30 giu 2021

Udine - Raccontami la tua città

Udin in friulano, Weiden in tedesco, Videm in sloveno.
E' la città dove ho vissuto fino ai 30anni.Un tempo era il capoluogo del Friuli Venezia Giulia,poi lo è diventataTrieste.I suoi abitanti si chiamano udinesi.
Utinum in latino medievale è un comune del Friuli Venezia Giulia di 99.206 abitanti è ritenuta la capitale storica del Friuli.
La città si trova al centro della regione storica friulana.Dista ,in linea d'aria, a circa 20 km dalla Slovenija e circa 54 dall'Austria.Sorge in alta pianura intorno al colle del castello costruito,secondo la leggenda,da Attila per ammirare l'incendio di Aquileia.In realtà l'origine della collina del castello è di natura morenica.Udine è abitata fin dal Neolitico,epoca a cui risalgono un Castelliere che si trovava attorno al colle del castello circa 3500 anni fa.La città aumentò la sua importanza per la decadenza di Aquileia e Cividale.Fu citata la prima volta nei documenti in occasione della donazione del castello da parte dell'imperatore Ottone II nel 983  con il nome di Udene ,dal 1222 diventò una delle residenze dai Patriarchi di Aquileia,

buon mercoledì

 

foto di EDOARDO CASALI

Dorina Michelutti




Udine 1952 - Oman 2009
 «Navigando verso il Canada. Mi afferri mentre scivolo tra le braccia dell’Atlantico, troppo giovane per sapere che l’oceano è pagano.»

(Sailing for Canada. You grab me as I slip overboard into the arms of the Atlantic, too young to know the ocean is pagan)

Brother, 1986

Nel variegato panorama della scrittura italo-canadese spiccano voci che raccontano l’esperienza della migrazione oltreoceano in maniera originale e polifonica. È il caso di Dorina Michelutti, poetessa, saggista e insegnante di scrittura conosciuta anche con lo pseudonimo friulano di Dôre Michelut.
Nata a Sella di Rivignano, in Friuli, Michelutti trascorre i primi anni della sua infanzia in un ambiente segnato da una forte identità linguistica e culturale. Per Dorina, in questi anni, il friulano rappresenta la lingua madre, quella che per sempre raffigurerà i legami con la terra natia. Nel 1958, la famiglia Michelutti emigra a North York (Toronto) in Canada, il paese che da quel giorno la scrittrice imparerà  a chiamare casa. Nella vita quotidiana, l’inglese prende il posto del friulano, lingua che rimarrà riservata alle vicende familiari all’interno delle mura domestiche. Michelutti si trasferisce in Italia nel 1973 per frequentare l’Università  di Firenze, spinta dal desiderio di riallacciare i rapporti con l’italiano e l’Italia, una lingua e un paese che sente distanti, ma che al contempo rappresentano una parte del proprio bagaglio identitario. Dorina ritorna nuovamente a Toronto nel 1981 per studiare alla University of Toronto. È durante questo periodo che comincia a dedicarsi alla scrittura e pubblica le prime poesie in riviste letterarie, iniziando a rendersi conto di come, analogamente ad altre voci migranti, la sua identità letteraria è molteplice e frammentaria. Nella scrittura, Michelutti scende a patti con le sue molteplici lingue madri (mi riferisco qui al titolo di un saggio pubblicato dalla stessa scrittrice nel 1989 Coming to terms with the mother tongues dedicato alla difficoltà  del vivere una vita multilingue e al ruolo dello scrittore migrante come traduttore di culture): il friulano, l’inglese e l’italiano. Le lingue si avvicinano, si sfiorano, ma non si sovrappongono. La scrittura diventa il luogo della scoperta, non solo dei confini linguistici e dalla creatività  che può derivarne, ma anche di se stessi: «Then I started to write, in any language and despite all grammars. It would have been unintelligible to most, but as far as I was concerned, I was producing meaning, and on my own terms. And the view I got of myself from the page was that of two different sets of cards shuffled together, each deck playing its own game with its own rules». 1.
Le raccolte di poesie che scaturiscono da questa esperienza, Loyalty to the Hunt (1986) e Ouroboros: The Book that Ate Me (1990), rappresentano per l’appunto la rottura delle frontiere linguistiche: le liriche contenute all’interno di queste antologie alternano inglese, italiano e francese, a volte affiancando le tre sulla stessa pagina. La scrittrice crea una polifonia linguistica multiforme – i lavori spesso abbattono le distinzioni tra generi – originata da un’operazione di autotraduzione viscerale (o cannibalistica, come suggerirebbe il titolo della seconda raccolta) nell’intento di riconciliare le diverse parti della sua vita e i contrasti tra le sue molteplici personalità  linguistiche e culturali. Le poesie sono, infatti, incentrate attorno ai temi dell’identità  frammentata (linguisticamente e culturalmente), della famiglia – la madre soprattutto – e del viaggio. L’eclettismo di Dorina si riconferma nell’antologia Linked Alive (1990): una raccolta di renga, genere poetico collaborativo di origine giapponese in cui diversi autori si avvicendano nella stesura dei versi, composta con la partecipazione, tra gli altri, della scrittrice quebecchese Anne-Marie Alonzo, della poetessa giamaicana Ayanna Black e della scrittrice indigena anglofona Lee Maracle. Nel 1993, Michelutti cura la raccolta e la pubblicazione di A Furlan Harvest interamente dedicata alle scrittrici friulane in Canada nata da una serie di incontri letterari, tenutisi al centro dedicato alla promozione delle origini e della cultura friulane Famee Furlane di Toronto. La tematica del viaggio alla riscoperta della lingua perduta era già stata affrontata da Michelutti nei suoi precedenti lavori, come ad esempio nella poesia bilingue Ne storie/A story, in cui la lingua «dai muri bagnati di amarezza» per essere stata a lungo dimenticata richiama la scrittrice e la invita a tornare a “casa”:
«Cjàmin in chiste lenghe dai mûrs bagnats cun trist
cal filter ta la me bòcje, ca mi bàt sui dinc’
come agge glaze di laip. A’mi ven ingrîsul
quant che chiste storie di displaz1ès a’ mi buse
par strade, a’ mi clame lazarone, a’ mi dîs – Dulà
sêtu stade fin cumò? Fasin i conts a cjase.» 2.
Si chiude all’inizio degli anni ’90 il periodo di produzione letteraria di Michelutti, che dopo anni dedicati all’introspezione linguistica decide di dedicarsi a tempo pieno all’insegnamento e all’esplorazione di altre culture. Passa così gli ultimi dieci anni della sua vita insegnando scrittura creativa e comunicazione dapprima in Cina, tra il 2001 e il 2005, all’Università  di Wenzhou, e infine in Marocco, dove insegna alla Al Akhawayn University a Ifrane e dove si spegnerà  del 2009 a causa di un cancro.

 

  1. «Poi cominciai a scrivere, in qualsiasi lingua e a dispetto di ogni grammatica. Ai più, sarebbe parso incomprensibile, ma per quanto mi riguardava, stavo producendo significato, e secondo i miei termini. L’immagine di me stessa che emergeva dalla pagina era quella di due mazzi di carte distinti che vengono mescolati, ciascun mazzo giocava il suo gioco e seguiva le proprie regole. (1989)»  ^
  2. Nella versione inglese si legge: «I walk in this language of walls/ wet with a bitterness that seeps into/ my mouth, that shocks my teeth like/ icy well water. I shudder as this suffering/ history greets me with kisses/ tells me I’ve been bad, says: “Where/ have you been? We’ll settle this at/ home» 
  3.  http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/dorina-michelutti/

Web sul blog: La sfida musicale: scegli la tua canzone preferita

Web sul blog: La sfida musicale: scegli la tua canzone preferita: V'invito a scegliere la vostra canzone preferita tra le cinque del sondaggio, inoltre voglio ricordare a tutti, che si può esprimere...

29 giu 2021

ROBY FACCHINETTI - L' ULTIMA PAROLA

IL PROVERBIO FRIULANO DELLA SETTIMANA


 Il proverbio friulano della settimana

di Vita nei campi
“A San Pieri il fornasîr al è vieri” ovvero per San Pietro (il 29 giugno) il fornacciaio, il mattonaio, è vecchio, già da molto tempo ha incominciato il suo lavoro stagionale”.

28 giu 2021

IL PETROLIO DI OCULIS




Il fisarmonicista libero esce dal Cpr di Gradisca e aspettando il verdetto suona al centro Balducci

 

UDINE. Il primo passo verso la libertà è vedere i cancelli del Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo che si aprono e varcarli con la fisarmonica in spalla. Dietro, l’incubo di due settimane trascorse nel limbo di un’attesa impalpabile, davanti, l’angosciosa speranza di una risposta che consenta alla vita di ricominciare a scorrere normalmente, tra concerti, progetti artistici, relazioni umane.

Liubomyr Bogoslavets, il fisarmonicista ucraino che con le sue note ha incantato Udine durante il lockdown, è un richiedente asilo come ce ne sono tanti, sul territorio nazionale, libero di circolare e lavorare, almeno fino a quando la commissione territoriale di Trieste non deciderà se concedergli o meno la protezione internazionale. Decisione che, dopo l’audizione di giovedì, è attesa al più tardi per lunedì. È stato il giudice monocratico della sezione del tribunale di Trieste specializzata in materia di immigrazione, Monica Pacilio, a ritenere di non convalidare il provvedimento con cui il questore di Gorizia aveva disposto il trattenimento del musicista al Cpr.



L’udienza si è tenuta ieri mattina e ha dato ragione alle istanze della difesa, rappresentata dall’avvocato udinese Alessandro Campi, che oltre a evidenziare l’assenza del pericolo di fuga e a ricordare il livello di integrazione raggiunto da Bogoslavets in regione, dov’è conosciuto e apprezzato come persona e come professionista, ha proposto al magistrato una misura alternativa alla simil detenzione nella struttura di Gradisca - riservata in particolare, come noto, a migranti in attesa di espatrio con caratteristiche di spiccata pericolosità sociale -, segnalando la disponibilità del Centro di accoglienza “Balducci” di Zugliano a ospitarlo.

Il resto della giornata è trascorso in un crescendo di emozioni, seppur nell’incertezza rispetto alla definizione del procedimento azionato dalla richiesta di protezione internazionale che il musicista ha voluto tentare. Una protezione “speciale”, quella ipotizzata per il suo caso, visto che il rientro in patria lo condannerebbe a uno stato di precarietà certo sul piano sia economico che sociale. Va da sé come a un’eventuale rigetto della domanda seguirebbe l’impugnazione e, con essa, un ulteriore periodo di permanenza in Italia.

Ad attenderlo fuori dal Cpr, nel primo pomeriggio, c’erano, tra gli altri, una sua amica e traduttrice. È stata lei ad accompagnarlo a Zugliano. Prima di congedarsi, Bogoslavets ha salutato gli operatori, in un clima di insolita cordialità per il tipo di ambiente e per le note tensioni che, in passato, hanno contribuito a descriverlo come un “lager”. Niente è per caso: la sera prima, quasi fosse nell’aria la sua partenza, i responsabili della struttura gli avevano permesso di riprendere possesso della sua fisarmonica e di suonarla anche per gli altri.

Un piccolo miracolo, bissato ieri, finalmente senza limiti, al suo arrivo al Centro Balducci. Complici tutti, dalla consigliera comunale di Udine, Sara Rosso, ideatrice insieme all’associazione “Oikos” delle tante iniziative promosse in questi giorni a sostegno di Liubomyr, tra raccolta di firme, video e flashmob, alla presidente dell’associazione culturale Ucraina-Friuli, Viktoria Skyba, che la settimana scorsa aveva segnalato il caso al consolato ucraino, a Milano, ottenendo l’invio di una nota alla Questura di Gorizia e alla Commissione di Trieste con la richiesta che al connazionale venga concesso il permesso speciale, a Paolo Piuzzi, il professionista che dal suo studio di Pordenone coordina la gara di solidarietà scattata anche tra gli artisti impegnati a proporre nuovi opportunità di lavoro al collega ucraino.

E poi c’è Pierluigi Di Piazza, responsabile del Balducci, senza il quale, forse, il giudice non avrebbe acconsentito alla liberazione di Bogoslavets e che si è detto «onorato» di contribuire alla causa. «Penso sempre a quante persone vivono dimenticate», ha detto, aspettandone l’arrivo e pronto a offrirgli una camera, «per riposare dopo tante stanchezze». Lui, in cammino sulla terra in cerca di una condizione migliore, come gli 82 milioni di rifugiati in fuga da guerre e miseria. —

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Il film su Mangart ha vinto a Cannes




Dagli Stati Uniti è arrivata la buona notizia che un documentario su una gara di sci della 10th Mountain Division dell'esercito americano il 3 giugno 1945, su un nevaio sotto Mangart, ha vinto il Festival di Cannes tra i film storici.

Alla realizzazione del film hanno partecipato i membri dell'Associazione degli alpinisti militari della Slovenia, dell'esercito sloveno e del Centro di eccellenza per il combattimento in montagna. Uno dei ruoli principali nel film è interpretato dalla grande sciatrice americana Mikaela Shiffrin insieme ai rappresentanti sloveni  .

Tempo fa è nata l'idea che il ricordo della partita del Mangart potesse essere un elemento centrale  nella celebrazione dell'amicizia sloveno-americana. Così è nata l'idea di fare un film in Slovenia, che ora ha riscosso un grande successo. In modo del tutto inaspettato, tuttavia, il regista Chris Anthony ha presentato il film al Festival di Cannes, uno dei festival cinematografici più antichi e acclamati al mondo.

Il festival, come attualmente si presenta virtualmente o ibrido, si svolgerà dal 6 al 17 luglio di quest'anno e proietterà i film vincitori per singole categorie. Tuttavia, la prima proiezione del documentario sottotitolato in sloveno in Slovenia è ancora prevista a Bovec. Naturalmente, quando le condizioni epidemiologiche lo consentiranno  e i discendenti dei membri della 10a Divisione da montagna dell'esercito americano potranno arrivare a Bovec per la prima.

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Proverbio friulano

  Il proverbio friulano della settimana di Vita nei campi “Quant che al cjante el furmiâr cirît sotet pes bestîs e pal cjar” ovvero quando c...

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