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IVAN TRINKO padre della Benecia

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12 nov 2020

Sono passati 100 anni dallo smembramento della Slovenia

 Il trattato di Rapallo, firmato il 12 novembre 1920, fu un accordo con il quale l'Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabilirono consensualmente i confini dei due Regni e le rispettive sovranità, nel rispetto reciproco dei principi di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli. Esso rappresentò la conclusione del processo risorgimentale di unificazione italiana sino al confine orientale alpino e l'annessione al Regno d'Italia di GoriziaTriestePola e Zara.

I Patti di Londra e la vittoria dell'Intesa

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Le terre del Mare Adriatico nel 1911.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, il Ministro degli affari esteri italiano Sidney Sonnino non si era reso conto della caratteristica di “guerra delle nazionalità”, intrinseca al conflitto, che pure era evidente nel casus belli, cioè l'Attentato di Sarajevo; né aveva compreso l'aspetto “planetario” del conflitto. Sonnino aveva negoziato il Patto di Londra, ritenendo che la guerra sarebbe stata breve e l'impero asburgico sarebbe sopravvissuto. Aveva quindi condizionato l'ingresso dell'Italia in guerra, non solo al raggiungimento dei confini nazionali, ma anche al conseguimento di territori abitati da altre etnie (tra cui l'entroterra della Dalmazia, abitato da Slavi). In tale ottica, sia il Regno di Serbia, sia le altre nazionalità slave dell'Impero erano viste non come alleati, ma come dei potenziali contendenti[1].

Con il Patto di Londra, stipulato in gran segreto il 26 aprile 1915, l'Italia s'impegnò dunque ad entrare in guerra a fianco di RussiaFrancia e Regno Unito in cambio delle regioni del Trentino, dell'Alto Adige, della Venezia Giulia (con i territori di TriesteGorizia e GradiscaPola, l'Istria fino a VoloscaMattuglie e Castua e le isole occidentali del Quarnaro, ma con l'esclusione di Fiume) e della Dalmazia settentrionale (con ZaraSebenico e, nell'entroterra, Tenin, ma senza SpalatoTraùRagusaCattaroPerasto e le altre città meridionali), della sovranità sul porto di Valona, della conferma del Dodecaneso e la rettifica dei confini in Africa orientale e in Libia. Inoltre era garantita la penetrazione economica italiana sulla provincia di Adalia, in Turchia e un protettorato sull'Albania, pur essendo quest'ultima uno Stato indipendente e neutrale. Il 24 maggio 1915, l'Italia dichiarò guerra all'Austria.

Il problema dell'applicabilità del Patto di Londra alla Dalmazia si manifestò già in piena prima guerra mondiale, il 20 luglio 1917, con la firma, sull'isola di Corfù, della cosiddetta dichiarazione di Corfù da parte del Comitato jugoslavo (formato da politici esuli dell'Impero austro-ungarico e che rappresentavano le etnie slovena, serba e croata)[2], con i rappresentanti del Regno di Serbia, e sponsorizzati politicamente da Gran Bretagna e Francia, sotto il principio dell'autodeterminazione dei popoli. L'accordo rese imprescindibile la creazione di un Regno dei Serbi, Croati e Sloveni sulle ceneri dell'Impero austro-ungarico.

Dopo oltre tre anni di battaglie nel Triveneto, la situazione si risolse a favore dell'Intesa con la decisiva Battaglia di Vittorio Veneto, che iniziò il 24 ottobre 1918 e che fu vinta dalle truppe di Diaz contro le forze imperiali; a Padova, il 3 novembre 1918, fu firmato l'armistizio e le truppe italiane occuparono Gorizia (7 novembre), allontanando il reggimento sloveno in ritirata che aveva occupato i punti nevralgici della città, MonfalconeTrieste (3 novembre), Capodistria (4 novembre), Parenzo (5 novembre), Rovigno (5 novembre), Pola (5 novembre), Fiume - che si era autoproclamata italiana - (4 novembre), e Zara e Sebenico, cercando di spingersi addirittura fino a Lubiana, ma venendo fermate nei pressi di Postumia dai serbi.

La Conferenza per la pace

Mappa linguistica austriaca del 1896, su cui sono riportati i confini (segnati con pallini blu) della Dalmazia veneziana nel 1797. In arancione sono evidenziate le zone dove la lingua madre più diffusa era l'italiano, mentre in verde quelle dove erano più diffuse le lingue slave

Alla Conferenza per la pace i rappresentanti dell'Italia (Vittorio Emanuele Orlando e il Ministro per gli affari esteri Sidney Sonnino) chiesero l'applicazione integrale del Patto di Londra, e, in aggiunta, l'annessione della città di Fiume. Tali richieste si rivelarono in controtendenza con i princìpi della Conferenza per la pace. A Parigi, infatti, le potenze vincitrici accolsero i principi di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli, quest'ultimo propugnato dal presidente statunitense Wilson, che non aveva sottoscritto il Patto di Londra[3]. Wilson individuava infatti quattordici punti per una pace equa tra le nazioni: tra essi la “rettifica delle frontiere italiane secondo linee di demarcazione chiaramente riconoscibili tra le due nazionalità” (punto 9); “un libero e sicuro accesso al mare alla Serbia”, e delle “garanzie internazionali dell'indipendenza politica ed economica e dell'integrità territoriale degli stati balcanici” (punto 11).

La questione dei territori che sarebbero spettati agli italiani fu dibattuta a partire dal mese di febbraio, e in quell'occasione Orlando si ritrovò di fronte l'ostilità degli jugoslavi, che miravano a ottenere, oltre alla Dalmazia, anche il CarsoGoriziaTriestePola e l'Istria, e che l'11 febbraio proposero alla delegazione italiana di affidare al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson la risoluzione delle controversie sui territori; il netto rifiuto degli italiani provocò disordini a LubianaSpalato e Ragusa di Dalmazia, ai quali Orlando rispose rivendicando con fermezza Fiume.

Fu proprio sulla questione legata alla città portuale che l'Italia aveva trovato la grande ostilità di Wilson, il quale, il 19 aprile, avanzò la proposta di creare uno stato libero di Fiume, spiegando che la città istriana doveva essere un porto utile per tutta l'Europa balcanica e che le rivendicazioni dell'Italia nei territori a est del Mare Adriatico andavano contro i quattordici punti da lui stesso fissati l'8 gennaio 1918 con l'obiettivo di creare una base per le trattative di pace, tanto da essere additate come "imperialiste". Fece pubblicare, sui giornali francesi, un suo articolo che ribadiva questi concetti[4].

Nello stesso giorno, il primo ministro italiano lasciò polemicamente Parigi: al suo rientro in Italia, le piazze lo accolsero con grande calore, mentre a RomaMilanoTorino e Napoli si verificarono disordini presso le ambasciate britanniche, francesi e statunitensi. Orlando fece ritorno a Parigi il 7 maggio, dopo che, il 29 aprile, la Camera aveva confermato la fiducia al suo governo. Ma la mossa di Orlando non ebbe l'effetto sperato e, al suo arrivo nella capitale francese, il politico italiano trovò un clima decisamente ostile nei suoi confronti, tanto che si rese conto dell'impossibilità di proseguire sulla propria linea e rassegnò le dimissioni.

Il 21 giugno 1919Francesco Saverio Nitti ottenne da Re Vittorio Emanuele III l'incarico di formare un nuovo governo. Nitti ottenne la fiducia il 12 luglio; nuovo ministro degli esteri fu Tommaso Tittoni.

La firma del trattato di Saint-Germain e l'occupazione di Fiume

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D'Annunzio ritratto in un francobollo fiumano del 1920.

Il 10 settembre seguente Nitti sottoscrisse il trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci (quindi il confine del Brennero), ma non quelli orientali. Le potenze alleate, infatti, avevano autorizzato l'Italia e il neo-costituito regno dei Serbi, Croati e Sloveni (che nel 1929 avrebbe assunto il nome di Jugoslavia) a definire congiuntamente i propri confini. Immediatamente (12 settembre 1919), una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal poeta Gabriele d'Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendo l'annessione all'Italia.

Tra il popolo era dunque cresciuta la delusione per la cosiddetta "Vittoria mutilata" e la sfiducia verso le istituzioni era largamente aumentata dopo la caduta del gabinetto Orlando - arenatosi proprio sul progetto dell'espansione nei Balcani - e, soprattutto, dopo la firma del trattato di pace con la sola Austria. Nitti, nonostante gli fosse confermata la fiducia del governo, scelse di dimettersi il 16 novembre, preoccupato anche dalle agitazioni sul fronte interno degli operai e degli agricoltori. Le elezioni di dicembre decretarono la vittoria dei socialisti e l'esecutivo fu affidato ancora a Nitti.

Nel maggio 1920, a Pallanza, il nuovo Ministro degli affari esteri Vittorio Scialoja iniziò i negoziati con i rappresentanti jugoslavi; tali colloqui non ebbero esito in quanto la controparte insisteva per la fissazione dei confini sulla cosiddetta “Linea Wilson”, che portava il confine a pochi chilometri da Trieste e - chiaramente - l'esclusione di Fiume dalle richieste italiane. Ne conseguirono le dimissioni del Governo Nitti II, nel giugno 1920[5].

Genesi e conclusione del trattato di Rapallo

I negoziati e la riunione di villa Spinoli

L'attuale Slovenia: in rosa chiaro la parte della Venezia Giulia occupata all'Italia dal 1920 al 194

Giovanni Giolitti, che successe a Nitti il 15 giugno 1920, ereditò da quest'ultimo la questione adriatica e il problema della definizione dei confini orientali. A tal fine, scelse Carlo Sforza come Ministro degli affari esteri. Quest'ultimo, allo scoppio della prima guerra mondiale, era politicamente collocato nelle file dell'interventismo democratico. La sua visione della guerra era conforme a quella mazziniana e risorgimentale, secondo cui la dissoluzione dell'Impero austro-ungarico sarebbe stata ineluttabile, dovuta al risveglio delle nazionalità oppresse. Diplomatico di carriera, tra il 1916 e il 1918, Sforza aveva rivestito la carica di ministro plenipotenziario presso il governo serbo - rifugiatosi a Corfù - e si trovò a gestire diplomaticamente il nodo dei rapporti transadriatici, in contrasto con il suo superiorepolitico Sidney Sonnino. In tale veste aveva stretto ottimi rapporti con i rappresentanti politici serbi, che conosceva personalmente.

Una delle prime iniziative adottate da Sforza, fu l'evacuazione delle truppe d'occupazione italiane in Albania, mantenendo una sola guarnigione sull'isoletta di Saseno. Tale operazione fu attuata anche in vista di una normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi.

A latere della Conferenza interalleata di Spa, nel luglio 1920, Sforza ebbe tre colloqui con il Ministro degli esteri del regno dei Serbi, Croati e Sloveni Ante Trumbić. Nel terzo di tali colloqui, che si tenne il 17 luglio, Trumbić espresse a Sforza il desiderio di riprendere i colloqui interrotti a Pallanza. Il ministro degli Esteri italiano rispose di condividere la necessità di riprendere il negoziato, ritenendo peraltro che ogni precedente risoluzione doveva considerarsi azzerata. Sforza si disse favorevole alla costituzione di uno Stato indipendente fiumano, ma aggiunse di considerare essenziale un confine fissato sulle Alpi Giulie, coincidente con quello naturale tra i due Regni, e l'integrazione in favore dell'Italia di alcune isole adiacenti, quali Cherso e Lussino ed altre da definire. Affermò, infine, di essere disposto ad affrontare qualsiasi passeggera impopolarità nel suo paese, pur di difendere gli interessi permanenti dell'Italia e della pace tra i due Regni[6].

Nelle settimane successive Trumbić si recò a Londra e a Parigi, al fine di premere sui governanti inglesi e francesi sulle pretese del nuovo governo italiano. Il ministro jugoslavo fu tuttavia diplomaticamente ben contrastato dal ministro Sforza, che, in entrambi i casi, fece illustrare ai governanti alleati la posizione italiana dai nostri ambasciatori. Contemporaneamente, Sforza inviò dei dispacci dettagliati ai suoi colleghi inglese e francese, ed anche a Washington, circa la linea di confine che definiva non negoziabile con gli jugoslavi, acquisendone l'appoggio diplomatico[7]. Infine, Sforza dette istruzioni all'ambasciatore italiano a Belgrado di far presente al Primo ministro jugoslavo Milenko Vesnić, che l'evacuazione dell'Albania da parte delle truppe italiane, e la non annessione italiana di Fiume, costituivano due atti, da parte dell'Italia, che il governo jugoslavo doveva, giustamente, apprezzare.

Il negoziato fu fissato a partire dal 7 novembre successivo, nella Villa Spinola (oggi conosciuta anche come "Villa del Trattato"), nel borgo di San Michele di Pagana presso Rapallo. Sforza era accompagnato dal Ministro della guerra Ivanoe Bonomi; solo a trattative ultimate, per la firma dell'accordo, fu raggiunto dal Primo ministro Giolitti. La delegazione jugoslava era composta dal Primo ministro Vesnić, dal ministro Trumbić e dal Ministro delle finanze Kosta Stojanović.

Sin dalla prima riunione, apertasi l'8 novembre alle ore 9.30, Sforza pose sul tavolo le sue condizioni: la fissazione della frontiera terrestre allo spartiacque alpino da Tarvisio al Golfo del Quarnaro, compreso il Monte Nevoso; la costituzione del territorio di Fiume in Stato libero indipendente, collegato all'Italia da una striscia costiera, l'assegnazione all'Italia della città di Zara e delle isole di ChersoLussinoLagosta e Pelagosa. Nei due giorni successivi, si tentò ancora, da parte di Belgrado, di avvicinare gli ambasciatori inglese e francese, al fine di premere sui rappresentanti italiani, ma senza alcun esito. La mattina del 10 novembre, Sforza poté, dunque, insistere su tutti i punti richiesti, salvo che per l'isola di Lissa, che, inizialmente, faceva parte delle richieste italiane. Infine, superando anche le ultime riserve relative al passaggio di Zara all'Italia, la sera del 10 novembre, Ante Trumbić comunicò a Sforza di accettare le frontiere proposte dal governo italiano[8]. L'accordo venne sottoscritto il 12 novembre 1920.

Un successivo accordo, firmato il 25 novembre 1920 a Santa Margherita Ligure, prevedeva una serie di intese economiche e finanziarie tra i due paesi e, il 12 novembre, i due governi sottoscrissero una convenzione antiasburgica per la mutua difesa delle condizioni del precedente Trattato di Saint-Germain.

https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Rapallo_(1920)

11 nov 2020

11 novembre San Martino

 



Vittore Carpaccio Data 1480-1490 circa Tecnica olio su tavola Ubicazione Museo d’arte Sacra, Zara Il Polittico di Zara è un dipinto olio su tavola di Vittore Carpaccio, databile al 1480-1490 circa e conservata nel Museo d’arte Sacra della cattedrale di Sant’Anastasia a Zara. L’opera viene in genere indicata una delle primissime nel percorso artistico del pittore.

Proverbio friulano

Soreli a San Martin
al dà un inviêr cianin

se c’è sole il giorno di San Martino
in inverno avremo un freddo cane.

dal web

Il padre, un ufficiale dell’esercito dell’Impero Romano, gli diede il nome di Martino in onore di Marte, il dio della guerra. Con la famiglia il giovane Martino si spostò a Pavia, dove trascorse la sua infanzia e dove, contro la volontà dei suoi genitori, cominciò a frequentare le comunità cristiane. A quindici anni, in quanto figlio di un ufficiale, dovette entrare nell’esercito e venne quindi inviato in Gallia.
La tradizione del taglio del mantello Quando Martino era ancora un militare, ebbe la visione che divenne l’episodio più narrato della sua vita e quello più usato dall’iconografia e dalla aneddotica. Si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D’impulso tagliò in due il suo mantello militare e lo condivise con il mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi. Il termine latino per “mantello corto”, cappella, venne esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di san Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all’oratorio reale, che non era una chiesa, chiamato cappella. (wikipedia)

Nel periodo di S.Martino 11-12 novembre le giornata sono solitamente tiepide e soleggiate tanto da meritarsi la definizione di”estate di S.Martino”.I primi giorni di novembre si fanno i primi assaggi dalle botti e si stappa il vino novello.Il tutto accompagnato da castagne e dolci tipici.
In questa giornata la Chiesa fa delle liturgie per il Ringraziamento.

SAN MARTINO IN SLOVENIA 

Il periodo intorno alla Festa di San Martino è il periodo in cui i contadini svolgono gli ultimi lavori autunnali e iniziano a preparasi per l’inverno. Specialmente in campagna è anche il periodo in cui avvengono celebrazioni rituali tradizionalmente intrecciate con la vita rurale.

Per la Festa di San Martino, cioè l’11 novembre, si rievoca l’onomastico di San Martino, il santo che secondo la leggenda trasforma l’acqua in vino. Ogni anno, in omaggio alla Festa di San Martino, si svolgono per l’intera settimana numerose celebrazioni tradizionali in onore di San Martino. Il santo è festeggiato in tutta la Slovenia, sia in paesi sia in città.

Proprio in questo periodo il vino matura e le celebrazioni di solito comprendono la benedizione della trasformazione del mosto “torbido” e “peccaminoso” in vino puro. Le feste in onore di San Martino di regola abbondano di gioia, musica, specialità gastronomiche locali e ovviamente – vino.

Sebbene le feste siano organizzate dappertutto, l’esperienza più genuina la si vive nelle cantine, nelle rivendite di vino sfuso e nei casotti tra i vigneti.


“Göra ta ćanïnawa”, il canto tradizionale resiano sul web

 https://novimatajur.it/cultura/gora-ta-caninawa-il-canto-tradizionale-resiano-sul-web.html


Su YouTube e sulla pagina FB dell’Ecomuseo Val Resia è stato pubblicato il videoclip promozionale del canto tradizionale resiano “Göra ta Ćanïnawa”, realizzato da Christian Madotto e prodotto dal coro spontaneo del Gruppo Folkloristico Val Resia con il Museo della Gente della Val Resia e patrocinato dall’Ecomuseo Val Resia, nell’ambito del progetto “Tradizione viva – Žïwa nawada”, finanziato dalla Regione FVG. Il coro spontaneo femminile proprio in questi giorni avrebbe dovuto partecipare al “Festival Campana Paterna” di Vilnius (Lituania), in programma dall’11 al 15 novembre.

Catena montuosa dello Stol da Kobarid/Caporetto alla ValTorre

 L'intera catena montuosa dello Stol da Kobarid/Caporetto alla ValTorre

10 nov 2020

covid19 precauzioni

 Panoramica dei casi

Friuli-Venezia Giulia
Casi totali
15.534
+320
Guarigioni
3.144
Decessi
349
Italia
Casi totali
995.000
+25.269
Guarigioni
363.000
Decessi
42.330
+356
Tutto il mondo
Casi totali
51,2 Mln
Guarigioni
33,5 Mln
Decessi
1,27 Ml
Indossando la mascherina
salvi vite
Indossa la mascherina
Igienizza le mani
Mantieni la distanza di sicurezza
Proteggiti e salvaguarda gli altri intorno a te informandoti e adottando le dovute precauzioni. Segui le indicazioni fornite dalle autorità sanitarie locali.

Per prevenire la trasmissione di COVID-19:
Igienizza spesso le mani con acqua e sapone o usando un apposito prodotto disinfettante a base alcolica.
Mantieni una distanza di sicurezza da chiunque tossisca o starnutisca.
Indossa una mascherina quando non è possibile rispettare il distanziamento fisico.
Non toccarti gli occhi, il naso o la bocca.
Tossisci o starnutisci nella piega del gomito o usa un fazzoletto di carta, coprendo il naso e la bocca.
Se non ti senti bene, resta a casa.
In caso di febbre, tosse e difficoltà respiratorie, contatta l'assistenza sanitaria.
Chiama prima di presentarti in ambulatorio: consentirai agli operatori sanitari di indirizzarti rapidamente alla struttura sanitaria adeguata. Questa precauzione garantisce maggiore protezione per te e consente di evitare la diffusione di virus e altre infezioni.
Mascherina
La mascherina contribuisce a evitare la trasmissione del virus dalla persona che la indossa agli altri, ma da sola non protegge dal COVID-19 ed è da impiegare in combinazione con il distanziamento fisico e l'igiene delle mani. Segui le indicazioni fornite dalle autorità sanitarie locali.

dal web

JOSIP BROS TITO e la sua storia

 

Ringrazio la blogger di Omsk Lyudmila Fedodorovna per questa ricerca

I residenti del nostro paese conoscono la risposta a una domanda così interessata e gli abitanti della nostra città di Omsk? Dopotutto, abbiamo Broz Tito Street, che si trova nel centro di Omsk, e molte persone ci passano ogni giorno.


Leader rivoluzionario, politico, statista, militare e di partito jugoslavo. Leader della Jugoslavia dal 1945 fino alla sua morte nel 1980. Dal dicembre 1937 è a capo del CPY. È stato presidente dell'Unione dei comunisti di Jugoslavia dal 1966.

Come è finito Josip Broz a Omsk?

Nasce nel 1892 in campagna, a Kumrovitsa. A quel tempo, questo territorio faceva parte dell'Impero Austro-Ungarico. Nel 1913 Josip fu arruolato nell'esercito.

Inizia la prima guerra mondiale. Nella primavera del 1915 Brose fu ferito e, già nel grado di sottufficiale, fu catturato dai russi. Fu curato e mandato negli Urali. Nel 1917 Josip fu rilasciato, ma poche settimane dopo fu nuovamente arrestato. Broz è riuscito a scappare e per qualche tempo si è nascosto nel villaggio di Mikhailovka, che non è lontano da Omsk. Era lì che gli piaceva la ragazza del posto Pelageya. È noto che il maresciallo Tito era un uomo molto capriccioso (la prova di ciò può essere considerata i suoi cinque matrimoni e gli innumerevoli romanzi per tutti gli 87 anni della sua vita), ma fu Pelageya Belousova a diventare la sua prima moglie.

Pelageya Denisovna Belousova è nata in una famiglia di contadini ordinari nel 1904. Quindi, al momento dell'incontro con il futuro leader jugoslavo, non aveva ancora 15 anni. Lo stesso Brose aveva più di 10 anni in più del suo prescelto. La famiglia Belousov nascose a casa il fuggitivo Josip, grazie al quale iniziò una relazione tra i giovani.

Nel 1919, Josip e Pelageya si sposarono in una delle chiese di Omsk. Tuttavia, il matrimonio doveva essere registrato di nuovo.

"Mi sono sposato con Pelageya Denisovna Belousova nella chiesa della città di Omsk quando Kolchak era al potere", ha detto Tito durante l'interrogatorio della polizia di Zagabria nel 1928. "Poi, poiché questo matrimonio non è stato riconosciuto dai bolscevichi, ho registrato un matrimonio civile con lei a Omsk nel 1920 ". Questo evento ebbe luogo il 7 settembre 1920, di cui è stato conservato il record fatto negli atti del comitato esecutivo regionale di Bogolyubsky della regione di Omsk.

Il fatto è che i bolscevichi non consideravano il matrimonio un atto ufficiale e nel 1920 gli sposi registrarono il loro stato civile in conformità con le nuove leggi. Inoltre, secondo i documenti, il cognome dei coniugi è indicato come Brozovichi.

Per qualche tempo Brozovichi ha vissuto a Omsk. E il capofamiglia ha anche lavorato come meccanico in città. Ma non è durato a lungo. Nello stesso 1920 la coppia partì per la Jugoslavia.

Al ritorno dalla Russia, Josip viveva con Pelageya nel villaggio di Veliko Troistvo, dove lavorava in un mulino. I primi quattro bambini sono morti molto giovani, solo il quinto è sopravvissuto: Zharko. 



Formalmente, la coppia ha vissuto insieme per 17 anni (Tito ne ha trascorsi 6 in prigione "per propaganda comunista"), ma data la natura dipendente del futuro presidente, questo matrimonio difficilmente avrebbe potuto durare più a lungo. Dopo il suo rilascio nel 1935, mentre si trovava a Mosca, Tito fu seriamente trascinato da un'altra donna, la comunista tedesca Elsa Bauer, e decise di rompere con Pelageya. Hanno divorziato nell'ufficio del registro del distretto Oktyabrsky di Mosca. Tito ha spiegato il suo divorzio e il nuovo matrimonio dal fatto che la moglie russa "è la principale colpevole del fatto che mio figlio Zharko è diventato un bullo e un figlio perduto". 

A proposito, lo stesso Zharko Tito all'età di 17 anni nel 1941 si offrì volontario per il fronte, prese parte alle battaglie vicino a Mosca e sotto il villaggio di Kryukovo, cantato nella canzone, perse la mano. Zharko è stato insignito dell'Ordine della Guerra Patriottica, II grado.
Pelageya Belousova ha trascorso un totale di circa 15 anni nei campi di Stalin. Dopo il divorzio, rimase in URSS e fu arrestata nel 1938. Nel 1948, nel bel mezzo della campagna anti-jugoslava, ci fu un altro arresto. 

Padre e figlio. 1952 
Solo nel 1966 le autorità permisero a Zharko Tito di venire a Mosca e vedere sua madre. Ma non ha mai visto il suo ex marito Pelageya Belousova. Nel 1968 morì di infarto. Josip Broz Tito ha ordinato all'ambasciatore jugoslavo a Mosca di deporre una corona di fiori sulla tomba della sua ex moglie per suo conto. Sfortunatamente, nessuno ricordava cosa c'era scritto sul nastro. 

Già presidente della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, Josip Broz Tito era a Omsk per una visita ufficiale. È successo il 26 giugno 1965.

Una foto rara: Josip Broz Tito a Omsk, 26 giugno 1965. Guidando lungo Marx Street.


   fonte:https://serdzerasum.blogspot.com/2020/11/blog-post.html

8 nov 2020

COSA NE PENSATE


 In  America come tutti sanno è stato eletto Joe Biden 46esimo presidente degli USA. Io sono molto contenta,voi cosa ne pensate?

Esponente dell'area moderata del Partito Democratico, prima di intraprendere l'attività politica ha conseguito il titolo di Juris Doctor e ha esercitato la professione di avvocato, prestando la propria opera come difensore d'ufficio. Nel 1972, a 29 anni di età, fu eletto per la prima volta senatore federale in rappresentanza del Delaware, diventando così il sesto componente più giovane della camera alta nella storia degli Stati Uniti. In seguito fu riconfermato per ulteriori sei mandati consecutivi, nel corso dei quali si occupò perlopiù di politica estera e di giustizia: Biden ricoprì ininterrottamente la carica fino al 2009, anno in cui si dimise per assumere le funzioni di vicepresidente sotto l'amministrazione di Barack Obama.

Nel 2017 fu insignito della medaglia presidenziale della libertà con lode, massima onorificenza civile del Paese.

Comincerà il suo mandato in qualità di Presidente degli Stati Uniti d'America il 20 gennaio 2021, grazie alla vittoria alle elezioni presidenziali del 2020 che lo hanno visto prevalere sul presidente uscente Donald Trump. A 77 anni di età, e 78 alla data prevista per l'insediamento, è il più anziano Presidente mai eletto dagli Stati Uniti d'America.da https://it.wikipedia.org/wiki/Joe_Biden

Lavorando insieme arrivano risultati



Da un mese è partito anche l’Invito pranzo che proseguirà fino all’8 dicembre. «Le prime due settimane sono state un po’ in sordina, forse anche a causa del brutto tempo – racconta la presidente dell’associazione Invito a pranzo, Tiziana Strazzolini –. Nell’ultimo periodo, invece, l’afflusso è stato buono. So che la settimana del Burnjak, quella del 18 ottobre, quasi tutti avevano esaurito i posti. Molte sono state le prenotazioni anche per questa ultima settimana». Quest’anno si può rilevare che mancano forse i gruppi degli altri anni, vi è maggiore presenza di famiglie o di coppie. «Molti da tutta la Regione hanno richiesto i libretti di Invito a pranzo», spiega la presidente di Invito che si chiede se forse non si sia iniziato tardi a distribuirli. Sicuramente l’attuale clima di incertezza non aiuta nessuno. In generale i locali che partecipano a Invito a pranzo si sono detti soddisfatti di come sta procedendo l’edizione autunnale dell’iniziativa, ci sono tantissime richieste per il pranzo domenicale, alcune non si riescono a soddisfare, procede bene anche il sabato. I locali dove si può prenotare sono l’agriturismo La casa delle rondini, la trattoria Alla cascata, la trattoria Ai colli di Spessa, l’osteria Al Colovrat, la trattoria Da Walter, l’Osteria di delizie e curiosità, la trattoria Gastaldia d’Antro, la trattoria Al Giro di boa, l’agriturismo Monte del re, la trattoria Da Na.Ti., l’agriturismo Pestrofa, il Rifugio Pelizzo e la trattoria Vartacia.

Sapori nelle Valli, invece, ha organizzato un’iniziativa che ha coperto l’intero mese di ottobre, ogni fine settimana ha avuto il proprio protagonista: la prima, quella del 3 e del 4 ottobre, è stata caratterizzata dalla gubana, la seconda, del 10 e dell’11 ottobre, dalla castagna, quella del 17 e del 18 ottobre, dalle mele; l’ultimo appuntamento, del 24 e del 25 ottobre, dedicato all’innovazione, è purtroppo saltato nell’incertezza provocata dalle ultime misure di contenimento della Covid-19.

Come ci ha spiegato Mauro Pierich, l’iniziativa è stata un vero e proprio successone, con numeri molto importanti, nonostante il tempo non sia stato sempre clemente. Di sicuro è stata premiata anche

la buona volontà di riprendere un’iniziativa – quella della castagnata su quattro domeniche che si svolgeva proprio nello stesso stabile della zona industriale utilizzato da Sapori nelle Valli – che era molto amata dalla gente del luogo e di fuori e di cui si sentiva la mancanza. «I numeri sono molto importanti – ci ha detto Pierich. La prima fine settimana abbiamo registrato 680 ingressi, registrando un numero di telefono per gruppo, la seconda fine settimana ha visto 510 ingressi il sabato, un centinaio la domenica; il vero successo è stata la terza fine settimana, anche se abbiamo comunque avuto una giornata di brutto tempo: il sabato, nonostante la pioggia, abbiamo avuto 300 ingressi e la domenica oltre millecento».

Non hanno partecipato tutte le aziende dell’associazione Sapori nelle Valli, quelle presenti erano: l’azienda agricola Valnatisone (Pulfero), l’azienda agricola La Seuka (San Pietro al Natisone), l’azienda agricola Tropina, l’agriturismo Pestrofa (San Pietro al Natisone), l’azienda agricola Floram (Pegliano), la Corte delle Lumache (San Pietro al Natisone), Birra Gjulia (San Pietro al Natisone), Gubane Dorbolò (San Pietro al Natisone), Apicoltura Cedarmas (San Pietro al Natisone), Giuditta Teresa Gubane (San Pietro al Natisone), Antico Molino Pussini (San Pietro al Natisone), Ajo& Ojo (San Pietro al Natisone) e Gubana Cedarmas (Pulfero).

«Abbiamo abbinato questa iniziativa con Invito a pranzo, i ristoratori proponevano nelle giornate a tema il tema della nostra manifestazione. Sono state organizzate camminate da parte della Pro loco Nediške doline e da Forest-Studio naturalistico», spiega Pierich, il quale aggiunge che: «c’è stata sinergia fra più associazioni, che dimostra che lavorando assieme per il bene comune delle Valli i risultati vengono fuori per tutti».

dal Dom del 31 ottobre 2020


Parole sagge, che vanno recepite

 


Avere oggi 80 anni di vita ha una qualche particolare valenza, in particolare se questa considerevole somma di anni, mesi, giorni e ore di vita è stata vissuta all’insegna di una missione, di una vocazione tesa al servizio degli altri, del prossimo e del lontano, del buono e del cattivo, del bello e del brutto. Quella sacerdotale non è una professione, è, o dovrebbe essere, un modo di vita che, ben piantato nel concreto e nel presente, si spinge nel trascendente, in «ciò che è superiore ad ogni altro, in ciò che è al di sopra dell’esperienza sensibile e della percezione fisica umana, in ciò che porta al Divino». Una premessa per richiamare l’attenzione all’ottantesimo compleanno di mons. Marino Qualizza. I suoi studi, il suo insegnamento, la sua opera pastorale, il suo servizio religioso hanno lasciato segni tangibili; il suo impegno nel riaffermare i valori religiosi, culturali e linguistici del mondo fisico, culturale e sociale a cui appartiene, divengono un patrimonio cui ognuno può attingere. Anche rileggendo gli scritti raccolti nel libro appena pubblicato, «Benečija naš dom», un volume antologico dei suoi contributi al periodico Dom di cui è direttore responsabile.Giustamente il suo ottantesimo compleanno è stato una celebrazione eucaristica tra la sua gente, la comunità slovena della Benečija, ed è stata la mensa eucaristica, nella chiesa di Špietar-S. Pietro al Natisone, a simboleggiare il pranzo di gala. Non mi dilungherei nel riproporre i diversi interventi tesi a ribadire il senso di riconoscenza al festeggiato. Va dato un certo risalto alle considerazioni espresse da Dejan Valentinčič, segretario di Stato del ministero per gli Sloveni d’oltreconfine e nel mondo. Le sue parole indicano quanto e come il governo sloveno segua ed interpreti le condizioni delle popolazioni etnicamente contermini. «Mi sento onorato – ha detto il viceministro – di portare gli auguri e il grazie da parte della Repubblica di Slovenia a mons. Marino Qualizza, per tutto il lavoro fatto. Egli è un’autentica autorità, apprezzato, rispettato non solo dal punto di vista religioso ma anche per la sua profonda conoscenza della storia della Benečija e per la sua saggezza. Le popolazioni della Benečija, del Posočje (Isontino) – luogo da cui io stesso provengo – e di Lubiana sono della stessa lingua, delle stesse radici, quindi della medesima anima. Oggi in Benečija c’è meno gente che parla lo sloveno, tuttavia coloro che hanno a cuore la lingua slovena sono, per citare il Vangelo, lievito e sale di queste valli. Non riesco a immaginarmi la Benečija priva della parlata slovena, perché perderebbe la propria fisionomia. Mons. Gujon scrisse tempo fa che la scuola bilingue ha sostituito l’opera dei sacerdoti per la lingua e la cultura locale, tuttavia rivestono un ruolo importante sia la messa che la catechesi nel mantenimento e nello sviluppo degli stessi valori. Scuola, messa e catechismo sono una necessità in solido. D’altronde è evidente, oltre a ciò, l’importanza dell’economia. La gente rimarrà qui solo se potrà guadagnarsi il pane dove vive. Affinché ciò possa avvenire è lavoro imprescindibile sia per noi, della Repubblica di Slovenia, che ci curiamo degli sloveni confinanti, sia delle autorità in Italia. D’altronde abbiamo molti esempi di località poste ai confini, che si sono ravvivate, divenute economicamente più forti proprio per le loro caratteristiche plurilinguistiche e multiculturali radicate sul territorio. Dobbiamo lavorare affinché questo risveglio possa attuarsi anche qui in Benečija attraverso una forte collaborazione col vicino territorio isontino-Posočje». Ho voluto tradurre quanto più fedelmente possibile il breve intervento del rappresentante del governo sloveno, affinché possa essere conosciuto anche da coloro che non hanno particolare dimestichezza con lo sloveno. Evidenti appaiono le parole chiave di questo saluto, come a corollario e riconoscimento dell’esempio di mons. Qualizza. Non è il solo. La scuola bilingue ha un ruolo fondamentale, ma altrettanto fondamentali per il recupero dell’identità individuale e di gruppo sono l’insegnamento della fede dei padri e la relativa pratica religiosa. Ancora una volta si ribadisce questa necessità della compenetrazione di lingua e fede. Dal punto di vista economico si vuole prospettare la valorizzazione proprio dell’identità culturale e linguistica come strumento di promozione globale della gente in sé e del territorio come entità geograficamente definita. Non ci potrà essere vero sviluppo senza una forte coesione nell’identità di gruppo. Questo è il messaggio. E, a quanto pare, la presenza dei sindaci alla celebrazione dell’ottantesimo di mons. Qualizza, appare come un primo passo, promettente, in questa direzione. 

Riccardo Ruttar (Dom, 31. 10. 2020)

 da Slovit del 31 ottobre

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