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IVAN TRINKO padre della Benecia

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9 lug 2020

SLAVIA: L'espansione slava dal Baltico all'Italia



di Matteo Zola
Le migrazioni dei popoli slavi
Dal VII al XI secolo l’Europa assiste all’ultima grande migrazione, quella degli slavi. Barbari pagani diversi dalle gentes che li hanno preceduti per lingua, religione e struttura sociale ma egualmente rivestiti di quell’ideale negativo di nemici della civiltà che già ebbero i loro predecessori. Il mondo antico guardò agli slavi con diffidenza, specialmente Bisanzio: ancora non sapevano quanto i loro destini si sarebbero incrociati in futuro.
L’etnogenesi degli slavi fu un processo molto lento e tuttora oscuro: arrivati dalle steppe dell’Asia essi devono avere completato il loro percorso di costruzione etnica nello spazio che va tra il Dnepr e in Dniestr, nel bacino del Prjpiat (SI LEGGA: “Un unico popolo, una sola lingua. Alle origini degli slavi“). Da questa “culla originaria” gli slavi mossero versto ovest dall’iniziò nel V° secolo provocando continui processi di aggregazione e disgregazione di gruppi che andavano via via diversificandosi tra loro anche linguisticamente, dove in luogo di un protoslavo comune hanno preso piede le parlate locali (a tutt’oggi restano circa duemila parole comuni nelle lingue slave, ed è cosa che un viaggiatore può facilmente sperimentare visitando l’Europa dalla Macedonia alla Russia).
Gli slavi e gli avari
A spingere gli slavi sempre più addentro al continente europeo fu la pressione di altri gruppi, in particolare unni e avari. Dopo aver sterminato i discendenti delle tribù unne, gli avari – una popolazione turcica proveniente dalle steppe – incorporarono e assimilarono i superstiti (Grousset, L’empire de steppes) e, attraverso progressive espansioni, raggiunsero il basso corso del Danubio dove già stanziavano popolazioni slave e longobarde. Lo storico Menandro restituisce una cronaca dettagliata di quegli anni in cui, sfruttando la potenza avara, i bizantini cercarono di liberarsi delle popolazioni slave consentendo al re avaro Baina di transitare “con sessantamila cavalieri armati di corazza” nel territorio dell’Impero. Le popolazioni protoslave degli Anti e degli Sclaveni vennero trucidate e i primi addirittura scomparvero dalla storia. Correva l’anno 602 d.C. La dominazione avara fu tale da essere ricordata secoli dopo, con compassione e terrore, dal monaco kieviano Nestore, nel suo Racconto dei tempi passati. Fredegario, storico alla corte dei Merovingi, all’inizio del VII secolo narra di come gli slavi fossero usati dagli avari come “carne da macello”, prime linee durante le battaglie. Le tribù slave ancora libere si saldarono allora in un’unione che, in Slovacchia, Moravia e Boemia, diede vita a un proto-Stato slavo in grado di fermare gli avari, che premevano a sud, e i germani che spingevano da nord. Era quello il regno della Grande Moravia, di cui parleremo in futuro.
Espansionismo slavo
Liberatisi del giogo avaro, ma non dalla cultura dei dominatori, l’espansione delle genti slave raggiunse vertici mai più visti nei secoli a venire: dall’Asia minore all’Africa settentrionale, da Creta fino all’Elba. Ne nacquero, nel giro di due secoli, regni stabili nei Balcani, lungo la Vistola, sul Baltico e oltre il Dnepr. La differenziazione tra i gruppi fu lenta e inesorabile, favorita dalle cesure operate da successive espansioni gotiche o germaniche che isolarono per certi periodi legentes slave. Dove non si formarono regni autonomi, gli slavi vennero assimilati (in Grecia), deportati (dalla Macedonia), combattuti e vinti (in Tracia), federati all’Impero bizantino (in Asia minore), colonizzati (in Germania orientale). Nella Spagna arabo-berbera della dinastia Omayyade gli slavi furono dapprima utilizzati come mercenari, poi come schiavi, e infine (coloro che seppero affrancarsi dalla servitù) come dignitari dei califfi. A questo milieuculturale si devono i primi testi slavofili, come quello a firma di un imprecisato Habib dal titolo: Contro coloro che negano l’eccellenza degli slavi. Il testo, scritto probabilmente da un intellettuale di origine slava, era redatto in arabo.
E in Italia? A Palermo, fino al 1090, quando ebbe termine la dominazione araba sull’isola, esisteva una “via slava”, a render conto della presenza di quella comunità in città. Già nel VII secolo si assistette a migrazioni dalla Dalmazia, sovente associate ad atti pirateschi, e di proto-bulgari nelle Marche. Risale al 926 un documento che attesta con l’appellativo di župan (vale a dire “signore”, in serbo) il reggente della città di Vieste. La presenza slava nella penisola è quindi millenaria, con buona pace di chi oggi parla di “stranieri” inaccettabili.
Lo “spazio slavo”come spazio psicologico
Questa espansione verso il cuore dell’Europa segnerà i confini psicologici dello spazio slavo. Uno spazio che, anche quando le genti slave ne verranno scacciate, resterà come retaggio mitico. Alla “slavia” perduta andranno i canti e i poemi cechi, polacchi, ucraini, durante le varie occupazioni straniere. Durante il romanticismo, nell’Ottocento, alcuni letterati slavi – come il boemo Jan Kollar- vedranno nella “slavia” perduta il seme per una nuova rinascita culturale. E tra le regioni “perdute” la più cara, ed amara, è senz’altro la Germania, di cui parleremo prossimamente.

Udine .- Cosa vedere, Come visitarla e Perché

8 lug 2020

Una cartolina da...

Topolò-Topolove
per saperne di più

PROVERBIO

Il proverbio friulano della settimana
di Vita nei campi

“Quan' che il gjâl al fâs chicchirichì / son tre oris denânt dì” ovvero quando il gallo fa chicchirichì sono tre ore avanti il giorno”

7 lug 2020

Che fatica una volta...


foto da archivio personale
 Koš – gerla-zei è una cesta in legnovimini o viburno intrecciati a forma di tronco di cono rovesciato, aperta in alto, usata per trasportare materiali vari; è munita di due cinghie, fettucce o spallacci di fusti di nocciolo per poter essere portata sulle spalle.
In latino si chiamava cista cibaria e veniva usata per il trasporto del cibo.In Carnia si ha il zèi (pronuncia locale: gei) per il trasporto di fieno, legna, formaggio, letame,prodotti agricoli ecc. (nella prima guerra mondiale veniva usata per portare le munizioni). Assieme al zèi si usava il màmul o musse, una sorta di treppiede in legno su cui si poggiava la gerla per poterla caricare senza bisogno d’aiuto.
per saperne di più vai a http://lnx.bravoscuole.it/mater/secresia/mestieriValResia.pdf
                   NA RAMANAH 
 Na ramanah so nosili sieno.
Na ramanah tou košu so nosili nuoj
   anu a zanašali v vilami.
Na ramanah so nosili derva
dal calendario 2014 del Centro  di Ricerche Culturali di Bardo-Lusevera
                SULLE SPALLE
Sulle spalle portavano il fieno.
Sulle spalle nella gerla portavano letame
lo spargevano con la forca.
Sulle spalle portavano la legna
Donna con gerla usata in Carnia,Benecija,paesi di montagna
Serviva per il trasporto di legna,fieno,prodotti del campo…
per saperne di più vai a http://lnx.bravoscuole.it/mater/secresia/mestieriValResia.pdf
                   NA RAMANAH   
Na ramanah so nosili sieno.
Na ramanah tou košu so nosili nuoj
   anu a zanašali v vilami.
Na ramanah so nosili derva
dal calendario 2014 del Centro  di Ricerche Culturali di Bardo-Lusevera
                SULLE SPALLE
Sulle spalle portavano il fieno.
Sulle spalle nella gerla portavano letame
lo spargevano con la forca.
Sulle spalle portavano la legna

6 lug 2020

Un ginocchio sul collo anche per noi


«Le vite dei neri contano – Black Lives Matter». Certamente contano. Non solo quelle dei neri, s’intende; ma bisogna vedere quanto contano e per chi. Valgono ora e valevano quando, per quasi tre secoli, ad iniziare dal XVI, la tratta degli schiavi africani ne fece strage a milioni nelle stive delle navi e nelle piantagioni americane. Erano bianchi, europei ed ex europei alla conquista del continente americano a sfruttare una manodopera a nullo o basso costo per costruirsi il cosiddetto sviluppo. Ci riempiamo la bocca a dire «America »! La esaltiamo come esempio di civiltà e libertà guardando la mastodontica statua con la fiaccola alzata verso il cielo nella Manhattan dei grattaceli, quando si proclama come simbolo della «Libertà che illumina il mondo – Liberty Enlightening
the World». A visitare la vicinissima isoletta Ellis Island, – che «accolse», si fa per dire, una dozzina di milioni di immigrati desiderosi di realizzare l’American dream / sogno americano scegliendo accuratamente gli abili al lavoro, scartando e rispedendo a casa gli inabili – la detta illuminazione libertaria vi passava sopra, illuminandola di scarsa e flebile sua luce.
Quante generazioni di neri si erano succedute dalla guerra di secessione americana che li avrebbe liberati dalla schiavitù, ma, si sa, la luce si riflette sul «bianco», si perde sul nero… anche la luce della vera libertà.
Parrebbe che il razzismo faccia parte del genoma umano considerando quanto questa caratteristica sia influente sul comportamento del nostro genere. Quello di distinguere, discriminare il simile in base alle sue caratteristiche fisiche, linguistiche, culturali, di provenienza o di censo. Il «nero», purtroppo per lui, è troppo visibile, non può confondersi nel gruppo se non in quello dei suoi simili, e da singolo o come gruppo, anche oggi «conta» solo nella sua inveterata veste di schiavo. Per constatarlo dobbiamo guardare all’America di Trump? Al ginocchio del poliziotto piantato sulla carotide e sulla giugulare di George Perry Floyd, padre di cinque figli? Aveva tentato di spacciare una banconota falsa di 20 dollari. Col poco fiato che gli rimaneva chiamava sua madre come un bambino e chiedeva solo di poter respirare. Erano in tre gli agenti bianchi a tenerlo a bada e armati. Inutile chiederci come si sarebbero comportati se a terra ci fosse stato un bianco come loro.
«Le vite dei neri contano?» Contano, sì, anche da noi. «Un euro e mezzo all’ora per stare nei campi fino al crollo fisico», scriveva mercoledì scorso (24.6.) su Repubblica il giornalista Michele Serra sotto il titolo emblematico: «In quale secolo siamo? Maltrattamenti, segregazione, razzismo».
Siamo in Italia, regrediti a secoli in cui si disputava se i neri avessero l’anima. Ma siamo oggi, nell’Italia dell’immigrazione clandestina raccolta in furgoni come fossero cani randagi, robot da usare come attrezzi usa& getta in campi di pomodori. Peggio della schiavitù sudista americana, suggerisce Serra, infatti là uno schiavo valeva, contava – come schiavo, s’intende – e non era economicamente conveniente strapazzarlo troppo; come non lo si fa coll’asino.
Una società come la nostra, che dichiara nei primi articoli della sua legge costitutiva di repubblica democratica fondata sul lavoro, nel 2020 può permettersi di ignorare, tollerare, a volte favorire situazioni disumane portate all’estremo. È più crudele e diabolico sfruttare fino ad esaurimento la debolezza contrattuale di persone che, per essere rifiutate, discriminate, ignorate non hanno voce, con quel ginocchio sul collo che, invece di durare otto minuti dura giorni, mesi, anni e per qualcuno il tempo di una fucilata o di un incidente. È subdolo, oggi, il razzismo; cerca ragioni giuridiche per camuffarlo e grida: Prima noi! «America first» di Trump, che fa eco al fatidico «Deutschland Uber Alles». Prima i bianchi; prima gli italiani… Prima «io», il pronome più in voga, il più evidente e rafforzato dal potere, dalla razza egemone, dalla forza del dollaro, euro, sterlina, yen, yuan o franco che sia. Un euro e mezzo all’ora, e taci, lavora… e paga cara la carretta che ti porta nei campi e la baracca fatiscente in cui puoi riposare.
Un ginocchio sul collo, d’altronde, l’abbiamo avuto anche noi, sloveni, discriminati e vilipesi, considerati barbari ed incivili per aver resistito all’assimilazione forzata dai primordi dello Stato in cui fummo fagocitati, visti più come prede che come parte di una nazione che si diceva al massimo grado della civilizzazione sociale e culturale.
Varrà qualcosa la rabbia scatenata dei discriminati neri che reclamano il diritto alla vita e di aver riconosciuto non solo a parole il diritto di esserci, di avere la dignità di cittadino, di vedersi riconoscere senza infingimenti il proprio valore? Nella storia il ginocchio piegato fa pensare a Canossa, al re Enrico IV per tre giorni carponi davanti al castello di Matilde per rimediare alla scomunica papale, al penitente che si batte il petto riconoscendo la propria colpa. Oggi vale come protesta, come solidale gesto di ribellione ad uno strapotere ingiusto e disumano, che svuota in sé quella luce di uguaglianza e libertà che dovrebbe giungere sul serio dalla fiaccola di Manhattan.
Riccardo Ruttar

I bambini bilingui hanno una marcia in più rispetto ai monolingui.

Secondo uno studio dell'Università di Washington, i bambini  che apprendono una seconda lingua già da quando sono in fasce ,sono avvantaggiati rispetto ai monolingui . I cervelli, cresciuti in un ambiente bilingue, mostrano un più lungo periodo di flessibilità a differenti lingue ,se esposti continuamente ad esse.La  docente di psicologia dell'età evolutiva alla  Sapienza, Anna Oliverio Ferraris a tal proposito, ha affermato che "usando due lingue si diventa più assertivi e indipendenti e si comunicano meglio i propri bisogni."

Quindi i bambini  che abitano nelle zone del Friuli Venezia Giulia dove si parla lo sloveno,  il tedesco e il friulano sono molto avvantaggiati .

OLINTO MARINELLI geografo friulano

OLINTO MARINELLI (Udine 1874 – Firenze 1926)

Ho scoperto questo personaggio friulano grazie alla lettura della “Guida delle Prealpi Friulane”, pubblicata a Udine nel 1912 dalla “Società Alpina Friulana”, una guida ottimamente correlata con disegni a penna di Antonio Pontini.
Quindi, dopo avervi parlato di Giovanni Marinelli, il primo grande geografo friulano, ora traccio alcune note che riguardano questo illustrissimo professore di geografia naturalistica italiana tra i più noti non solo in Friuli ma anche nel mondo intero.
Non soltanto figlio ma erede quasi per vocazione naturale della passione del padre Giovanni, per gli studi geografici, fu avviato alle scienze fisiche, Olinto Marinelli si laureò a Firenze nel 1895 in scienze naturali.
All’età di diciotto anni, aveva allora già pubblicato uno studio sul Lago di Cavazzo (1892) e si presentava con una notevole preparazione scientifica: insegnò in Sicilia e poi ad Ancona, ricavandone vantaggi notevoli per un personale arricchimento, fino a conseguire la libera docenza.
Prendeva così la cattedra di geografia a Firenze, che era stata del padre.
Nel suo insegnamento universitario si rivelò il più completo geografo della scuola italiana in questa disciplina che Olinto Marinelli seppe fondere in un mosaico di scienze interdipendenti.
Quasi cinquecento sono i titoli delle sue pubblicazioni, con interessi alla geologia, ai fenomeni fisici, biologici e antropici, alla cartografia e alla modificazione fisica del territorio legata alla meteorologia.
Gli interessava tutto: centri abitati e topografia, storia e problemi politici, etnici e linguistici.
Lo prova il suo Atlante dei Tipi Geografici, le Guide delle Prealpi Giulie e di Gorizia con le vallate dell’Isonzo e del Vipacco, compilate seguendo la metodologia del grande padre.
Il tempo dedicato alla cattedra non gli proibì di interessarsi particolarmente al Friuli e di partecipare a congressi e spedizioni scientifiche: nel 1905 fu in Eritrea e nella Dancalia…, nel 1912, con i più noti geografi europei, fu invitato nel Nordamerica, ospite a New York di quella Società Geografica…, nel 1914 raggiunse il Tibet, il Turchestan Cinese e il Caracorum…, nel 1925 visitò il Dodecanneso, Rodi, la Palestina e l’Egitto.
Voglio anche segnalarvi che Olinto Marinelli diresse fino in fondo la miglior opera del T.C.I: il Grande Atlante Internazionale.
Di questo grande geografo, io ho letto anche “Il Friuli come tipo di regione naturale”, pubblicato la prima volta a Udine nel 1917…, e poi “Il Friuli e la Venezia Giulia. Problemi di geografia amministrativa e di toponomastica”, pubblicato sempre a Udine nel 1923.

GIUSEPPE UNGARETTI - DI LUGLIO

Luglio, col bene che ti voglio » inno3



Quando su ci si butta lei,
Si fa d’un triste colore di rosa
Il bel fogliame.
Strugge forre, beve fiumi,
Macina scogli, splende,
È furia che s’ostina, è l’implacabile,
Sparge spazio, acceca mete,
È l’estate e nei secoli
Con i suoi occhi calcinanti
Va della terra spogliando lo scheletro.
(da “Sentimento del tempo”, 1943)

5 lug 2020

GIOVANNI MARINELLI geografo friulano

Giovanni Marinelli (Udine, 28 febbraio 1846 – Firenze, 2 maggio 1900) è stato un geografo italiano.

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Gli studi geografici italiani, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento devono il loro fiorire a Giovanni e Olinto Marinelli, seguiti o accompagnati da un altro gruppo di notissimi friulani.
Giovanni Marinelli, udinese, a sedici anni si iscrisse a matematica a Padova, per passare subito a legge: prima della laurea, a corsi completati, abbandonò tutte due le materie per insegnare storia e geografia a Udine.
Il matrimonio mise un qualche ordine nella sua vita e nel 1872, all’Accademia di Udine, propose l’istituzione di un osservatorio meteorologico a Tolmezzo, che fu subito approvato.
Anzi se ne aggiunsero altri a Pontebba, Ampezzo e nei bacini del Tagliamento e dell’Isonzo.
Si diede alle esplorazioni morfologiche, geologiche, botaniche, etnografiche e linguistiche della Regione.
L’amicizia con geografi dell’università di Padova, gli procurò l’ingresso all’insegnamento universitario a soli trentadue anni: per quattordici anni insegnò geografia a Padova e dal 1892 fino alla morte a Firenze.
E in questo insegnamento fu un maestro: noto in tutto il mondo scientifico per le sue numerose pubblicazioni, educò una generazione agli studi geografici, fondò società e sodalizi, tra cui la Società Alpina Friulana, la Società di studi geografici e coloniali di Firenze, diresse la Rivista Geografica italiana, fu quattro volte deputato al Parlamento per Gemona-Tarcento.
Trovò la geografia ad uno stato di emarginazione e di quasi disistima tra le varie discipline e la portò a vera scienza con una produzione abbondantissima, innovativa e rigorosa.
Nel 1894 pubblicò le due Guide dei Canal del Ferro e della Carnia e la grande sintesi di geografia universale, in sette volumi, dal titolo La Terra, edita da Vallardi nel 1869.
Oltre duecento lavori costituiscono un corpus di studi che collocano Giovanni Marinelli tra gli «apostoli» del progresso geografico.
Io considero il Marinelli il maggior divulgatore, organizzatore e coordinatore tra tutti i geografi italiani, soprattutto con il suo volume “La Terra”, un trattato popolare di geografia universale composto di otto bei grossi tomi, che considero la prima vera e la più importante enciclopedia italiana di geografia.

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