Primo maggio, festa del lavoro. Sicuramente una giornata di rilievo mondiale, occasione per confronti, dimostrazioni, celebrazioni e rivendicazioni. Senza lavoro non c’è dignità di vita, non c’è semplicemente vita. Lascio comunque le opportune riflessioni in merito per ricordare un altro primo maggio che, non solo per me, riveste un significato particolare. Mi riferisco al 1° maggio di 17 anni fa. Era un sabato nel 2004 ed in quell’occasione scrissi nella mia lingua materna, lo sloveno, i miei appunti, le mie riflessioni, i sentimenti che quel giorno mi affollavano la mente ed il cuore. Una giornata che risvegliava grandi speranze, sogni, ricche prospettive per le popolazioni d’Europa.
«La notte tra ieri ed oggi – scrivevo – potrebbe divenire, per noi che viviamo al confine di Stato, come una notte di Pasqua, festa di resurrezione, di rinascita, come se qualcosa si risvegliasse da un profondo sonno secolare nel nostro piccolo angolo di mondo. Sento nel petto un’aria nuova, dolce; aria che ammorbidisce le dure zolle fresche d’aratro, aria che visita come memoria storica i nostri paesi disseminati sui monti e nelle valli, dimore di gente speciale, custodite dalle innumerevoli chiesette come sentinelle, alle cui soglie cresce incolta l’erba spontanea. Aria mai ancora sentita, quasi neppure sognata. Erano le ore 17.30 di quel 1° maggio 2004 quando a Dublino si celebrava l’evento dell’anno: Cipro, Estonia, Lettonia, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria sono state incluse nell’Unione Europea. Così l’Unione da una popolazione di 370 è salita a 500 milioni; le lingue ufficiali riconosciute si sono moltiplicate a 20, tra le quali anche la slovena, quella cui è legata la nostra storia e, magari così fosse, anche il nostro futuro. Uniti 24 Stati democratici, che si sono impegnati,tra l’altro, al rispetto dei diritti umani, dei diritti delle minoranze, nello sforzo comune per il benessere dei popoli uniti d’Europa».
«Un avvenimento singolare nella storia – proseguivo – il fatto che si riuniscono popoli già in lotta fra loro in tempi non lontani, il miracolo della caduta di ancestrali confini; si dissolvono recinti e barriere, si sgretolano muri. E ciò succede non al rombo di conquiste a cannonate, non perché un esercito invade un territorio non suo, non con la violenza e la sopraffazione dei popoli vinti. Ma rappresentanti dei popoli che si accordano nel dialogo, che si danno la mano nella prospettiva di procedere in consonanza di intenti, di metodi e di mezzi».
«Ora – concludevo le mie riflessioni – possiamo stringere la mano al vicino, possiamo abbracciarci con fiducia, perché di là del confine caduto non c’è gente cattiva, nemica; noi non abbiamo più la pretesa manichea di sentirci i buoni, i bravi, superiori, i fortunati, i belli per discriminare coloro che parlano una lingua diversa, che hanno diversa foggia, altre usanze, valori più o meno marcati dei nostri, ma soprattutto valori. Siamo semplicemente vicini, dirimpettai, possibilmente amici e collaboratori. Intendo riferirmi soprattutto a noi, sloveni di qua del vecchio confine. Noi, più fortunati di altri nostri concittadini, perché la vecchia Cortina di ferro può finalmente diventare un ricordo; perché noi, magari con un piccolo sforzo, abbiamo una marcia in più: noi ci possiamo intender col nostro vicino ed oltre, perché abbiamo le stesse radici linguistiche, lo stesso retroterra culturale e valoriale. Ancora un po’ di sforzo ci serve, una scuola aperta a quel mondo in parte messo in oblio, maggiori contatti e collaborazioni transfrontaliere… E così potremo abbandonare i vecchi pregiudizi, le diatribe linguistiche, i postumi traumatici della guerra fredda, le diversità linguistiche, politiche, ideologiche o religiose. Oggi è un giorno di festa. Tutti insieme, in fiaccolata nella notte, a segare le sbarre ai valichi. È un giorno di primavera, di rinascita, di speranza in un futuro migliore».
Questi i sogni di allora. Oggi con alle spalle il percorso tortuoso della storia europea di questi 17 anni, mi sveglio dal sogno e rimango un po’ disorientato osservando l’involuzione, l’offuscamento di quel sogno europeo. In modo particolare oggi, quando la pandemia, il malessere e la morìa mondiale mettono in ginocchio popoli, Stati e continenti, dovrebbe rinascere per forza di natura una solidarietà concreta, uno sforzo comune e unitario per salvare il salvabile. Ma se già nel nostro piccolo mondo italiano rimane difficile la solidarietà, la comune volontà di ognuno per sconfiggere il vero nemico di tutti, come pretendere la solidarietà esterna? Come costruire valide difese e strutture per poter tornare tutti a quel diritto sacrosanto su cui si fonda la nostra Costituzione – il lavoro –, se nella politica divisa e rissosa coloro che cercano di costruire trovano pronti all’opera demolitori e sabotatori?
Sì, qualche strada positiva europea è stata percorsa, ma molti dei sogni e speranze di 17 anni fa si sono rivelati per quel che effettivamente sono ancora: sogni e speranze. Intanto la pandemia, presa alla leggera, aiutata dall’insipienza umana prosegue il suo corso come se la gente fosse ormai in preda ad un vuoto fatalismo alla manzoniana: «a chi la tocca, la tocca!» o alla Bolsonaro e alla No-vax nostrano.
dal dom del 30 aprile 2021