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Questo blog parla delle minoranze linguistiche del Friuli:SLOVENA,FRIULANA eTEDESCA,articoli dei giornali della minoranza slovena,degli usi,costumi,eventi e tanto altro.Buona lettura.OLga

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5 giu 2020

Associazione don Mario Cernet-Združenje Don Mario Cernet

Ta teden vam na Združenju Don Mario Cernet povemo o postavitvi maje v Žabnicah! A veste, kaj je maja?
Tudi ta opis je v domačem ziljskem slovenskem narečju, knjižnem jeziku in italijanščini izšel v okviru naše publikacije »Jezək - karanina naše kulture/Jezik - korenina naše kulture/La lingua - la radice della nostra cultura« (2018).
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Questa settimana l'Associazione/Združenje Don Mario Cernet vi parla dell'innalzamento della maja a Camporosso! Sapete cos'è la maja?
Anche questa descrizione è stata pubblicata nel locale dialetto sloveno zegliano, in sloveno letterario e in italiano sul nostro libretto «Jezək - karanina naše kulture/Jezik - korenina naše kulture/La lingua - la radice della nostra cultura» (2018).


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1 giu 2020

DI GENTI, LUOGHI, ACQUE E DELLE ORIGINI DELLA PENTECOSTE IN FRIULI - Prima Parte



Continuiamo, dunque, questo viaggio nei tempi e nei luoghi del nostro Friuli, del Patriarcato di Aquileia e di quella che fu la Patria del Friuli.
Nelle ultime tre tappe abbiamo visto assieme la “rivoluzione” apportata dall’Impero Romano alle vie ed alle modalità di comunicazione fra la fine del I° millennio avanti Cristo e l’inizio del I° millennio dopo Cristo con la conseguente trasformazione del tessuto sociale-ambientale-urbanistico: rivoluzione e trasformazione che, per il territorio del nostro Friuli, hanno significato un’ulteriore implementazione del proprio ruolo strategico di crocevia di popoli, etnie, culture, modi di vedere, di pensare e di fare.
Un miscuglio eterogeneo ed un crogiuolo di razze, religioni, gruppi e individui molto diversi e diversificati tra loro: quello che oggi, all’inglese, viene chiamato “melting pot” (tradotto letteralmente in italiano: pentola di fusione).
Ovvero una pentola che avrebbe potuto esplodere o fondersi se non fosse stata messa su fuochi opportuni e gestita da chefs (capi come si dice in lingua francese, o capi-cuoco come si dice in inglese) capaci di comprendere e valorizzare le opportunità garantite da una simile situazione “biologica”.
Qualcuno si chiederà cosa c’entra la biologia in una questione sociale ed economica, vero?
La biologia c’entra perché la crescita della civiltà umana e della sua economia (nel senso etimologico del termine = saggia amministrazione del proprio luogo di vita) corrispondono esattamente a quelli che sono i processi biologici di crescita nell’ambiente naturale con l’incontro, la sovrapposizione, lo scontro e l’incrocio di elementi diversi e contradditori fra loro.
E con questo il Contastorie intende affermare che la civiltà europea è nata proprio nel “melting pot” di Aquileia e del Friuli fra la fine del I° millennio avanti Cristo e l’inizio del I° millennio dopo Cristo dove si sono incontrati, sovrapposti, scontrati ed incrociati i popoli di quel periodo (in particolare celti, ebrei, greci, alessandrini e latini, oltre a etnie protoslave e protogermaniche), i quali - grazie al messaggio cristiano di san Marco sulla salvezza universale - hanno identificato e realizzato una modalità di convivenza e di rispetto reciproco, base fondante di quello che avrebbe dovuto essere il Sacro Romano Impero nella vision di Carlo Magno e che sarebbe dovuta diventare l’Unione Europea secondo il disegno dei suoi padri fondatori…
E questo sarà un po’ il file rouge nella continuazione del nostro viaggio.
Ho voluto fare questa digressione (una sorta di sosta fuori dall’itinerario di un viaggio) sul ruolo storico di crocevia etnico e sulla funzione indiscutibile di crogiuolo civile svolto dalla terra friulana, perché da decenni sento parlare di questa terra come terra “ponte” fra l’Italia e l’Europa o come terra di “confine”, nell’accezione negativa che quest’ultima parola ha assunto nel lessico italiano contemporaneo (muro, steccato, divisione, conflitto, etc.).
Ora, parafrasando una canzone di Francesco De Gregori, su un ponte “non ci si ferma neanche per pisciare”, mentre in questa terra si sono fermati “tutti”; un confine, poi, normalmente non permette di entrare mentre in questa terra sono entrati “tutti”.
Un tanto per affermare che questa terra è ancora, o può – se vuole – essere ancora, crocevia e crogiuolo, riappropriandosi del ruolo che la natura e le genti le hanno assegnato nella storia…
E, pensate, proprio la parola confine conferma questo: la sua etimologia viene dal tardo latino “cum finis” (condividere un limite) utilizzato durante l’alto medioevo nei contratti agrari per segnare i limiti delle proprietà e specificare i reciproci doveri-diritti di condivisione del “confine” e del suo mantenimento.
Quindi, confine non significa divisione, bensì con-divisione…
Queste cose, prima dei libri e degli studi, me le aveva insegnate mio nonno Juchìn, il contadino che nella sua “braida” (podere) condivideva i confini con altri tre contadini (Zèf – Giuseppe, Jàcun – Giacomo e Tita – Giovanni Battista): a turno li curavano falciando l’erba, potando gli alberi, pulendo il greto della roggia e così via, poi alla sera e nel giorno di festa si trovavano assieme per bere un bicchiere in compagnia suonando e cantando in una “frasca” o in osteria con la gente del paese o forestiera.
E l’origine alto-medievale di questo termine giuridico e del suo significato testimoniano, se possibile, che il Medioevo non è stato proprio il periodo dei “secoli bui”, come ancora la storiografia italiana scrive nei propri libri, in particolare quelli dedicati alla scuola primaria e secondaria!
In effetti, questo significato di “condivisione” del termine confine è esistito nel lessico fino al XVIII secolo.
I secoli successivi, compreso quello che stiamo vivendo, forse sono veramente i “secoli bui” della civiltà, dove e quando – a modesto parere di un Contastorie – la saggezza e la condivisione hanno lasciato il campo alla follia ed alla speculazione con tutti gli “ismi” di questo mondo (illuminismi, razionalismi, nazionalismi, positivismi, ideologismi, capitalismi tanto per essere sintetico) deprivando la nostra civiltà dei concetti e delle pratiche del sacro e del mistero, utilizzando la natura e l’ambiente con modalità insensate ed autoreferenziali, modificando l’economia e l’impresa da metodi di costruzione in strumenti di distruzione, omologando massivamente comportamenti e desideri (addirittura per “legge”), trasformando la quotidianità in una vera e propria catena di montaggio uniforme e asettica, espellendo i corpi non produttivi (in primis i vecchi) in luoghi di detenzione coatta e di appropriazione “indebita” dell’altrui vita.
Altro che Medioevo!!!
Riflessioni personali – e spero, care amiche e cari amici del Contastorie, concorderete - che la pandemia di questo 2020 sta evidenziando nella loro cruda veridicità…
Ma torniamo, ora, al nostro viaggio ed a questa tappa.
Abbiamo già parlato in modo diffuso della presenza dei Celti e dei Latini nel periodo del fulgore della metropoli aquileiese, del suo porto e dei suoi mercati, solo accennando alla presenza di altre etnie, in particolare a quelle ebraiche, alessandrine ed elleniche.
E abbiamo già visto come la presenza delle acque marittime, fluviali, risorgive e lacustri – oltre a svolgere una funzione cruciale per le comunicazioni e gli scambi del tempo – detenessero un significato altrettanto cruciale per la religiosità e la ritualità celtica, quale luogo dell’incontro del mortale con l’immortale.
Tant’è vero che gran parte dei fiumi, torrenti e corsi del territorio (Timavo, Isonzo, Natisone, Torre, Cormòr, Tagliamento, etc.) derivano i loro nomi da etimi celtici.
Vogliamo ora dedicare qualche parola alla presenza ebraica e greca ed ai loro retaggi nella cultura friulana, sia a livello toponomastico sia a livello lessicale che patronimico, anche in funzione del fatto che ci stiamo approssimando alla Pentecoste.
Vi chiederete, giustamente: ma cosa c’entra la Pentecoste con la presenza ebraica e greca in Friuli?
Bene, con un po’ di pazienza cercherò di spiegarlo, partendo da dettagli a prima vista insignificanti o addirittura desueti per arrivare a capire perché la Pentecoste in Friulano si chiama “Pasche di Maj” (Pasqua di Maggio), perché i germanici vengono nelle “Terre di Aquileia” ovvero in Friuli a festeggiare la Pentecoste (i giovani, in particolare, festeggiando in modo orgiastico…), e così via.
Iniziamo dai retaggi greci nella cultura friulana.
Al di là delle iscrizioni e delle lapidi che tuttora vengono rinvenute sul territorio, al di là delle citazioni degli storici greci dell’epoca in riferimento ad Aquileia ed alle sue terre, ci sono dei frammenti greci nel lessico friulano che viene adoperato quotidianamente da centinaia di migliaia di persone.
Per esempio: sapete come si traduce l’italiano papà in friulano?
Si traduce con “pai”, derivato per contrazione dal greco παιδαγωγός (paidagogòs) ovvero educatore, colui che insegna la vita, ruolo che è stato per millenni delegato all’uomo nella civiltà friulana mentre alla donna era delegata l’amministrazione (l’economia) della famiglia.
Sapete come si dice (o si diceva) inferno in friulano?
“Boboròs”: quando ero bambino, per rimproverarmi o ammonirmi mia madre mi diceva “stâ in vuaita che tu vâs tal boboròs” (stai attento che vai all’inferno). E nel V secolo a.C. Socrate (il padre della filosofia greca), nel Fedone, rispondendo a chi gli chiedeva se temesse o meno la morte, così descriveva il luogo che lo aspettava: “nel regno dei morti ci sono due luoghi, i Campi Elisi dei beati da un lato e il “borboros” (βόρβορως) ovvero gli inferi, dall’altro”.
Sapete come si dice (o si diceva) umido, ruscello in friulano?
“Patòc” e “potòc” dal greco ποταμώς (potamòs) ovvero acqua, fiume… Tra l’altro, il cognome Potocco è diffuso principalmente in Friuli, con oltre 50 famiglie che portano tale patronimico (soprattutto nella zona del manzanese) e la sua presenza in altri territori deriva da emigrazione friulana.
Poca cosa? Beh, nelle prossime due tappe vedremo altri retaggi ellenici nella cultura e nella lingua friulane, legati particolarmente alla Pentecoste ed ai suoi riti locali.
Veniamo, ora, a quelli ebraici, anche prescindendo dalle lapidi e dalle iscrizioni archeologiche, che riempiono il Museo Paleocristiano di Aquileia, la cui sede di trova sulle fondamenta della sinagoga ebraica aquileiese edificata probabilmente nel III secolo a.C.
E qui partiamo dalla patronimica, lasciando a margine la diffusione in Friuli di cognomi derivanti dai nomi di profeti biblici (pensiamo solo a Iop, Ioppi, Jop, Job, etc.), concentrandoci sul patronimico Tam, presente praticamente solo in Friuli (oltre 100 famiglie) e derivante da una parola ebraica che significa sorgente.
Passiamo ora alla toponomastica con il nome di paesi, borghi e località friulani chiamati Osoppo (per esempio a est di Gemona, fra Latisana e Palazzolo dello Stella, vicino a Martignacco, presso Bertiolo): in friulano Osôf, che è il termine adoperato dagli ebrei per chiamare una pianta aromatica e terapeutica: l’issopo (in friulano "issov").
Ed, infine, arriviamo alla zona delle Prealpi friulane a est del Tagliamento, nella zona montano dei borghi di Pinzano – Forgaria – Clauzetto – Anduins – Vito d’Asio…
Sapete come sono chiamati gli abitanti di questa zona?
Avete presente la villotta friulana che inizia “Sul puint di Bràuilins al’ê passât un Asîn” (Sul ponte di Bràulins è passato un Asìno) che molti pensano parli di un àsino?
In realtà parla di un abitante di questa zona, la Val d’Arzìno, i cui abitanti sono chiamati Asîns.
E Asîn nell’antico aramaico – la lingua parlata in Palestina al tempo di Cristo – significava guaritore, terapeuta e faceva riferimento in particolare ad una setta giudaico-cristiana chiamata in ebraico “Esseni” ed in greco “Terapeuti” di cui abbiamo già parlato in precedenza e riparleremo nelle prossime tappe.
Ci fermiamo qui, stasera, per riprendere domani il viaggio con la scoperta del nesso fra queste parole e questi etimi, la Pentecoste e la storia del Friuli, nonché con qualche accenno ai retaggi alessandrini nella cultura friulana.

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