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9 lug 2021

NOVA GORICA, PRIMA CITTÀ SOCIALISTA, COSTRUITA DAL NULLA DA MIGLIAIA DI GIOVANI JUGOSLAVI, AD ESSERE CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA

 


Nova Gorica è la prima città di origine socialista ad essere capitale europea della cultura. Una città nata dal nulla grazie al contributo di migliaia di giovani jugoslavi, come riconosce anche la CIA in un suo documenti del 1949 dove analizza succintamente la nascita della città, destinata ad avere entro il 1951 30 mila abitanti. In realtà come sappiamo il centro urbano di Nova Gorica non andrà oltre i 12 mila abitanti invece raggiungerà una popolazione di circa 30 mila abitanti. La prima pietra venne posta il 13 giugno del 1948, e fu resa possibile grazie al Comitato speciale presieduto dal Ministro Ivan Maček. Il progetto fu elaborato dall’architetto e urbanista Edo Ravnikar. Architetto che conobbe le violenze del fascismo italiano,  venne rinchiuso nelle carceri di Capodistria, dell'Ucciardone di Palermo e di Anghiari. 
 

Città costruita dai giovani, dalle  brigate lavorative della gioventù provenienti da tutta la Jugoslavia secondo il modello sovietico. Come i famosi  sei isolati per abitazioni, noti come Blocchi russi. Una città partigiana, una città socialista,  una città che brillerà oltre il confine, si disse allora, ed oggi è la prima città ad essere stata costruita da partigiani, da comunisti, a diventare capitale europea della cultura. Certo, di comunista e socialista son rimaste solo le pietre probabilmente e la sua storia che nessun revisionismo d'oltre confine o interno potrà mai cancellare.
 
mb

2 commenti:

  1. Il mio cervello deve avere molti Giga per tornare tranquillamente nel passato. E’ grande la memoria visiva, anche quella olfattiva, sento i profumi dei prati. Ma quello che mi fa venire i brividi è la bora di Trieste, quando ero aggrappato alle corde che sono sulle strade. Il canale, solitamente torbido e immobile, quel giorno fremeva e scintillava. Il vento correva sull’acqua verde disegnando chiazze e strisce, mutevoli e cangianti, ora chiare, ora scure, che si spostavano imprevedibilmente da tutte le parti.
    L’azzurro del cielo era assoluto. Assoluta la trasparenza. Assoluta la luminosità. Davanti i Frari, la facciata grandissima dei Frari, e, alla mia destra, la cima dell’antico cedro, strattonata dalla bora, che spuntava da chissà dove, forse da un chiostro misterioso, forse da un giardino dell’Archivio di Stato.
    I mattoni della chiesa e le pietre, del ponte, del campo e della salizada, immote da sempre, sembravano aver preso vita, pareva che il tumulto d’aria di quella strana giornata le facesse vibrare. Che la gelida gloria di luce di quella chiarissima mattina le rendesse capaci di splendere.
    Avevo sentito dire che la bora nasce in una steppa lontana dei Magiari, la Puszta, che corre tra montagne nevose dell’Austria e della Slovenia, cime misteriose, Kranjska Gora, Triglav, Stol, che poi scende come un demonio a Trieste, che passa come un branco di lupi sopra l’Adriatico, per venire infine a morire a Venezia, dopo aver menato i suoi ultimi, fieri colpi sulla laguna e tra le calli.
    Me ne ricordai, e provai la strana, eccitante sensazione che quel vento favoloso e adirato collegasse tutto, Puszta e campo dei Frari, nevi della Kranjska Gora e acqua dei canali, pini dell’Austria e cedro segreto a destra della chiesa. Era come se tutto il mondo fosse lì, portato dal vento, oppure unito dal vento.
    Vidi un mondo incredibile. Davanti, enorme, il Grappa innevato, vicinissimo da distinguerne i paesi e le valli che scendevano giù, netto nell’azzurro dell’aria tersa. A destra, molto più lontano, tuttavia chiarissimo, il Monte Cavallo, alto e massiccio.
    La laguna, che sembrava piccola, tanto precisi ne apparivano i contorni di solito sfumati nella foschia. La laguna, che sembrava un gran mare in tempesta, striata di schiuma, sconvolta dalla bora, percorsa da refoli che correvano disordinatamente sull’acqua.
    Notai un grosso topo a motore, stracarico, quasi affondato sotto il suo peso, che avanzava faticosamente verso Mestre sollevando con la prua alti spruzzi subito catturati e dispersi dal vento furioso. Una roba da film di pirati, sopra la barca due uomini in pesanti impermeabili neri da navigazione, dritti e immobili, fieri e sprezzanti nella loro sfida all’aria e agli schizzi gelati. Mi venne in mente una successione disordinata e rapidissima di immagini incoerenti. Monte Grappa e le roccette dove andava ad allenarsi nella dura pratica dell’arrampicata in compagnia di Prearo.
    Monte Cavallo e i furlani, un po’ temuti, un po’ disprezzati, un po’ ammirati. I furlani che, si sa, costruiscono la propria casa con le proprie mani. I furlani e la loro strana lingua, il ladino, incomprensibile, esotico, strambo. La Müdada, romanzo di Cla Biert. I furlani e la graspa. Il vento e la vela. Lui nella tempesta che reggeva con mano ferma il timone della barca tra enormi ondate navigando verso chissà dove. E ancora Trieste con le corde tese lungo i marciapiedi per non svolare via, i Magiari, la Puszta, le montagne nevose dell’Austria e della Slovenia, la Kranjska Gora, il Triglav e tutto il resto.
    E di nuovo la strana, eccitante sensazione che fosse il vento a portare tutte quelle cose, a metterle insieme. Il vento fatato che spazzava via la bruma torbida, faceva spazio alla luce e metteva insieme tutto il mondo.

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