'Italia è un Paese che non ha mai fatto i conti con la propria storia, non ha mai avuto una sua Norimberga e sappiamo bene il perchè. Restituire il Narodni dom agli sloveni non è un regalo, ma è un atto doveroso, a prescindere da quello che possano prevedere leggi che attendono da tempo la loro attuazione. E' un atto di pacificazione storica che deve accomunare tutti. E' un simbolo quello che non rappresenta solo le violenze nazionaliste subite dagli sloveni, ma segna l'inizio del fascismo del confine orientale che ha comportato conseguenze e tragedie che si son prolungate fino alla fine della seconda guerra mondiale. Con l'atto della restituzione si realizza la pacificazione storica con la quale, questa volta per davvero, "se pol" ricominciare un nuovo percorso, una nuova vita e mettere una pietra tombale su un passato che è la maledizione di questa città.
mb

Tutti siamo partigiani sloveni

Pubblichiamo l’intervento di Furio Honsell, sindaco di Udine, alla commemorazione, avvenuta domenica 7 settembre, dei quattro martiri sloveni fucilati dai fascisti nel 1930 a Bazovica.
BazovicaPresidente del Comitato per le onoranze degli eroi di Basovizza, Milan Pahor, Ministro Jakič, Ambasciatore Mirosič, Console Sergaš, Onorevole Blazina, Sindaci in rappresentanza delle vostre comunità, familiari e amici degli eroi, cittadine e cittadini antifascisti,
spoštovani, vsi lepo pozdravljeni,
con grande emozione prendo la parola oggi in un’occasione così intensa sia sul piano etico e politico, sia su quello umano. Sento profondamente il significato che questa ricorrenza ha per la comunità slovena di Trieste, e quindi deve avere per la città di Trieste tutta, per la nostra regione, per l’Italia e per tutti quei cittadini italiani e sloveni che sentono il dovere di riaffermare i valori di libertà, di pluralità, di solidarietà, di uguaglianza, di pari opportunità, di giustizia, di democrazia. Valori che sono la nostra unica speranza per il progresso civile dell’umanità. Ma questa è anche un’occasione per condannare i fascismi e la loro barbarie, per condannare le politiche di omologazione che vogliono negare le specificità e azzerare le differenze, togliendo così la dignità alle diverse identità e culture che sono invece gli autentici fondamenti delle comunità.
La feroce politica di denazionalizzazione forzata, ma sarebbe più corretto dire di fascisitizzazione, di cui fu fatta oggetto la popolazione di lingua slovena di queste terre a partire dagli anni venti da parte del governo Italiano di allora rimarrà per l’eternità simbolo di atrocità e barbarie. L’eliminazione delle scuole slovene prima, poi della lingua slovena dalle scuole e dalle chiese, la messa al bando delle associazioni culturali e addirittura sportive slovene, la chiusura dei giornali sloveni, la soppressione di qualsiasi attività culturale slovena e in lingua slovena, la progressiva eliminazione di cognomi e toponimi, sin dei nomi dei corsi d’acqua, sono tra le forme più abominevoli e più subdole di negazione della cultura di una comunità. Particolarmente vigliacca fu la messa al bando dello sloveno nei tribunali negando così il diritto ai cittadini ad avere pari opportunità nel potersi difendere.
In aperta violazione dei trattati internazionali le autorità italiane non repressero le violenze fisiche di cui era fatta oggetto la minoranza slovena da parte degli squadristi, ma anzi con il rafforzarsi del Fascismo la violenza nei loro confronti fu legittimata sempre di più e crebbe a livelli più alti con l’incendio di varie Case del Popolo e del Narodni Dom a Trieste, per venire infine pienamente legalizzata con l’internamento dell’intellighenzia slovena e il trasferimento di insegnanti e clero sloveno.
Questa drammatica vicenda, così tragica per chi l’ha vissuta in prima persona o nelle narrazioni dei propri anziani, oggi non va inquadrata meramente come un problema di una minoranza oppressa, ma ne va colto il valore simbolico più ampio. Riconoscere e ammettere pienamente la responsabilità di questi atti di “bonifica etnica” è oggi un dovere, per un paese come l’Italia che non ha mai saputo fare i conti con i suoi crimini fascisti, per un paese che non ha avuto una sua Norimberga. E quest’oggi da autentici cittadini europei, cittadini di un’Europa antifascista che ha come motto “uniti nella diversità” e quindi sull’antitesi dell’idea di Europa nazifascista, dobbiamo dire siamo tutti partigiani sloveni “vsi smo slovenski partizani”. Questi eroi sono martiri universali perché hanno saputo resistere contro la dittatura, e non solamente esistere, hanno saputo sacrificarsi nel nome di valori e diritti umani e civili per tutti noi. Sono i nostri martiri.
Per onorare questi eroi barbaramente trucidati alle 5.43 del 6 settembre 1930, dopo atroci torture e un processo farsa, basterebbe pronunciare, anzi gridare i loro nomi, Ferdinand Bidovec di anni 22, Franjo Marušič di anni 24, Zvonimir Miloš di anni 27 e Alojz Valencič di anni 34, unendo ad essi anche il nome dell’eroe croato istriano Vladimir Gortan, fucilato a Pola il 17 ottobre del 1929.
Quanto erano giovani e quanto erano coraggiosi. Avevano capito che era importante resistere, che a un certo punto giunge l’ora di agire. Quanto sarebbe stato più facile, allora, ma forse in tutte le epoche, essere invece spettatori piuttosto che attori. Questi giovani capirono invece prima degli altri che la vera etica è quella che impone di reagire perché l’attesa, ma soprattutto l’indifferenza, di fronte all’ingiustizia, sono già complicità. E oggi nella perdurante crisi antropologica, prima ancora che economica che stiamo vivendo, della quale i giovani sono le prime vittime non possiamo non trarre profonda ispirazione dall’età giovanissima di questi eroi. Dai giovani nasce la libertà e la giustizia. Erano giovani ma erano già dei giganti.
La solenne occasione di oggi è piccola cosa di fronte alla grandezza della loro epopea. Ma nondimeno è un’occasione importantissima per noi per rinnovare il significato universale di quanto seppero dimostrare con le loro gesta. Questi eroi sono un modello da non dimenticare. E mi sento profondamente onorato nell’avere l’opportunità di prendere parte a questa manifestazione in rappresentanza di tutta la comunità udinese.
Il Fascismo è infatti sempre in agguato, soprattutto in Italia. Come disse Gobetti all’indomani della marcia su Roma: “Questa non è una rivoluzione ma una rivelazione degli antiche mali d’Italia”. In ogni epoca c’è il rischio di una deriva fascista, di una deriva totalitaria. L’abbiamo visto anche in anni recentissimi in Italia e oggi in altri paesi della “civilissima” Europa. La deriva fascista è lenta, quasi impercettibile, si alimenta di consensi diffusi costruiti sui pregiudizi e sui luoghi comuni, fino a quando è troppo tardi, e perduti i diritti democratici si instaura la dittatura. E allora ci vuole una sanguinosa lotta di Liberazione per potersene liberare. Questa è l’unica grande lezione del XX secolo, il tragico secolo breve. Bisogna dunque resistere sempre e non stancarsi mai di condannare il fascismo stigmatizzandone i segnali deboli quando fanno “capolino”. Ma non basta essere consapevoli dei rischi del fascismo, bisogna vivere l’impegno antifascista quotidianamente anche quando sembra che il rischio sia lontano. Per questo motivo occasioni come questa, non sono mere cerimonie retoriche, ma sono invece occasioni molto significative anche sul piano etico e politico.
Ma questa giornata è molto importante anche sul piano storico, perché è l’occasione per sottolineare quanto forse è poco conosciuto, oppure viene dimenticato, o addirittura deliberatamente misconosciuto: la portata europea della resistenza antifascista slovena e croata a Trieste e Gorizia, sul Carso, in Istria e nel litorale.
Vi ringrazio anche personalmente per avermi dato l’opportunità oggi di rendermene pienamente conto, e di rendermi interprete di questo fatto che purtroppo è ancora troppo poco noto, e che andrebbe invece fatto conoscere di più anche nelle scuole: “quello che si diffuse nei territori sloveni a partire dagli anni venti fu la prima autentica forma in Europa di antifascismo come movimento diffuso in un popolo.”  Se si pensa a quale consapevolezza avesse, negli stessi anni, l’opinione pubblica, soprattutto italiana, esaltata dalla mistificazione e dalla propaganda fascista, si coglie pienamente la grandiosa portata ideale e profetica della comunità slovena. A parte alcuni settori dell’élite intellettuale antifascista e i membri del Partito Comunista, pochissimi in Italia seppero rendersi conto allora di quanto stava avvenendo. La piena consapevolezza nella popolazione italiana e il dissenso esplicito al fascismo arrivarono solamente dopo le prime sconfitte militari nella guerra imperialista dell’Italia a fianco della Germania, quindi quasi vent’anni dopo. In Italia un’autentica presa di coscienza dal basso, un convinto sentimento antifascista e lo slancio ideale resistenziale si diffusero in un movimento collettivo e in un bisogno di partecipazione attiva, sia di resistenza armata che di resistenza civile, solamente dal 1943in poi.  Solamente allora la popolazione italiana divenne ciò che mirabilmente espresse  Calamandrei e oggi è riportato sul monumento alla Resistenza a Udine: “Quando io considero questo misterioso e meraviglioso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica , ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi, come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come le rondini di un continente che lo stesso giorno s’accorgono che è giunta l’ora di mettersi in viaggio. Era giunta l’ora di resistere, era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini, per vivere da uomini.“
È decisivo sia sul piano etico che storico riconoscere oggi come i primi a prendere coscienza che in Italia si stava delineando un abominevole e barbaro mostro fascista fu proprio la popolazione di lingua slovena di Trieste e del goriziano, così barbaramente brutalizzata. Furono loro questi eroi i primi antifascisti d’Europa. A loroil merito e l’onore.  La loro è una grande lezione di civiltà e di libertà della quale tutti siamo debitori. Se solamente i cittadini italiani avessero guardato a questi loro concittadini sloveni quanto avrebbero saputo riconoscere prima i segnali di una tragedia che avrebbe di li a poco travolto tutti. Quanto dolore e quanta sofferenza e violenza contro innocenti si sarebbero potute evitare.
Va dunque ribadito “quant’era pien di sonno”, come direbbe Dante, la coscienza italiana in quegli anni, e va riconosciuta e condannata la violenza contro la popolazione slovena e croata che l’esercito fascista avrebbe ancora perpetrato nel ventennio successivo culminata con l’invasione della Slovenia stessa nel 1942, fino alla repressione e ai rastrellamenti di Lubiana e alla deportazione in massa dei dissidenti sloveni nei campi di concentramento italiani, come quello di Gonars.
Qui sul Carso e in Istria e nel litorale la grande anima slovena fu invece profetica della tragedia ma anche della Liberazione. Per cosa combattevano quei giovani se non per un futuro di dignità che non avevano mai potuto veramente conoscere, ma solamente immaginare con la forza dei loro ideali. Quale consapevolezza avevano questi ragazzi che furono i pionieri della Resistenza antifascista, come movimento di popolo, in Europa! Proprio la giovane età di questi eroi ci fa capire quanto fosse profonda e radicata nella comunità slovena questa consapevolezza di libertà e di giustizia.
Manifestazioni come questa sono anche importanti perché sono momenti nei quali bisogna ribadire e combattere il revisionismo storico che proprio a Basovizza assume un significato ancora più drammatico. La tragedia dei profughi italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, del dopoguerra, non deve essere sottovalutata e dimenticata, furono anch’essi vittime, vittime della tragedia della guerra imperialista nazifascista. Ma ricordare Basovizza, come purtroppo viene fatto, solamente per la sua Foiba, e non per questi eroi, è una mistificazione che non aiuta a capire la Storia e quindi a non ripetere gli errori e gli orrori. Accresce solamente i pregiudizi, gli stereotipi e offende la memoria di questi eroi. Va riconosciuto invece che la retorica delle foibe è stata inventata dalla propaganda nazista già nel 1943, paradossalmente addirittura prima che accadessero i fatti drammatici per i quali oggi è stata istituita la giornata del ricordo. È decisivo per costruire un’Europa di pace e convivenza che si riconoscano invece i crimini fascisti e ci si liberi dalle mistificazioni riconoscendo le tragedie senza fare una contabilità delle vittime e ricercare inqualificabili giustificazioni. Vanno dunque respinti e condannati tutti i tentativi di riscrivere la Storia. Le responsabilità non si cancelleranno mai. La forza oscurantista del revisionismo è sempre in agguato come dimostrano i numerosi (13) attentati anche contro questo monumento.
Concludo con tre brevi considerazioni. La prima è che il monumento più importante per una comunità è costituito dalla propria lingua, quella slovena qui. Non fu certo a caso se la violenza legalizzata fascista si abbatté con tanta ferocia proprio contro la lingua slovena. La lingua è cultura. Il bisogno di identità di una comunità e di un popolo si realizza attraverso le proprie narrazioni. Ed è proprio la lingua nella quale queste narrazioni sono espresse che diventa essa stessa la prima e autentica narrazione, “il mezzo stesso è messaggio” La lingua è narrazione di identità allo stato puro. Un appello quindi che come riscatto per questi martiri siano sempre più le occasioni per tutti i giovani di questi territori italiani e sloveni di poter imparare lo sloveno. Tutte le scuole dovrebbero insegnare lo sloveno, almeno in questa regione, molte di più dovrebbero diventare almeno bilingui.
L’importanza della Resistenza slovena è decisiva proprio per capire il senso della nuova cittadinanza Europa che dobbiamo costruire. I nazionalismi quando diventano fondamentalismi generano mostri. La Resistenza slovena in queste terre fa invece capire come possa esserci una difesa della propria identità che non è distruzione del diverso ma anzi è opportunità di confronto con il diverso. Il pluralismo è il più grande valore democratico da difendere oltre ad essere una grande opportunità. Si conosce se stessi anche per contrasto. L’idea di Europa nazifascista prevedeva un’omologazione totale e l’azzeramento delle differenze, l’Europa nata della Resistenza invece fa delle differenze il proprio fondamento: “unita nella differenza” è il suo motto. I nazionalismi sono un dramma quando diventano, come in recente movimenti politici anche in Italia, rifiuto e annientamento del diverso, le identità sono invece delle opportunità di arricchimento quando sono vissute con orgoglio e tolleranza come viene fatto qui. L’Europa per realizzarsi pienamente deve infatti abbandonare il concetto ottocentesco di stati-nazione. L’intera Europa va sentita come propria patria, la pluralità di lingue e culture va cementata dai comuni valori di democrazia e tolleranza.
Un ultima riflessione riguarda il dilemma vissuto così profondamente nella Resistenza slovena in queste terre: Resistenza legale oppure Resistenza clandestina e armata. Il XX secolo ha dimostrato che purtroppo quando la democrazia scompare, l’azione ancorché armata è inevitabile. E questo è un motivo in più per difendere quindi strenuamente la democrazia e i diritti delle minoranze. Siamo infatti tutti minoranza, membri di qualche minoranza. Se una minoranza viene delegittimata, in quanto tate, da un governo diventiamo tutti potenzialmente delle vittime. Per questi motivi, come giustamente viene ricordato qui a Basovizza, questi martiri hanno dato la loro vita anche per tutti noi indipendentemente dalla nostra lingua madre. La loro battaglia per il pieno riconoscimento dell’identità slovena è una battaglia che hanno condotto anche per la nostra identità, per l’Umanità, per la democrazia.
Grazie dunque Ferdinand, Franjo, Zvonimir e Alojz, per i vostro sacrifico, il nostro impegno antifascista e democratico e la difesa della cultura e lingua slovena sarà il vostro riscatto.
Come dice il poeta Miroslav Košuta:
E che mai non muoia il ricordo
Di un tempo che non deve fare ritorno
In da nikdar ne zamre spomin
Na čas, ki naj se ne povrne
Concludo facendo mia la frase eroica con la quale ha concluso la sua esistenza terrena il giovanissimo Ferdo Bidovec: Živela Jugoslavia –Smrt Fasizmu.
Viva la Resistenza dei popoli al fascismo, viva la verità, la libertà e la giustizia! Viva i diritti delle minoranze.

Koš - gerla

 Koš - gerla 
E' una cesta in legno, vimini o viburno intrecciati a forma di tronco di cono rovesciato, aperta in alto, usata per trasportare materiali vari; è munita di due cinghie, fettucce o spallacci di fusti di nocciolo per poter essere portata sulle spalle.
In latino si chiamava cista cibaria e veniva usata per il trasporto del cibo.
In Carnia si ha il zèi (pronuncia locale: gei) per il trasporto di fieno, legna, formaggio, letame,prodotti agricoli ecc. (nella prima guerra mondiale veniva usata per portare le munizioni). Assieme al zèi si usava il màmul o musse, una sorta di treppiede in legno su cui si poggiava la gerla per poterla caricare senza bisogno d'aiuto.
immagine dal mio archivio personale

                   NA RAMANAH

   Na ramanah so nosili sieno.
Na ramanah tou košu so nosili nuoj
   anu a zanašali v vilami.
Na ramanah so nosili derva

dal calendario 2014 del Centro  di Ricerche Culturali di Bardo-Lusevera

                SULLE SPALLE

Sulle spalle portavano il fieno.
Sulle spalle nella gerla portavano letame
lo spargevano con la forca.
Sulle spalle portavano la legna

25 mag 2020

ANCORA A DEBITA DISTANZA



In questo periodo – dagli inizi di marzo ad oggi – in cui non sono accaduti eventi, in realtà è accaduto e sta accadendo di tutto. Sta cambiando il mondo, stanno cambiando i nostri stili di vita, sta cambiando la nostra idea di futuro. Sarà poi che in questo periodo sono nati e proliferati come i funghi sul Planino i virologi, epidemiologi e mascherinologi di ogni specie, ma a volte sembra veramente di essere soppraffatti da informazioni che spesso informazioni nemmeno lo sono.
In tutto questo a noi, come comunità, forse dovrebbero interessare soprattutto due aspetti. Di uno se ne parla molto anche a livello nazionale. La scuola. La scuola in Italia è e rimarrà ancora per tanto una nota dolente, inutile girarci attorno. La pandemia sta però mettendo ancora di più in discussione il sistema scolastico italiano, con tutti gli annessi e connessi. Si può cominciare con il chiedersi se è (o meglio: era) davvero impossibile pensare a una ripresa delle lezioni in classe (o fuori dalla classe, nei cortili, nei prati, nei boschi, ovviamente ove questo sarebbe stato possibile) prima della fine dell’anno scolastico. Di certo quella che a fatica sta terminando atttaverso la didattica a distanza non è un’esperienza che si può definire ‘scuola’. Lo dice benissimo Angelo Floramo nell’intervista che pubblichiamo su questo numero.
Il secondo aspetto che più ci interessa, come comunità slovena, è quello del confine. Anche qui l’impressione è che, una volta tolti i blocchi di cemento dai valichi confinari, non tutto sarà come prima. Da una par- te abbiamo capito che quel confine che vorremmo sempre aperto può richiudersi anche da un momento all’altro, per motivi che certo non dipendono da noi. Dall’altro, anche su questo giornale abbiamo spesso registrato voci che parlavano di una grande occasione che non sempre è stata utilizzata al meglio. Quando torneremo a circolare liberamente, ricordiamoci anche di questo. (m.o.)

24 mag 2020

Cividale-Čedad



Cividale,Cividât in friulano, Čedad in sloveno è un comune del Friuli di 11.077 abitanti.Fu fondata da Giulio Cesare con il nome di Forum Iulii, da cui poi ha preso il nome tutta la regione, diventò il capoluogo longobardo del Friuli.

Cividale del Friuli sorge ai piedi dei colli del Friuli orientale sulle sponde del Natisone, a 17 km da Udine, sulla strada che collega la pianura friulana alla media e alta Valle dell'Isonzo , in territorio sloveno. Si estende su una superficie di 49,50 km², dall'altitudine minima di 97 metri alla massima di 508 metri.
La città, ai tempi dei romani, era chiamata Forum Iulii. La tradizione la indica come fondata da Giulio Cesare: «Forum Iulii ita dictum, quod Iulius Caesar negotiationis forum ibi statuerat». Il toponimo "Forum Iulii" potrebbe, invece, aver avuto origine dalla gens Iulia, che ha lasciato nella zona diverse altre testimonianze nei nomi attribuiti ai luoghi della regione. Tra il VII e l'VIII secolo venne chiamata Civitas Forum Iulii. Alla fine dell'VIII secolo Paolo Diacono la citava come Civitas vel Castrum Foroiulianum. Nel X secolo, essendo allocata nella parte orientale del regno di Lotario, cominciò a chiamarsi Civitas Austriae. Abbreviando il nome ufficiale, la popolazione la denominò Civitate(m), da cui discesero i nomi locali di SividàtZividàtCividàt e successivamente, intorno al XV secolo, prima in ambito letterario, quello di Cividale
La città, ai tempi dei romani, era chiamata Forum Iulii. La tradizione la indica come fondata da Giulio Cesare: «Forum Iulii ita dictum, quod Iulius Caesar negotiationis forum ibi statuerat». Il toponimo "Forum Iulii" potrebbe, invece, aver avuto origine dalla gens Iulia, che ha lasciato nella zona diverse altre testimonianze nei nomi attribuiti ai luoghi della regione. Tra il VII e l'VIII secolo venne chiamata Civitas Forum Iulii. Alla fine dell'VIII secolo Paolo Diacono la citava come Civitas vel Castrum Foroiulianum. Nel X secolo, essendo allocata nella parte orientale del regno di Lotario, cominciò a chiamarsi Civitas Austriae. Abbreviando il nome ufficiale, la popolazione la denominò Civitate(m), da cui discesero i nomi locali di SividàtZividàtCividàt e successivamente, intorno al XV secolo, prima in ambito letterario, quello di Cividale.
Epoca romana

La presenza umana nella zona dove oggi sorge Cividale risale a epoche piuttosto antiche, come attestato dalle stazioni preistoriche del Paleolitico e del Neolitico trovate appena fuori della città; ad esse si aggiungono abbondanti testimonianze dell'Età del Ferro e della presenza veneta e celtica risalenti sino al IV secolo a.C. La strategica posizione di questo primitivo insediamento indusse i Romani a stabilirvisi, fondando forse alla metà del II secolo a.C. un castrum, di ovvia natura militare, il quale fu in seguito elevato da Giulio Cesare a forum (mercato) e per tale motivo la località assunse il nome di "Forum Iulii" poi divenuto identificativo di tutta la regione. Successivamente la località fu elevata a municipium, venendo ascritta alla tribù romana Scaptia e assurse infine al rango di capitale della Regio X Venetia et Histria allorché Attila rase al suolo Aquileia nel V secolo

Epoca longobarda

Nel 568 giunsero dalla Pannonia i Longobardi, di origine scandinava, il cui re Alboino elesse subito la romana Forum Iulii a capitale del primo ducato longobardo in Italia e ponendovi duca il proprio nipote Gisulfo. Ribattezzata la propria capitale Civitas Austriae, ossia "Città dell'Austria" (da cui il nome moderno), i longobardi vi eressero edifici imponenti e prestigiosi e nei dintorni fondarono strutture fortificate assegnate alle fare, ossia le stirpi nobili di quel popolo germanico; nel 610 Cividale venne saccheggiata e incendiata dagli Avari, chiamati dal re longobardo Agilulfo (allora con sede a Milano) per punire la riottosità del duca "friulano" Gisulfo II. Nel 737, durante il regno di Liutprando e per sfuggire alle incursioni bizantine, il patriarca di Aquileia Callisto decise di trasferire qui la propria sede, così come già fece il vescovo di Zuglio che venne scacciato dallo stesso Callisto. La città ebbe così aumentato il suo ruolo anche grazie a quest'importante presenza ecclesiastica; già pochi decenni più tardi, nel 796, qui si tenne il concilio che riconfermò l'indissolubilità del matrimonio.
Il sacro Romano Impero e il Patriarcato di Aquileia

Nel 775 il Ducato del Friuli fu invaso dai Carolingi e i longobardi, col loro duca Rotgaudo in testa, impugnarono per l'ultima volta le armi fronteggiando l'arrivo dei Franchi. Sconfitti gli antichi dominatori, i Carolingi istituirono la marca orientale del Friuli, mantenendo come capitale Civitas Austriæ. Quest'ultima divenne sede di un'importante corte, soprattutto durante il marchesato di Eberardo che attirò uomini di cultura da tutt'Europa.
Il 25 maggio dell'anno 825 l'imperatore Lotario I promulga il capitolare di Corteolona che costituì le scuole imperiali, oltre a Pavia capitale del Regno d'Italia, anche Cividale ebbe la scuola pubblica di diritto, di retorica e arti liberali, ereditando la tradizione della scuola di diritto, fondata dall'imperatore romano Teodosio I; dalla sede di Cividale dipendevano tutti gli studenti della Marca del Friuli.
Dalle famiglie che ressero la marca ebbero i natali importanti uomini politici tra cui l'imperatore Berengario, figlio dello stesso Eberardo. Nel X secolo, ossia in epoca ottoniana, la marca friulana venne declassata a contea (o contado) e inserita dapprima nella marca di Verona e quindi in quella di Carinzia (quest'ultima facente dapprima parte del Ducato di Baviera per poi assurgere essa stessa a Ducato). La ricomposizione dei poteri a livello centroeuropeo e norditaliano lasciò un importante spazio ai patriarchi, i quali accrebbero i propri beni e il proprio potere sin dall'inizio del X secolo e nel 1077 divennero liberi feudatari del Sacro Romano Impero su un vasto territorio. Sorse così lo Stato patriarcale durato sino al 1419.
Cividale rimase comunque il massimo centro politico e commerciale di tutto il Friuli, rivaleggiando dal XIII secolo con Udine, la quale era in forte ascesa grazie a una più congeniale posizione geografica, tanto che il patriarca Bertoldo di Andechs-Merania nel 1238 vi trasferì la propria sede. La città vide sorgere monasteri e conventi, palazzi e torri, qui posero residenza le più importanti casate parlamentari del Friuli e ne fiorirono di altrettanto dignitose. nel 1331 Cividale rimane nelle cronache perché furono usate, per la prima volta, le prime armi da fuoco; le cronache parlano di combattimento "con gli sclopi" sul Ponte del Diavolo. Nel 1353 l'imperatore Carlo IV, dopo una sanguinosa vendetta operata da suo fratello il patriarca Nicola di Lussemburgo (1350-58) - e scatenata anche contro i cividalesi per punire l'assassinio del predecessore Bertrando - concedette a Cividale l'apertura dell'Università.
Nel 1301 un terremoto e una violenta grandinata colpirono Cividale ma non si segnalarono danni neppure al Duomo, che invece nel 1348 fu notevolmente rimaneggiato da una violenta scossa, le notizie sono molto scarne e trovano riscontro solo nel sito "storing.ingv.it". Nel 1364, probabilmente l'8 agosto, il Duomo subì ulteriori danni; in questo caso si conosce l'intensità della scossa, che fu di 4,83° scala Richter, ma non si sa se vi furono delle vittime. Il terremoto ebbe come epicentro Lombai nel comune di Grimacco e un'ulteriore conferma la troviamo sul portale dell'Abruzzo.
Le lotte intestine friulane, durante le quali Cividale era spesso alleata dei conti di Gorizia e dei nobili castellani contro Udine, trovarono via via una più serrata intensità sino a concludersi convulsamente nel 1419, quando Venezia si decise a invadere la regione. Cividale si diede per prima alla Serenissima, stipulando una solenne pace e una contestuale alleanza. Nei decenni successivi alcuni nobili progettarono di aprir le porte allo spodestato patriarca Ludovico di Teck, tornato nel 1431 alla testa di 4.000 ungari, ma il progetto fallì.

Le due guerre mondiali
Durante la Prima guerra mondiale, Cividale ospitò il comando della II Armata e rimase danneggiata da bombardamenti aerei; occupata dagli austro-tedeschi in seguito alla disfatta di Caporetto, la città venne riconquistata dagli italiani alla fine di ottobre 1918 dopo la vittoria sul Piave. Negli anni seguenti fu foriera di illustri personalità date al Fascismo. Nel corso della Seconda Guerra mondiale (1943) la città venne annessa con tutto il Friuli al III Reich e qui vennero anche dislocate truppe cosacche e calmucche alleate dei tedeschi.
Sul suo territorio si consumò non solo la guerra civile ma altresì un drammatico episodio di lotta tra partigiani osovani e garibaldini (comunisti e socialisti, agli ordini del IX Korpus jugoslavo): nel Bosco Romagno i Gappisti comunisti uccisero diversi combattenti Osovani (tra cui il fratello di PierPaolo Pasolini) precedentemente catturati alle malghe di Porzûs. Furono diversi gli episodi di scontro tra Osovani e Garibaldini filo-titini. Una situazione ambigua, poiché gli Jugoslavi non nascosero mai il loro desiderio di annettere i territori italiani fino al Tagliamento, in virtù di un'infondata convinzione che il Friuli fosse anticamente abitato da sloveni. Questo provocò una netta contrapposizione tra Osovani e Garibaldini.
Nel secondo dopoguerra, Cividale è stata la sede del comando e di alcuni reparti della Brigata meccanizzata "Isonzo", posta a difesa della frontiera orientale in caso di invasione da parte del patto di Varsavia, dove alcune componenti della Fanteria d'arresto custodivano diverse opere difensive, tra cui la Galleria di Purgessimo. La particolare posizione in tale contesto storico e geopolitico portò alla presenza in zona dell'Organizzazione Gladio, - articolazione nazionale della Stay Behind della NATO - a cui aderirono principalmente alpini ed ex alpini addestrati ad organizzare una resistenza armata sul territorio in caso di invasione sovietica. La Città e il territorio subirono alcuni danni nel terremoto del 1976, ma le ferite vennero presto rimarginate.
A Cividale del Friuli, accanto alla lingua italiana, la popolazione utilizza la lingua friulana. Ai sensi della Deliberazione n. 2680 del 3 agosto 2001 della Giunta della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, il Comune è inserito nell'ambito territoriale di tutela della lingua friulana ai fini della applicazione della legge 482/99, della legge regionale 15/96 e della legge regionale 29/2007.
La lingua friulana che si parla a Cividale del Friuli rientra fra le varianti appartenenti al friulano centro orientale .
Tradizioni e folclore
Cucina
La cucina cividalese è tipica della valle del Natisone e del Friuli orientale. Particolarmente importanti i vini, i formaggi e la pasticceria: la Gubana, un tipico dolce delle valli del Natisone, a base di pasta dolce lievitata con un ripieno di nociuvettapinolizucchero, scorza grattugiata di limone, dalla forma a spirale e cotto al forno, le gubanette, simili alla gubana ma più piccole, e gli strucchi, pasta dolce fritta o lessa ripiena con uvetta, pinoli, noci e nocciole.
Cividale è la città capofila del progetto Longobardi in Italia: i luoghi del potere (568-774 d.C.), inserito nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel giugno 2011 ed è membro associato del progetto europeo a guida italiana EUHeritage-TOUR; a Cividale fa parte del sito seriale l'area della Gastaldaga con il Tempietto longobardo e il Complesso episcopale, che include i resti del Palazzo patriarcale sottostanti al Museo archeologico nazionale.
da wikipedia

IRENE DA SPILIMBERGO pittrice friulana



Gli esempi luminosi di chi nel corso di una vita più o meno lunga ha lasciato onorevole ricordo di sè non possono essere eclissati nè dal tempo nè dalle umane vicende.
E il nome di Irene da Spilimbergo, alla quale è dedicato l’Istituto Magistrale di San Pietro al Natisone, è ancor oggi una fiaccola che può illuminare il cammino a quanti si accingono a percorrere le vie del sapere.
Poche le memorie rimaste di lei, ma tali che lasciano perplessi e fanno pensare quali mete Irene avrebbe raggiunto se la sua vita si fosse protratta più a lungo nel tempo.Nacque a Spilimbergo nel 1541, secondogenita del Conte Adriano da Spilimbergo e della nobile patrizia veneta Giulia Da Ponte.Il Conte Adriano, perfetto conoscitore delle lingue ebraica, greca e latina, “letteratissimo così nelle lingue come nelle scienze” le diede la prima educazione e rilevò ben presto la precocità intellettuale di Irene. La quale assimilava con tanta rapidità quanto le veniva insegnato da destare l’ammirazione di quanti l’avvicinavano, della stessa regina Bona di Polonia, che di passaggio per il Friuli fu ospite dei Conti Spilimbergo e fece dono ad Irene di due catene d’oro, e dello zio Giovan Paolo Da Ponte, gentiluomo di rare qualità.
Il padre di Irene morì quando la fanciulla non aveva ancora raggiunti i dieci anni, e la madre, dopo il periodo di lutto, passò a seconde nozze.
Giovan Paolo Da Ponte volle Irene presso di sè e la fanciulla, poco più che decenne, fece il suo ingresso nella nobile famiglia dei Da Ponte, una delle più illustri case di Venezia, che potè vantare anche un doge, Nicolò Da Ponte.
Le preclari qualità della fanciulla qui ebbero modo di svilupparsi e concretarsi.
Fu educata alle lettere, alla musica e al ricamo fra i dotti conversari e le fini maniere delle patrizie Olimpia Malipiero, Foscarina Venier e Adriana Contarini; alla serietà degli studi fra le dissertazioni letterarie di Eaisabetta Quirini e Pietro Bembo; al culto del bello dalla famigliarità di vita con Tiziano Vecellio e Sansovino.
Si dedicò allo studio dei migliori scrittori italiani dal Petrarca al Bembo con una tenacia insolita in una età ancora tanto giovane; e lo studio assiduo nell’età dell’immaginazione e dell’entusiasmo le fecondò la mente e il senso del bello. Le dotte conversazioni, alle quali sempre partecipava più per ascoltare che per parlare, accrebbero il tesoro delle sue cognizioni tanto che cominciò ben presto ad attrarre l’attenzione degli illustri frequentatori di casa Da Ponte.
Un’aureola di stupore e di ammirazione la circondò ben presto, nella luce della quale Irene si moveva ed appariva quasi un essere destinato a grandi cose fin da giovane. Modesta nel portamento, anche nella ricchezza dell’abbigliamento che curava in modo particolare ricamando su preziose sete o su candidi lini figurazioni e allegorie con raro senso artistico, graziosa e delicata, squisita esecutrice di musica classica all’arpa e alla viola, divenne come una meteora luminosa sulla quale si appuntarono gli sguardi dei più celebri maestri delle lettere, delle scienze e dell’arte.
E verso Irene, con le mature patrizie, cominciò ad accorrere anche la gioventù veneziana quasi in una gara di spirito e di eleganza per ottenere in cambio una parola, un sorriso o almeno uno sguardo. Irene però, con la finezza propria dell’educazione e del sentimento, fece presto intendere di sentirsi portata unicamente verso i valori dello spirito di fronte ai quali tutto ciò che è solamente terreno impallidisce e muore.
Gli anni trascorsi nel vecchio castello di Spilimbergo, nella contemplazione delle bellezze della natura, del dolce paesaggio che dalle sponde del Tagliamento va mollemente elevandosi fino alle verdi colline per perdersi nella maestosità delle Alpi Carniche, avevano lasciato nel suo cuore un nostalgico desiderio di qualche cosa che potesse far rivivere il mondo interiore che si agitava in lei.
L’incanto dalla laguna, il mare sconfinato, la festa di colori, di cui Venezia è sempre accesa, avevano trasformato il desiderio in volontà.
A Spilimbergo aveva imparato ancor fanciulla il disegno da una certa Gampaspe che frequentava il castello; a Venezia, attratta nell’orbita del grande Tiziano, volle diventare sua allieva. E Tiziano, quantunque spesso astioso e insofferente di aver accanto allievi o imitatori, l’accettò di buon grado…, “e: non era poco per lei l’addivenire allieva di colui che fra i pittori era chiamato maestro universale”.
Una base comune unì maestro e allieva fin dall’inizio: l’amore per la natura, per quella natura che è incomparabilmente superiore a qualsiasi tecnica pittorica e che sola può essere ispiratrice de bello.
Tiziano guidò amorevolmente per un anno la giovane, incoraggiando e correggendo con paternità e con severità, additandole come modello da imitare quel Giovanni Bellini che era stato suo maestro e che aveva saputo trasfondere tanta grazia sovrumana nelle sue Madonne.
Tiziano si preoccupò di instillare in Irene quel senso del bello che deriva dall’armonia dei colori e dall’equilibrio tra il semplice e il vero.
Irene sentì nella persona e nell’arte del maestro qualche cosa che trascendeva le più elette capacità e fece meta dei suoi pellegrinaggi quasi quotidiani l’Assunta che già sfolgorava nella Chiesa dei Frari.
La contemplazione e la meditazione di quel gioiello inestimabile furono la sua scuola migliore.
Volle allora cimentarsi con la tavolozza. Rimangono di lei tre quadretti che nella armoniosa fusione delle tinte, delle luci, della composizione possono considerarsi una felicissima prova della versatilità e dell’intuizione dello spirito di Irene.
I tre quadri, portati alla luce dal conte Fabio di Maniago e raffiguranti rispettivamente “Noè che entra nell’Arca”, il “Diluvio Universale”, la “Fuga in Egitto”, furono da Irene composti all’età di 18 anni, dopo un anno cioè di studio assiduo sotto la guida del suo illustre maestro, spinta da un profondo senso di emulazione per una sua amica, allieva del cremonese Bernardo Campi, Sofonisba Anguissiola che pur giovane già godeva di fama meritata.
Oltre la pittura storico-biblica sembra, a dire di un anonimo poeta suo contemporaneo, che Irene abbia imparato da Tiziano anche l’arte del ritratto.
Così infatti si esprime l’anonimo:
Dal divin Tiziano ed immortale
l’arte imparò già di ritrar altrui
Irene che poi mai ebbe uguale.
Irene fu anche scrittrice. Poesie da lei composte erano possedute dal conte Bastiano Mistruzzi, e alcune prose e orazioni dal cancelliere dei Conti di Spilimbergo, Francesco Stella; ma tutti questi saggi letterari andarono perduti.
L’attività di questa fanciulla ebbe qualcosa di prodigioso; ma sembra che la natura non voglia mai venir meno alla sua legge sulla graduale e lenta evoluzione dell’intelligenza umana. Lo studio, le veglie, le fatiche avevano già minato la salute di Irene. A nulla valsero le esortazioni amorevoli; i consigli, l’affetto, i rimproveri di chi l’amava e le stava accanto.
L’ansia e il tormento di non poter raggiungere la meta prefissasi erano diventati quasi una seconda natura che per poco tempo valse a sostenere la fragilità del suo corpo.
Aveva appena 18 anni quando una febbre ardentissima l’assalì, accompagnata da acutissimi dolori alla testa.
Per 22 giorni si dibattè tra la vita e la morte e poi reclinò il capo come un fiore troppo bello per restare più a lungo sui giardini della terra.
Il trapasso, anche nel tormento del male, fu sereno e cristianissimo come era stata la sua vita.
Era il 1559.
La notizia della sua morte si sparse rapidamente.
E fu un accorrere angoscioso di artisti e di letterati, e fu una gara di lodi e di omaggi alle doti di mente e di cuore di Irene.
Tiziano che l’aveva avuta allieva prediletta, che l’aveva amata come un padre, la volle immortalare in un quadro dove splendore, bellezza e compostezza si fondono mirabilmente.
Il quadro era posseduto dal Conte Giulio di Spilimbergo e custodito nella sua casa di Dernanins a Maniago.
Successivamente fu portato in casa dei Conti Maniago a Maniago.
Torquato Tasso, che era legato ad Irene oltre che dalla stima da un vincolo di parentela, avendo Lucia Tasso, sorella naturale di Bernardi, sposato il Conte Alessandro di Spilimbergo, si inchinò commosso davanti alla morte della promettente fanciulla e venne a confondere “il proprio pianto al pianto universale per la cruda morte di Irene: di questa Beatrice della pittura e del femminino friulano”.
Volle anche, dopo aver visto il quadro del Tiziano, rievocarla in pochi versi:
Quai leggiadri pensier, quai sante voglie
dovea viva destar ne l’altrui menti
questa del Gran Motor gradita figlia!
Poi c’hor dipinta (o nobil meraviglia)
e di cure d’honor calde ed ardenti
e d’honesti desir par che ne invoglie.
Tre secoli più tardi il poeta Luigi Carrer nel suo “Anello di 7 gemme o Venezia e la sua storia” pose Irene da Spilimbergo ira le sette donne che diedero luce e gloria senza pari alla Serenissima che con l’iniquo trattato di Campoformido cessava per sempre di esistere.
E il Prati ancora, osservando un dipinto nel vecchio castello di Spilimbergo, volgeva un pensiero reverente all’autore Giovanni da Udine, che…
del merlato Spilimbergo intorno
udia sull’aura reverenti i nomi
di Vecellio e di Irene, ambo immortali.
Più recentemente il nome di Irene di Spilimbergo fu posto ancora una volta in luce.
Un trafiletto de “La Patria del Friuli” del 12 settembre 1907 riportava un desiderio espresso da Pietro Mascagni di avere un libretto da musicare, disposto per questo a pagare qualsiasi somma.
La scrittrice viennese Tosa Will, nota maggiormente sotto il pseudonimo di Wilda, compose un libretto in un prologo e 2 atti dal titolo “Irene da Spilimbergo”.
Il manoscritto fu dal Mascagni ricevuto e fatto tradurre, ma poi, non si sa come, andò perduto.
Per questo motivo l’autrice che non ne possedeva un altro esemplare, sporse querela contro l’insigne musicista italiano.
Per una fatalità quindi ci è venuta forse a mancare un’opera che avrebbe certamente divulgato ancor di più il nome e le virtù di questa meravigliosa figlia del Friuli.
Lungo sarebbe ricordare anche soltanto i nomi di tutti coloro che dal tempo della morte di Irene ad oggi vollero in qualche modo celebrarla e glorificarla.
Credo tuttavia che il profilo di Irene, quale appare dalle poche e frammentarie notizie raccolte, sia sufficientemente delineato per mostrare quanto degnamente il suo nome possa stare sulla facciata del glorioso Istituto Magistrale di San Pietro al Natisone fondato da 130 anni ormai.
Questa volitiva fanciulla è guida delle giovani menti che si accingono a percorrere le dilettevoli, se pur aspre, vie del sapere…, possa la sua luce illuminare le intelligenze e il suo calore accendere nei cuori quelle fiamme che solo nell’amore della terra natale, del buono e del bello trovano un’esca che le rende inestinguibili.
Ringrazio Loris per aver concesso la pubblicazione.

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