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🌞Blog che parla del Friuli: in particolare delle minoranze linguistiche slovena,friulana e tedesca e non solo. ❤️ Sono figlia di madre slovena (Ljubljana) e di padre appartenente alla minoranza slovena della provincia di Udine🌞 (Benecia).Conosco abbastanza bene la lingua slovena.Sono orgogliosa delle mie origini.OLga

INNO SLOVENO

INNO SLOVENO "Vivano tutti i popoli che anelano al giorno in cui la discordia verrà sradicata dal mondo ed in cui ogni nostro connazionale sarà libero, ed in cui il vicino non sarà un diavolo, ma un amico!"❤️ FRANCE PREŠEREN poeta sloveno

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8 nov 2021

Un impiegato che sa lo sloveno-Uslužbenec, ki govori slovensko


Il Comune di San Pietro al Natisone, in base alla Concertazione Regione-Autonomie locali 2021-2023, ha ottenuto 335.000 euro per la manutenzione straordinaria per la sostituzione di serramenti della scuola elementare. È stato avviato il procedimento con incarico per la progettazione – una volta approvato il progetto si potrà dare avvio ai lavori.

L’amministrazione comunale ha concluso le procedure per l’assunzione di un istruttore amministrativo con conoscenza della lingua slovena, pertanto l’ente avrà a disposizione un’importante figura professionale. Le prove di esame sono state concluse da 5 candidati che, pertanto, rimarranno in graduatoria. (a cura di F. C.)

Občina Špietar je na podlagi Pogajanja med Deželo Furlanijo-Julijsko krajino in Krajevnimi samoupravami 2021-2023 prejela 335.000 evrov, s katerimi bo zamenjala okna in vrata v poslopju osnovne šole. Postopek za načrtovanje potrebnih posegov je že stekel.

Občinska uprava je tudi zaključila postopek za zaposlitev upravnega uradnika z znanjem slovenskega jezika. Postopek je uspešno zaključilo pet kandidatov, ki bodo naprej na dokončni lestvici.

https://www.dom.it/usluzbenec-ki-govori-slovensko_un-impiegato-che-sa-lo-sloveno/

proverbio in friulano


 Il proverbio friulano della settimana

di Vita nei campi
“Quant’ che i corvas a’ van in grum, ploe tanta ch’a ai’ ‘n voul” ovvero quando i corvi si radunano a frotte pioggia quanta se ne vuole.

5 nov 2021

IL FRICO

 

Angelo Floramo

La civiltà del frico

di Angelo Floramo
L’alchimia che si nasconde nella pasta del frico, piatto assurto a simbolo della friulanità assieme alla polente, è semplice ma il rito richiede un’attenzione che non lascia nulla al caso: il primo segreto sta nella scelta dei formaggi da grattugiare. Anzi, da grattare, questo è il termine giusto, altrimenti si perde in sapore. Ne serve uno vecchio, di malga, che abbia almeno dodici mesi di stagionatura, affinato nell’ombra freschissima di un “camarin”, su mensola in legno e finestrella mai chiusa, aperta alle spalle del bosco. Pasta dura, scagliosa, da vescicole che accendono la bocca e vanno spente da sorsi ruscellanti tra i denti, a sopirne quel fuoco. Poi una via di mezzo, un sei mesi di latteria, messo in forma da mano sapiente di un bravo casaro. Un formaggio sociale, orgoglioso dell’anima comunarda, confluita nel grande calderone di rame dalle poche stalle che ancora sopravvivono nei borghi del paese: una o due vacche, ma di tetta generosa, capaci di una linfa giallognola, densa e pannosa, che sa di fieno e di docile pastura. L’imperativo è sempre quello: grattare, furiosamente, fino a quando le dita sfiorano ormai la crosta sbocconcellata, con grave periglio del grattugiatore. Quello che resta si sminuzza a colpi ben assestati di coltello, anzi “cortello”, che detto così taglia di più. Ma non basta ancora: l’impasto ha bisogno di gioventù, che per quanto insipida e ribelle darà al piatto quella morbidezza che rassicura il boccone: sono le “crodie”, le strisce ribelli allo stampo della forma, quelle che ci davano quando eravamo bambini e in latteria ci si andava a piedi, chi per portare il latte chi per raccoglierlo nelle bottiglie di vetro. Ma questa è protostoria. Il frico è lì, a suggerire qualcosa di più. Poi bisogna chiedere all’orto il profumo della cipolla e la terrosità della patata. Il Mediterraneo che ha respiro più mite parteciperà con l’olio d’oliva, che in alcune delle nostre borgate si spreme ancora a freddo, come secoli fa, su frantoio di pietra. Friabile o tenero, pastoso o a “frucions”: questo dipende dal gusto di chi ne fa ordinazione. Se in città lo gustano in piedi, con ribolla ghiacciata, è cosa buona e giusta anche affogarlo nel Cabernet. Respirando la storia imbandita nel piatto.
DA FB

Il frico è un piatto a base di formaggio, ma anche di patate e burro, considerato la preparazione culinaria più tipica del Friuli, più precisamente della Carnia e della cucina friulana.
L'origine di questo piatto tipico friuliano è antichissima. È stato descritto per la prima volta, con il nome di "Caso in patellecte" dal maestro Martino da Como, cuoco del Patriarca di Aquileia Lodovico Trevisan, nella sua opera "De Arte Coquinaria" verso la metà del XV secolo.
Si tratta di formaggio cotto in padella con burro o lardo. Si presenta in due versioni: friabile o morbido.
Entrambi si possono servire sia come antipasto che come secondo. Sebbene oggi il frico sia visto come un piatto festivo, in origine la sua preparazione era finalizzata al recupero di scarti di formaggio (strissulis).
Il frico friabile o croccante è molto sottile ed è fatto di solo formaggio (generalmente Montasio) che viene fritto in olio bollente. Facile da sagomare è ottimo per delle terrine di funghi o fonduta di Montasio. Può essere servito anche come snack.
Frico
Il frico morbido si prepara con del formaggio di diversa stagionatura, patateburro o olio e sale, si presenta come una grossa frittata. Altre versioni prevedono l'uso della cipolla, o in alternativa mele, zucca, erbe aromatiche , può essere arricchito con dell'aggiunta di porro o dello speck. Entrambe le tipologie sono abitualmente servite con della polenta.
frico duro
http://it.wikipedia.org/wiki/Frico

Curiosità

Il frico è offerto in quasi tutte le sagre friulane, l'Alta Val Torre-Terska dolina è la patria del frico..
Tradizionalmente il frico croccante con la polenta fredda è il pasto tipico dei boscaioli, ideale per il lavoro duro nelle fredde montagne alpine.

AUTUNNO di David Maria Turoldo

 

Autunno, stagione mia


DAVID MARIA TUROLDO

AUTUNNO

Autunno, stagione mia,
ambita, invocata;
mio autunno senza foglie!…
I volti di pietra muti,
le strade nere di catrame,
gli uomini senza i colori
dell’estate sotto le cortecce del bosco;
cittadini senza stagioni
stranieri nelle proprie case!
E i mattini e le sere
salutate dai clacson;
e le vie nella notte,
meretrici inghirlandate.

Autunno, tempo di viandante
senza casa, tempo
della mia solitudine!
Un cerchio dalla periferia
presto si dovrà stringere
su tutta la città; il primo
filo di nebbia anonima, invitta.
E nel cuore del bimbo
il brivido di una vita
che presto maledirà.

(da Udii una voce, Mondadori, 1952)

.

È l’autunno la stagione di David Maria Turoldo, questo autunno cittadino che si spoglia delle foglie e trasforma la città in un grigio labirinto d’asfalto e di nebbia dove le automobili scivolano “su vie bagnate dalla pioggia d’autunno / uguali al guizzo di una serpe / in cerca di una tana”. Come chiosa Luciano Erba, “è il sottile momento della seduzione del Nulla, dentro uno struggente richiamo di colori autunnali, novembrino, tipico, si direbbe, di qualsiasi poesia giovanile; senonché si annuncia qualcosa di più del solito dolce naufragare, molto di più: si profila una disincantata e diretta percezione del Tutto e del suo contrario”. Il poeta altri non è che un “poverello, cariatide / incosciente, immensa / sotto il monumentale pronao del tempio”.



FOTOGRAFIA DI TAZIO SECCHIAROLI

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LA FRASE DEL GIORNO
Non per me il pulito verso. / Uno scabro sasso la parola / nelle mie mani.
DAVID MARIA TUROLDO, Udii una voce




David Maria Turoldo, al secolo Giuseppe Turoldo (Coderno, 22 novembre 1916 – Milano, 6 febbraio 1992), presbitero, teologo, filosofo, scrittore e poeta italiano, membro dell'Ordine dei servi di Maria. Fu sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso della Chiesa, di ispirazione conciliare.


Ultima rosa

foto di Elvia Franco

 Cogli la rosa quando è il momento,

ché il tempo lo sai che vola…
e lo stesso fiore che oggi sboccia
domani appassirà.
(Walt Whitman)

4 nov 2021

Il Ponte del Diavolo di Cividale

Il Ponte del Diavolo Una storia sulla leggenda del ponte del Diavolo, nel Comune di Cividale del Friuli. Testo di Mariaelena Porzio In un tempo lontanissimo che nessuno ricorda più, il fiume Natisone divideva Cividale del Friuli in due. C’era chi abitava su una sponda e chi sull’altra. Ci si salutava dalle finestre, il profumo del pane sfornato di qua si sentiva anche di là e il suono delle campane arrivava ovunque. Ma per incontrarsi bisognava attraversare il fiume e questo era un vero problema. «La mia fidanzata vive sull’altra sponda, mi tocca camminare ore e ore per andare da lei!» diceva l’innamorato. «Anche i miei campi stanno di là! Per andare a lavorare la terra devo alzarmi alle quattro. Dormo troppo poco!» diceva il contadino. Un piccolo diavolo, sempre con l’orecchio pronto ad ascoltare le lamentele della gente, un giorno fece una proposta alla popolazione. «Costruirò io il ponte e lo farò in una sola notte. Ma in cambio mi mangerò a colazione il primo essere vivente che ci passerà sopra. Ah! Ah! Ah!» I cividalesi si riunirono per decidere, ma la discussione durò poco: c’era troppo bisogno di quel ponte, così accettarono. Quella notte, però, il piccolo diavolo andò dalla sua mamma lamentandosi come un bambino. «Uffa! Se non mi aiuti a costruire il ponte, non ce la farò mai e resterò a pancia vuota!» La diavolessa, come tutte le mamme del mondo, non seppe dire di no. «Tranquillo, demonietto mio, ho un’idea. Metterò in mezzo al fiume una pietra enorme, così tu potrai lavorare più velocemente!» Detto, fatto. Sistemata la pietra, il piccolo diavolo si mise al lavoro e la mattina successiva il ponte era bello che pronto. «Adesso dovete pagarmi! Forza, qualcuno attraversi il ponte e venga qui da me, che me lo mangio in un boccone!» gridava il piccolo diavolo, con la bocca spalancata.

Un nuovo senso alla frontiera nell’installazione di Osgnach a Tribil Superiore

 





“Non dobbiamo dimenticare quello che è stata la frontiera in passato. Guardando come la natura opera, si deve far diventare la frontiera positiva. Come luogo di pacifico confronto, scambio, conoscenza, evoluzione, creazione di realtà nuove. Il passato ci insegna a fare un nuovo migliore”.
Con questa nota Gianni Osgnach ha accompagnato l’inaugurazione della sua installazione permanente collocata a Klopce, poche decine di metri sopra Tribil Superiore, dove si tenevano i festeggiamenti del Burnjak lo scorso 17 ottobre. L’inaugurazione è stato il momento conclusivo del festival Ikarus.
Osgnach, originario di Osgnetto (San Leonardo) dopo una vita trascorsa lontano da designer e quindi affermandosi come artista, vive ora a Gnidovizza (Stregna).
“Un’installazione permanente che racchiude tutto il significato di Ikarus”, l’ha definita Ivan Ciccone dell’Skgz, organizzazione della comunità linguistica slovena in Italia e partner del progetto del festival.
Un oggetto in acciaio con due parti che si confrontano con i piani diversamente inclinati, schiacciati sul lato più lungo fino ad essere corrugati e posizionati in modo da avere le due parti schiacciate vicine, che quasi si compenetrano.
“Può essere la rappresentazione della frontiera”, scrive Osgnach. La frontiera che oggi è la Green Belt, una fascia verde che percorre i territori un tempo a ridosso della cortina di ferro e che è stata proprio il filo conduttore del festival. L’elemento della natura, rappresentato nell’installazione di Osgnach da quattro travi di castagno che in parte si affiancano incontrandosi, diventa determinante per la fruizione stessa dell’installazione. Klopce è un piccolo rilievo, contornato dai resti delle trincee della Grande Guerra ancora ben visibili in cui l’erba ricopre le cicatrici di quel conflitto. In un paesaggio tutto intorno che spazia dalle Prealpi Giulie al mare.
“Purtroppo queste valli – ha affermato Ciccone – sono state teatro di grandi conflitti. Oggi sono invece confronti culturali. Proprio qui il clima meditterraneo si incontra con il clima continentale dando forma a una commistione unica”.
Proprio la valorizzazione della cultura, della storia e del paesaggio di questa parte della fascia confinaria è stato uno degli obiettivi – raggiunti – da Ikarus che, sempre con le parole di Ciccone, “è stato ideato per promuovere le specificità del territorio, le tradizioni, le attività produttive, le professionalità e le bellezze naturali. Un lavoro di squadra, coordinato dal Comune di Stregna, che ha coinvolto oltre 50 partner e patrocini tra Comuni, organizzazioni no profit, imprese, associazioni e aziende agricole. Ikarus è un’iniziativa multiculturale che spazia tra arte e natura, tradizione e storia. È plurilingue, esattamente come la terra che racconta: tutti i materiali di Ikarus, infatti, sono stati tradotti nelle tre lingue della Green Belt, italiano sloveno e friulano.”https://novimatajur.it/cultura/un-nuovo-senso-alla-frontiera-nellinstallazione-di-osgnach-a-tribil-superiore.html

Ivan Trinko

"O ti zemlja rodna, zemlja bedna, ki te milost božja, meni v last je dala" (I. Trinko) "O terra natia, terra misera, piccola, che la grazia divina, mi ha donato" (traduzione)

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MAGGIOLATA DI GIOSUè CARDUCCI

  Maggio risveglia i nidi, maggio risveglia i cuori; porta le ortiche e i fiori, i serpi e l’usignol. Schiamazzano i fanciulli in terra, e i...

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