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quadro di Peressini Luigino |
«Questa strada non è adatta nemmeno alle capre. E noi, che siamo cristiani, dobbiamo camminare per questa strada». Così nel 1873 un abitante locale descriveva il sentiero che da Montenars (friul. Montenârs, slov. Montenare) portava a Flaipano (friul. Flaipan, slov. Fejplan); le sue parole sono state trascritte dallo studioso polacco Jan Baudoin de Courtenay. Anche la strada asfaltata che al giorno d’oggi da Stella (friul. Stele, slov. Štela) porta a Flaipano ha visto tempi migliori. Evidentemente è utilizzata solo di rado, non così tanto da renderne necessaria la sistemazione. Conducendo oltre case moderne, costruite dopo il terremoto e che in alcune file si stringono al versante in lieve ascensione, dal bosco la strada si allarga in una piccola piazza. È una giornata d’estate piena di sole; i suoni non sono molti e sembra non ci sia nessuno. In paese risiedono solo poche persone – dopo la guerra molte di loro sono emigrate e quanto di loro è rimasto è stato mandato via nel 1976 dal terremoto, che ha distrutto tutto il paese. Secondo i dati del 1911, nelle località del comune di Montenars in cui si parlava sloveno erano 777 le persone parlanti nel dialetto sloveno locale. Oggi Flaipano conta 19 abitanti.
Da dietro una curva si avvicina a piedi un’anziana signora, che saluta in friulano. Mostrando un mazzo di erbe, dice che, malgrado la sua veneranda età di 92 anni, ancora le raccoglie da sola. Non sa lo sloveno, anche se durante la sua infanzia gli anziani, anche i suoi genitori, parlavano tra loro in questa lingua. Ma di quel periodo le sono rimaste solo poche parole. «E ne ćekeran po našin», «Non parlo a modo nostro», dice in dialetto sloveno. I bambini tra loro parlavano friulano; a scuola, invece, si insegnava solo in italiano.
La borgata di Frattins (friul. Fratins, slov. Fratiči) si trova poco più avanti. Come già nel paese precedente, anche qui non c’è traccia della vecchia architettura, le case sono in cemento, con garages e terrazze a vetri. Qui si parlava friulano già quando a Flaipano si poteva ancora sentire lo sloveno, dice una signora di 85 anni, una delle tre persone che ancora risiedono qui. Suo padre ha sposato un’abitante del posto, trasferendosi sulle montagne da Vedronza (slov. Njivica), nelle Valli del Torre. Parlava sloveno, ma dopo il matrimonio ha dovuto imparare il friulano e in friulano hanno, in seguito, parlato anche in casa. Si ricorda dei rimbrotti tra bambini e fa canzoni scherzose, da lei sentite da ragazza. Ricorda anche come, ogni domenica, nella chiesa vicina venissero a messa gli abitanti delle località vicine: quelli di Flaipano, ma anche quelli della più lontana Pers (friul. Pêrs, slov. Breg), che dovevano partire da casa ancora col buio. Nelle chiese di queste borgate l’uso dello sloveno si è spento subito dopo il plebiscito del 1866. «Il cappellano che abbiamo ora insegna tutto in friulano», si legge negli scritti di Jan Baudoin de Courtenay a nemmeno dieci anni dal plebiscito.
All’epoca in cui la zona è stata visitata dal linguista polacco, l’ultima località in cui si parlava sloveno era Cretto di sotto (slov. Dolenje Ovše). Pavle Merkù spiega come in sloveno la borgata abbia preso il nome dagli ontani, da quegli alberi che la circondano e che in dialetto sloveno si chiamano «olše».
Oggi del vecchio paese non c’è traccia. È scomparso col terremoto. Sono rimaste solo una o due case, accanto a cui la tortuosa strada passa scendendo a valle, a Montenars e oltre, verso la pianura friulana.