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Questo blog parla delle minoranze linguistiche del Friuli:SLOVENA,FRIULANA eTEDESCA,articoli dei giornali della minoranza slovena,degli usi,costumi,eventi e tanto altro.Buona lettura.OLga

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28 nov 2022

Sebastijan Pregelj-Il giorno in cui finì l'estate-

 Per i tipi di Bottega Errante (BEE) di Udine è appena uscito, in traduzione italiana di Michele Obit, il romanzo “Il giorno in cui finì l’estate” (Premio Ivan Cankar 2020) di Sebastijan Pregelj. Ne pubblichiamo il Capitolo 8. 



Per i tipi di Bottega Errante (BEE) di Udine è appena uscito, in traduzione italiana di Michele Obit, il romanzo “Il giorno in cui finì l’estate” (Premio Ivan Cankar 2020) di Sebastijan Pregelj. 



Il nostro Tito è morto, c’è scritto sulla lavagna quando il lunedì mattina entro in classe. So già tutto. Mamma e papà mi hanno raccontato. Mi hanno raccontato in modo che capissi, poi ho dovuto ripetere alcune cose con loro. «Perché tu possa ricordare» ha detto papà, «e perché non ti lasci scappare qualche idiozia».


Domenica pomeriggio, sul tardi, sono arrivati lo zio, la zia e Martin. Con Martin siamo rimasti quasi sempre nella mia stanza. Quando siamo usciti, gli adulti si sono zittiti.


«Ci guardano come se avessimo fatto qualcosa di sbagliato» ha detto Martin. «Forse perché è morto Tito. Che ne so. Non è che sia colpa nostra».


«Certo che no» ho assentito, e con Superman nella mano destra ho preso a correre per la stanza, mentre Martin sul pavimento muoveva il robot di plastica che aveva ricevuto dall’Italia. «Questo è Droid» mi istruiva. «Droid di Guerre stellari. Hai visto Guerre stellari?».


«No» ho fatto con il capo.


«Peccato. Devi guardarlo. A me, mamma e papà prima non me l’hanno permesso, poi però papà mi ha portato al cine. Che film!».


Martin mi ha raccontato per bene tutta la trama.


Quando sono arrivato alla porta e da tempo non stavo più seguendo Martin, che ora stava parlando di tutt’altro, ho sentito papà dire che era preoccupato. «Già prima mi preoccupava. Non è un segreto che il vecchio da tempo non governava il Paese. Lo facevano altri, i generali e Jovanka. Ma adesso che non c’è, be’, adesso non sarà semplice. Il vecchio metteva ordine. Nessuno osava nemmeno fiatare».


«Può essere che ci occuperanno i russi» ha detto lo zio.


«Finiscila di spaventare» ha detto papà, «quali russi! Non ci sarà nessun russo».


«E l’Ungheria e la Cecoslovacchia?» non la smetteva lo zio. «Là sono arrivati con i carri armati».


«Gli americani non gli permetterebbero mai di superare il confine jugoslavo» ha detto papà. «Se succedesse, sarebbero di colpo sul loro confine».


«Vedi» ha sospirato lo zio, «il vecchio sapeva navigare tra gli uni e gli altri. Ma adesso è cambiato tutto. Lui non c’è, fine. Speriamo solo che non venga la guerra».


«Pensi che possa venire la guerra?» ho chiesto a papà quando lo zio, la zia e Martin, dopo le notizie della sera, se ne sono andati.


«Non preoccuparti». Papà mi ha accarezzato la testa. «Non ci sarà nessuna guerra. Avete sentito quello che stavamo dicendo?».


«No» ho scrollato il capo. «Ho sentito qualcosa».


«Hai sentito qualcosa» ha sorriso papà. «Ascolta» mi ha messo a sedere, «ricordati di questo: Tito era il presidente della nazione. E il maresciallo…».


Ora sono in classe e guardo la scritta bianca sulla lavagna verde: Il nostro Tito è morto. Sono seduto vicino a Rok, che sulle guance ha vari cerotti. Mi racconta dell’iniezione e dei punti. Gli chiedo se gli ha fatto male.


«Ovvio che mi ha fatto male» ha annuito. «Ma non tanto. Ho stretto i denti. Tra una settimana mi tolgono i punti».


«Super!». Sono entusiasta. «Se vorrai far parte dei pirati, ti prenderanno già da subito. Solo che non dovrai dire loro che ti sei ferito su una recinzione. Devi dire che sono graffi da combattimento».


«Dirò questo» annuisce Rok. Poi restiamo zitti, perché in classe entra la maestra.


Nella mano destra tiene un fazzoletto con cui si asciuga gli occhi lacrimanti, nella sinistra un grosso libro dalla copertina rossa con il titolo stampato a caratteri dorati. La maestra Nada sta piangendo. Anche alcune compagne piangono, e tra loro Ana. La guardo e non capisco. Tito era il nostro presidente, va bene, ma non era nostro nonno o nostra nonna, uno zio o una zia. Perché allora piangono?


La maestra inspira profondamente alcune volte, poi con voce tremante dice che oggi è un giorno molto triste.


«Parleremo del compagno Tito, della sua vita e di cosa ha fatto. Ma molte cose le saprete già». Ci guarda. «Bene» apre il libro, «probabilmente ancora non tutto. Se sentite qualcosa che sapete già, va bene lo stesso, perché ve lo ricorderete meglio. È importante che ricordiate, è importante che sappiate. Per oggi e per domani». Poi inizia a raccontare del ragazzino della Sotla[1].


Durante l’intervallo rimaniamo ai banchi, anche la maestra rimane in classe.


La lasciamo solo quando scocca l’ora del pranzo. Ci allineiamo lungo la parete, una fila che si snoda fino agli ultimi banchi. Aspettiamo che la maestra si alzi, vada alla porta, la apra e ci lasci uscire. Diversamente dagli altri giorni, non ci accalchiamo, non corriamo e non ci superiamo, ma camminiamo uno accanto all’altro.


Quando Rok e io ci sediamo a tavola, lui mi urta con il gomito e fa un cenno verso il ritratto di Tito, appeso alto alla parete.


«Devo raccontarti una cosa» dice. «Ma è un segreto».


«Ah, sì?». Lo guardo incuriosito.


«Ascolta». Rok si china su di me. «Tito continua a guardarmi. Non importa dove mi siedo, mi fissa continuamente. Posso andare in un angolo della sala da pranzo oppure in un altro. Solo non so, adesso che è morto, se continua a vedere».


Sollevo lentamente lo sguardo e fisso il ritratto di Tito. La sua foto è appesa in ogni classe. Nella nostra c’è solo il viso. Nella sala di musica Tito è seduto al pianoforte. Nel laboratorio di tecnica è accanto a un macchinario. Nel corridoio, dove c’è il gabinetto di storia, sono appese delle fotografie dei tempi della guerra. Quella che mi ricordo meglio è Tito con un cane. Il cane si chiamava Luks e aveva salvato la vita a Tito. Sto in silenzio alcuni istanti, poi a Rok rispondo che lo so. Con Peter già tempo prima ci eravamo resi conto che Tito ci guardava. Mi sposto un po’ a destra, poi a sinistra, per controllare se è ancora così. Tito mi guarda. Il suo viso rimane inalterato, mentre gli occhi fissano direttamente me. Rok afferra il cucchiaio e inizia a mangiare la zuppa. Continua però a guardarmi: «Andremo anche nelle altre classi. Cercheremo tutte le foto e verificheremo se anche in quelle ci guarda». Portiamo i vassoi, con i piatti quasi intatti, fino al banco. Fosse un giorno comune, lì ci aspetterebbe la maestra Nada. Ci chiederebbe perché non abbiamo mangiato quasi niente e ci direbbe che nel mondo ci sono tante persone affamate e solo per loro dovremmo dimostrare più rispetto nei confronti del cibo. Ma oggi è un giorno particolare. Al banco non c’è nessuno dei maestri, perciò lasciamo lì senza problemi i vassoi e corriamo lungo il corridoio verso le aule.


Rok apre con cautela le porte delle classi prime e seconde. Le aule sono quasi vuote, gli alunni sono a pranzo. Se c’è qualcuno in classe chiude velocemente la porta, mentre nelle aule vuote entriamo come se fossero la nostra. Sul momento rimaniamo cauti, poi però ci muoviamo senza un filo di paura.


In ogni aula prima controlliamo quale fotografia sta appesa sopra la lavagna. Se non è uguale alle precedenti, ci collochiamo dritti di fronte a essa. Poi ci muoviamo a destra e a sinistra, arrivando alla finestra, alle pareti e all’armadio. Ci accorgiamo che Tito ci osserva sempre. Anche se ci accovacciamo dietro ai banchi e alle sedie, sa dove stiamo. Non appena riappariamo, ci guarda.


Quando siamo nella nostra aula, facciamo lo stesso che nelle precedenti. Poi vengo folgorato da un’idea: ognuno di noi deve andare a un’estremità dell’aula.


«Voglio proprio vedere chi guarderà, se facciamo così!».


«È vero!». Rok è entusiasta. Ci mettiamo al centro dell’aula, poi Rok inizia a spostarsi verso la finestra, io verso la porta.


«Continua a guardarmi!» dice Rok ad alta voce.


«Anche me!».


Quando sono vicino alla porta, questa improvvisamente si apre.


«Cosa fai qui?» mi chiede la maestra Nada. Rabbrividisco e scuoto la testa.


«Niente» rispondo, e mi sposto al mio banco.


«Venite qui» dice quando raggiunge la cattedra. Sento brividi in tutto il corpo. Ho la sensazione che quello che abbiamo fatto sia sbagliato e che la maestra sappia tutto. Ho paura che ci scriva una nota per i genitori nel libretto o, ancora peggio, che chieda che la mamma o il papà o ancora meglio tutti e due vadano a parlare con lei. Con passi brevi mi dirigo alla cattedra, Rok invece è già alla lavagna, come se si aspettasse un elogio.


«Bene, cosa pensate del maresciallo Tito?» ci chiede la maestra.


«Ci guarda sempre» la sparo.


«Come?». La maestra è sorpresa.


«Qualsiasi cosa facciamo, sempre ci osserva e tutto vede» chiarisco.


«Cosa vuoi dire?». La donna aggrotta la fronte.


«Venga» faccio due passi indietro e guardo la fotografia di Tito. «Adesso mi sta guardando. E se mi metto vicino alla finestra, continua a guardarmi. E se corro all’altro lato della stanza, mi guarda ancora!».


«Vedi» sorride la maestra Nada, «per questo ciò che fai è importante. Per questo è importante come ti comporti. Devi essere un pioniere, sempre d’esempio e buon compagno! Perché Tito ti guarda. Tutti ci guarda. Tutto vede».


Il pomeriggio mi siedo con mamma e papà davanti al televisore. Guardiamo il treno blu che trasporta il presidente defunto da Lubiana a Belgrado, dove lo sotterreranno. Lungo la tratta ci sono migliaia di persone. La telecamera a volte si ferma sui volti del soldato, del poliziotto, dell’operaia, dell’operaio che in questo giorno non lavorano, ma stanno lungo i binari e attendono che passi il treno per poter salutare per l’ultima volta il maresciallo che ha unito i popoli jugoslavi e li ha guidati sulla strada della liberazione dall’occupazione nazista e fascista, accompagnandoci verso il futuro luminoso che è durato fino a quel terribile momento, domenica, alle tre e quattro minuti, quando il suo grande cuore si è fermato. Sullo schermo le donne si asciugano gli occhi, gli uomini guardano cupamente, sui volti di tantissimi scorrono le lacrime.


«Tito ci guarda tutti» dico.


«Come?». Papà si volta sorpreso verso di me.


«Tito ci guarda tutti» ripeto.


«Da dove l’hai presa questa?» chiede. Così gli racconto di come io e Rok siamo andati di classe in classe, e alla fine anche della maestra Nada, che ci ha dato ragione. Tito ci guarda.

fonte https://wordpress.com/read/feeds/25870481/posts/4407535467


21 nov 2022

X MAS




Dopo l'esibizione della maglietta della X MAS da parte di Enrico Montesano a "Ballando con le stelle"  si parla molto di questa organizzazione fascista.Per chi non la conoscesse qui leggerà cosa dice wikipedia.

Montesano è un attore, conduttore televisivo, cantante, cabarettista ed ex politico italiano .La RAI  lo ha escluso dalla partecipazione al programma.

La  Flottiglia MAS (dal 1º maggio 1944, con l'unificazione di vari battaglioni, rinominata in Divisione fanteria di marina Xª  anche nota come Xª MAS) è stato un corpo militare indipendente, ufficialmente di fanteria di marina della Marina Nazionale Repubblicana della Repubblica Sociale Italiana, attivo dal 1943 al 1945. La Xª Flottiglia MAS al nord, al comando del capitano di fregata Junio Valerio Borghese in seguito all'armistizio di Cassibile strinse accordi di alleanza con il capitano di vascello Berninghaus della Marina da guerra germanica.

Durante i due anni che seguirono operò in coordinazione coi reparti tedeschi, sia per contrastare l'avanzata alleata dopo lo sbarco di Anzio e sulla Linea Gotica e nel Polesine, sia in operazioni contro la resistenza italiana con forte determinazione e perdite significative. Attività durante la quale l'unità impiegò strategie tipiche della controguerriglia e in alcuni episodi si macchiò di crimini di guerra, e infine nel tentativo di difendere i confini nordorientali dalla controffensiva iugoslava, cercando anche di affermare l'italianità di quelle regioni di fronte alle politiche annessionistiche dell'occupante tedesco sostenuto da elementi collaborazionisti serbicroati e sloveni. Peraltro questi tentativi ostacolati anche dagli stessi tedeschi non ottennero risultati definitivi ed i reparti inviati in Friuli furono presto fatti trasferire oltre il Piave, a Thiene, dal Gauleiter Rainer, deciso a mantenere il controllo totale della regione.

La Xª Divisione MAS si arrese il 26 aprile 1945 ai rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nella caserma di piazzale Fiume (l'attuale piazza della Repubblica) a Milano dopo la cerimonia dell'ammaina bandiera.


Voi cosa ne pensate??

6 lug 2022

STORIA: 1918, quando la Regia Marina d’Italia occupò la Dalmazia


Con l’armistizio con l’Austria-Ungheria, e in accordo con gli alleati, ai primi di novembre del 1918 le truppe italiane occuparono le aree della Dalmazia assegnate all’Italia dal trattato di Londra del 1915. Navi da guerra della Regia Marina si presentarono nei porti dalmati, dove presero contatto con le sedi dei Fasci Nazionali, le associazioni locali degli italiani.

A seguito del ritiro dell’esercito austriaco, il Consiglio Nazionale Jugoslavo, formatosi a Zagabria in attesa dell’unione con la Serbia, creò un governo regionale provvisorio per la Dalmazia che prese il controllo di Spalato, Sebenico e Zara. Solo a Zara  l’ex sindaco autonomista Ziliotto organizzò un contropotere, proclamando l’autorità del Fascio Nazionale Italiano come successore del Consiglio comunale zaratino disciolto nel 1916.

Il 31 ottobre l’Italia ottenne il consenso degli Alleati all’occupazione dei territori contemplati dal patto di Londra, pur senza il riconoscimento di un diritto di annessione.  Navi da guerra della Regia Marina si presentarono nelle isole e nei porti dalmati, dove presero contatto con le sedi dei Fasci Nazionali, le associazioni locali degli italiani. Il 4 novembre la Marina prese possesso delle isole di Lissa/Vis, Lagosta/Lastovo, Melada/Molat, e Curzola, dove i comitati nazionali jugoslavi non opposero resistenza armata. Lo stesso giorno il capitano di corvetta De Boccard fu accolto sulla banchina di Zara da Luigi Ziliotto, tra l’esultanza degli zaratini italiani, nonostante le proteste diplomatiche dei rappresentanti jugoslavi. La situazione in città restò tesa per alcuni giorni, fino all’arrivo del cacciatorpediniere Audace e di nuove truppe, mentre gli jugoslavi si riorganizzavano nella campagna zaratina.

Il vice ammiraglio Enrico Millo ispeziona le truppe italiane in arrivo a Sebenico

L’occupazione di Sebenico prese un paio di giorni in più, a causa dell’ostilità della popolazione croata; solo il 9 novembre il contrammiraglio Leopoldo Notarbartolo proclamò l’occupazione della Dalmazia fino a Capo Planka da parte dell’Italia a nome delle potenze dell’Intesa e degli Stati Uniti.

Altre isole dalmate vennero occupate nel corso di novembre: Lesina il 13 novembre, Pago/Pag il 21, nonostante l’ostruzionismo dei notabili e del clero. Migliore accoglienza ci fu a Cherso e Lussino, dove metà della popolazione era italiana. La Regia Marina si spinse ad occupare anche Veglia e Arbe (il 26), isole non incluse nel patto di Londra, anche per via degli appelli dei notabili italiani locali. Anche qui il clero cattolico fu tra i principali elementi di agitazione filo-jugoslava, tanto che le autorità italiane decisero di espellere il vescovo di Veglia, monsignor Mahnic.

governatore della Dalmazia il governo italiano nominò il vice ammiraglio Enrico Millo, già ministro della Marina e sostenitore dell’annessione, che stabilì comando a Sebenico – misura che indicava l’intenzione di conservare il controllo dell’intera Dalmazia – fino alla primavera del 1919, quando si trasferì a Zara. Millo esautorò i comitati nazionali jugoslavi, benché i notabili filo-jugoslavi restarono rappresentati istituzionalmente nella Dieta provinciale dalmata e nella Corte d’appello. I vecchi membri del partito autonomo-italiano, risorto nei Fasci Nazionali Italiani, vennero nominati commissari civili o assunti alle dipendenze delle istituzioni pubbliche. Gli ex funzionari asburgici, benché corteggiati dalla nuova amministrazione, spesso non vollero prendervi parte per timori di rappresaglia in caso di ritorno al potere degli jugoslavi.

continua a leggere https://www.eastjournal.net/archives/126261

24 giu 2022

1918, quando la Regia Marina d’Italia occupò la Dalmazia


Con l’armistizio con l’Austria-Ungheria, e in accordo con gli alleati, ai primi di novembre del 1918 le truppe italiane occuparono le aree della Dalmazia assegnate all’Italia dal trattato di Londra del 1915. Navi da guerra della Regia Marina si presentarono nei porti dalmati, dove presero contatto con le sedi dei Fasci Nazionali, le associazioni locali degli italiani.

A seguito del ritiro dell’esercito austriaco, il Consiglio Nazionale Jugoslavo, formatosi a Zagabria in attesa dell’unione con la Serbia, creò un governo regionale provvisorio per la Dalmazia che prese il controllo di Spalato, Sebenico e Zara. Solo a Zara  l’ex sindaco autonomista Ziliotto organizzò un contropotere, proclamando l’autorità del Fascio Nazionale Italiano come successore del Consiglio comunale zaratino disciolto nel 1916.

Il 31 ottobre l’Italia ottenne il consenso degli Alleati all’occupazione dei territori contemplati dal patto di Londra, pur senza il riconoscimento di un diritto di annessione.  Navi da guerra della Regia Marina si presentarono nelle isole e nei porti dalmati, dove presero contatto con le sedi dei Fasci Nazionali, le associazioni locali degli italiani. Il 4 novembre la Marina prese possesso delle isole di Lissa/Vis, Lagosta/Lastovo, Melada/Molat, e Curzola, dove i comitati nazionali jugoslavi non opposero resistenza armata. Lo stesso giorno il capitano di corvetta De Boccard fu accolto sulla banchina di Zara da Luigi Ziliotto, tra l’esultanza degli zaratini italiani, nonostante le proteste diplomatiche dei rappresentanti jugoslavi. La situazione in città restò tesa per alcuni giorni, fino all’arrivo del cacciatorpediniere Audace e di nuove truppe, mentre gli jugoslavi si riorganizzavano nella campagna zaratina.

Il vice ammiraglio Enrico Millo ispeziona le truppe italiane in arrivo a Sebenico

L’occupazione di Sebenico prese un paio di giorni in più, a causa dell’ostilità della popolazione croata; solo il 9 novembre il contrammiraglio Leopoldo Notarbartolo proclamò l’occupazione della Dalmazia fino a Capo Planka da parte dell’Italia a nome delle potenze dell’Intesa e degli Stati Uniti.

Altre isole dalmate vennero occupate nel corso di novembre: Lesina il 13 novembre, Pago/Pag il 21, nonostante l’ostruzionismo dei notabili e del clero. Migliore accoglienza ci fu a Cherso e Lussino, dove metà della popolazione era italiana. La Regia Marina si spinse ad occupare anche Veglia e Arbe (il 26), isole non incluse nel patto di Londra, anche per via degli appelli dei notabili italiani locali. Anche qui il clero cattolico fu tra i principali elementi di agitazione filo-jugoslava, tanto che le autorità italiane decisero di espellere il vescovo di Veglia, monsignor Mahnic.

governatore della Dalmazia il governo italiano nominò il vice ammiraglio Enrico Millo, già ministro della Marina e sostenitore dell’annessione, che stabilì comando a Sebenico – misura che indicava l’intenzione di conservare il controllo dell’intera Dalmazia – fino alla primavera del 1919, quando si trasferì a Zara. Millo esautorò i comitati nazionali jugoslavi, benché i notabili filo-jugoslavi restarono rappresentati istituzionalmente nella Dieta provinciale dalmata e nella Corte d’appello. I vecchi membri del partito autonomo-italiano, risorto nei Fasci Nazionali Italiani, vennero nominati commissari civili o assunti alle dipendenze delle istituzioni pubbliche. Gli ex funzionari asburgici, benché corteggiati dalla nuova amministrazione, spesso non vollero prendervi parte per timori di rappresaglia in caso di ritorno al potere degli jugoslavi...continua a leggere https://www.eastjournal.net/archives/126261

27 mag 2022

UCRAINA: Quando gli aggressori eravamo noi



C’è stato un tempo in cui gli aggressori in Ucraina eravamo noi: era il 1941 in piena seconda mondiale. L’Italia fascista seguì Hitler nella sua folle impresa di Russia.

I toni sono quelli pomposi tipici dell’epoca, la musica è incalzante, percussioni e ottoni a farla da padroni, sopralzano persino gli archi, relegati una volta tanto a gregari. Le immagini sono quelle in bianco e nero, firma inconfondibile dei filmati dell’Istituto Luce d’epoca fascista.

E in quel filmato, poco più di tre minuti in tutto, al minuto 1:21 la voce narrante ci informa che quelle che stiamo vedendo sono le riprese girate da “i nostri ricognitori nei cieli di Dniepropetrovsk, la grande città industriale, dopo i bombardamenti effettuati dai bombardieri italiani”.

Ancora oggi, nel pieno dell’invasione russa dell’Ucraina, il corso del Dnepr – il principale fiume ucraino che bagna anche la capitale Kiev – è uno spartiacque, divide il fronte orientale da quello occidentale del conflitto. Ma c’è stato un tempo in cui su quella linea di fronte c’eravamo noi, noi italiani, con le nostre truppe arraffazzonate e i nostri carrarmati di cartone.

A leggere i nomi di dove passammo, di dove combattemmo in quei mesi, sembra di leggere le cronache dei giornali di oggi: non solo Dnepr, dove le truppe italiane arrivarono dopo una marcia di centinaia di chilometri lungo i terreni argillosi resi impraticabili dalle avverse condizioni del tempo, ma anche Voznesensk, Pokrovika, Kharkiv, Kiev. Kiev, soprattutto: fu qui che gli italiani parteciparono insieme alle truppe naziste alla manovra di accerchiamento della capitale per prendere successivamente parte all’offensiva nel Dombass – dove si insediarono tra l’ottobre e il novembre del 1941 – e, più a sud, lungo la costa del Mar d’Azov prima di entrare in territorio russo.

A partire, nell’estate del 1941, fu il cosiddetto Corpo di Spedizione Italiano in Russia, CSIR, costituito da tre divisioni, la 3° Divisione Celere Principe Amedeo Duca D’Aosta, la Divisone Pasubio e la Divisione Torino. Ad esse, su richiesta tedesca, si aggiunsero poi altre sei divisioni che trasformarono la CSIR in ARMIR, l’8° Armata, di cui facevano parte quasi 230 mila uomini. Uno sforzo immane per l’Italia, frutto del tentativo – atrocemente goffo – di Benito Mussolini di prendere parte a una spedizione che si pensava trionfante e che invece si trasformò in una delle più grandi tragedie italiane – e non solo – della Seconda guerra mondiale. Non solo presunzione, comunque, ma il desiderio folle di assicurarsi un posto a tavola quando ci sarebbe stato da spartirsi il bottino con l’alleato tedesco.

Il resto è storia: le truppe italiane ripassarono in Ucraina (e in Bielorussia) nel 1943, nel pieno della drammatica ritirata dalla Russia, quella raccontata in modo straordinariamente efficace da Mario Rigoni Stern ne “Il sergente nella neve” o, ancora, quella narrata in prima persona nel diario di Eugenio Corti “I più non ritornano”.

I numeri della disfatta sono incerti ma lasciano poco margine all’inquadramento dell’impresa sul fronte orientale come disfatta umana, prim’ancora che militare: almeno 90 mila le vittime – ammazzati in combattimento o morti per congelamento e sfinimento durante la ritirata – oltre trentamila i feriti. Un’ecatombe.

Ci vollero duecento tradotte ferroviarie per trasportare le nostre truppe al fronte, ne bastarono diciassette per riportare indietro i superstiti. Un viaggio, tanto malinconicamente quanto magnificamente, evocato da una canzone di Marco Paolini e i Mercanti di Liquore:

Cosa canta il soldato, soldatino / Dondolando, dondolando gli scarponi / Seduto con le gambe ciondoloni / Sulla tradotta che parte da Torino. / Macchinista del vapore / Metti olio nei stantuffi / Della guerra siamo stufi / A casa nostra vogliamo andare.

Molti di quelli che fecero ritorno furono poi internati in Germania dopo l’8 settembre e finirono per lavorare in modo coatto nelle fabbriche tedesche. A fine guerra il rientro dai campi di prigionia tedeschi e russi fu completato solo nel 1954 quando Mosca restituì gli ultimi dodici connazionali. Fatta la conta dei morti accertati e dei prigionieri ritornati dopo anni, mancano all’appello ancora 75 mila uomini, spariti nel nulla.

“(…) vede signora, ogni girasole, ogni albero, ogni campo di grano nascondono i corpi dei soldati italiani (…)”, è una frase dal film “I girasoli” di Vittorio De Sica che rende perfettamente il senso di questo pezzo di storia.

Oggi una nuova invasione arriva da oriente, tutto è cambiato ma tutto resta immutato. Solo un paradosso apparente della storia, la storia si ripresenta sempre uguale a se stessa, cambiano gli attori, non il risultato. È per questo che è utile ricordare che c’è stato un tempo in cui gli invasori eravamo noi, noi gli aggressori, noi dalla parte del torto.(Foto: Pietro Aleotti / East Journal)


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