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10 lug 2020

A Castelmonte lo sloveno è benvenuto

A Castelmonte/Stara gora/Madone di Mont la pandemia di Covid-19 ha sensibilmente ridotto il flusso di pellegrini, ma la situazione è in evoluzione continua. A dirlo è padre Gianantonio Campagnolo, che al santuario della Beata Vergine di Castelmonte è rettore da tre anni. Originario della provincia di Vicenza, è giunto al borgo mariano di Prepotto dopo avere conseguito la laurea in pedagogia a Bologna e un’esperienza pregressa al santuario come diacono. A 27 anni, infatti, vi aveva già prestato servizio per sette mesi, da animatore liturgico.
Castelmonte esce da un periodo difficile. Il nuovo coronavirus ha colpito particolarmente il borgo e la comunità dei frati. Come avete vissuto il periodo della pandemia al santuario?
«È stato uno shock. Nessuno di noi si aspettava una prova così importante e inedita. Noi che amiamo la vita comunitaria e abbiamo scelto di vivere insieme, siamo stati costretti a vivere da reclusi. Appena compreso che il rischio era alto, abbiamo subito cominciato a stare attenti e lontani l’uno dall’altro; coi primi sintomi abbiamo iniziato a stare in camera anche per pregare. È stato un rovesciamento della nostra scelta di vita, ovviamente dettato dall’urgenza sanitaria ».
Con l’allentamento delle misure restrittive, pur con le dovute precauzioni sono ripresi la celebrazione dei riti religiosi e i pellegrinaggi. Quali modalità seguite a Castelmonte?
«Ci atteniamo alle regole della Conferenza episcopale italiana e alle disposizioni dell’arcivescovo di Udine. Anzitutto sono state sanificate la chiesa, con la navata principale e i transetti, e la cripta, dove si scende per visitare gli ex voto o accendere un cero alla Beata Vergine Maria. L’intervento è avvenuto col contributo della sindaco di Prepotto, Mariaclara Forti, che ha seguito i rapporti con il reparto dell’esercito presente a Remanzacco e la Protezione civile. Sono stati sanificati anche i luoghi del borgo che potevano essere “contaminati’’. Va detto che da diversi giorni non frequentavamo più la chiesa, con un conseguente probabile decadimento della viralità. Al momento in chiesa e nella cripta, dotati di percorso d’entrata e d’uscita, sono ammessi al massimo 130 fedeli in totale, ovviamente tutti con la mascherina e distanziati di almeno un metro. Alle porte della chiesa c’è il liquido igienizzante, che ogni fedele è tenuto ad usare prima di sedere sul banco; su ogni banco può sedere un solo fedele. Nel momento dell’Eucarestia i fedeli si dispongono in fila unica centrale, sempre mantenendo un metro di distanza l’uno dall’altro. Una volta davanti al sacerdote ricevono sulle mani l’Eucarestia, che consumano davanti al ministro. Per la riconciliazione abbiamo dovuto chiudere i confessionali, visto che gli attuali non garantiscono distanziamento sociale e ossigenazione adeguati. Ne sono attivi solo due, uno nella sala del rosario e uno nella sala di San Francesco, di fronte all’entrata del santuario. Naturalmente sacerdote e fedele penitente entrano con la mascherina; dopo ogni confessione il sacerdote ha il proprio prodotto igienizzante e pulisce la sedia e i luoghi toccati dal fedele».
Sono in programma eventi particolari per il periodo estivo?
«Navighiamo a vista. Sabato, 4 luglio, giungerà in pellegrinaggio l’arcivescovo di Udine, Andrea Bruno Mazzocato, coi seminaristi diocesani. Sarà un momento per stare insieme e pregare per le nostre diocesi e le vocazioni, dopodiché non abbiamo un grosso numero di pellegrinaggi. La maggior parte dei pellegrinaggi programmati è stata disdetta. Il motivo è dato dall’assenza dei pullman, che per ora non possono essere usati. I parroci, così, si trovano in difficoltà nell’organizzare pellegrinaggi. A ogni modo confidiamo in un’evoluzione positiva della pandemia, che permetta un allentamento delle misure di prevenzione e l’arrivo dei pullman. Ai pellegrinaggi comunitari la potenza della preghiera ha un sapore diverso».
Castelmonte è situato nel comune trilingue di Prepotto, dove si parlano italiano, friulano e sloveno. Per secoli il clero proveniente dalla Slavia vi ha prestato servizio per le necessità dei fedeli che non provenivano solo dalla pianura friulana, ma anche dalle zone della Slavia e dell’odierna Slovenia, in cui si parlano sloveno e sue varianti. Come sono presenti le diverse lingue al santuario?
«C’è una presenza di sloveni che giunge a Castelmonte, ultimamente molto ridotta per la chiusura dei confini a causa della pandemia, durata circa tre mesi. Paradossalmente al momento salgono a Castelmonte più austriaci e tedeschi. Tuttavia rimane uno zoccolo duro sloveno, composto soprattutto da chi parla sloveno nella circostante Slavia friulana. Questi fedeli, che sono saliti anche di recente, vengono e cantano le litanie in sloveno, anche nei giorni feriali. A livello generale, comunque, il flusso complessivo di pellegrini è ridotto. Piano piano siamo in ripresa, ma il calo è di circa il 60%, anche perché c’è tanta paura».
Nei mesi scorsi sul territorio comunale di Prepotto all’ingresso dei paesi sono stati installati cartelli toponomastici in italiano e sloveno nelle frazioni della Val Judrio e in italiano e friulano nelle frazioni di pianura. Castelmonte, come Cialla/Çale/Čela e altre località cui è storicamente legato, si trova al crocevia spirituale del trilinguismo del territorio. Cartelli toponomastici riportanti Castelmonte/Stara gora/Madone di Mont renderebbero meglio l’idea di un intreccio culturale vissuto nel quotidiano?
«Il 40-50% dei fedeli in salita al santuario proviene dal Veneto, ma una parte della popolazione qui a Castelmonte e nelle frazioni limitrofe parla le lingue del territorio. Noi rispettiamo il passato e se si tratta di un bel segno per dare voce al legame storico di Castelmonte con le lingue slovena e friulana, ben venga. Tra l’altro, qualche tempo fa la responsabile del coro di Cosizza ha chiesto informazioni circa la possibilità di celebrare la Santa Messa in sloveno e questo mi fa piacere. Siamo aperti alla possibilità. Bella la proposta di una celebrazione eucaristica annuale in lingua slovena».
Quanto è consistente il flusso di pellegrini e visitatori dalla Slavia e dalla Slovenia?
«Da tre anni assistiamo a un calo di pellegrini a livello generale, che coinvolge anche le zone circostanti, territorio di riferimento del santuario, compreso Prepotto. Credo, comunque, che il fenomeno vada contestualizzato in un quadro più ampio. Stiamo vivendo un momento di forte secolarizzazione, tra l’altro con un calo di vocazioni sacerdotali. Ogni tanto rileggo i numeri del bollettino del santuario di venti o venticinque anni fa – e il tenore spirituale era certamente molto più forte. Il fenomeno di secolarizzazione ha coinvolto anche la Slavia friulana con la Val Judrio. Anche da qui, ad esempio, salgono pochi giovani; ne giungono di più da Udine e dalla Bassa friulana».
Che legame intrattengono il santuario di Castelmonte e la Val Judrio?
«Soprattutto un legame di tipo pastorale. I superiori continuano a credere che il servizio parrocchiale completi il servizio religioso nel santuario, che appartiene all’arcidiocesi di Udine. Noi Frati cappuccini siamo qui dal 1913; da circa trent’anni curiamo anche il servizio alla parrocchia di Prepotto. Il legame con la Val Judrio passa soprattutto attraverso il servizio pastorale alla parrocchia, ora svolto da padre Andrea Cereser. A Cialla, Codromaz, Cladrecis, Berda e in tutti i paesi della vallata curiamo la visita agli anziani e celebriamo i sacramenti». (Luciano Lister)

https://www.dom.it/na-stari-gori-je-slovenscina-dobrodosla_a-castelmonte-lo-sloveno-e-benvenuto/
SLAVIA – BENEČIJA 

Primi in regione, i sindaci del nuovo ente hanno approvato il documento costitutivo

Nome e statuto trilingue alla Comunità della montagna Natisone-Torre
Primi in regione, i sindaci del nuovo ente hanno approvato il documento costitutivo Lo statuto della nuova Comunità della montagna Natisone-Torre, adottato all’unanimità, lo scorso 18 giugno a Tarcento dall’assemblea dei sindaci, sarà trilingue come il nome del nuovo ente locale. Una decisione naturale, considerato che tutti i quindici Comuni aderenti fanno parte dell’ambito di tutela della lingua slovena o di quella friulana, alcuni di entrambi. Quella della Benecia è la prima Comunità ad avere approvato lo statuto. La sede legale sarà fissata a Tarcento, mentre a San Pietro al Natisone ci sarà una sede operativa. «Da qui prende avvio un nuovo percorso a tappe che attua la riforma delle autonomie locali con l’obiettivo di dare maggiore efficienza, immediatezza di risposta e migliori servizi ai cittadini», ha commentato l’assessore regionale alle Autonomie locali, Pierpaolo Roberti, invitato dai sindaci a prendere parte alla seduta. «Ci tenevo molto ad essere presente – ha sottolineato Roberti – perché il grande anticipo con cui questa comunità si costituisce dimostra che le scelte fatte non hanno comportato lacerazioni sul territorio. La comunità della montagna è obbligatoria a norma di legge, ma evidentemente esprime una necessità sentita dagli amministratori». «È importante ora che l’ente si strutturi e in questo la Regione sarà al fianco dei Comuni per superare eventuali criticità», ha detto ancora Roberti, ricordando che l’amministrazione regionale continua a cedere spazi assunzionali ai Comuni. In particolare, sono stati accantonati 2,4 milioni per consentire nuove assunzioni .
da slovit

SLAVIA: Un unico popolo e un’unica lingua, alle origini degli slavi


di Matteo Zola
Da dove vengono gli slavi? Quale fu il loro spazio originario? Sono interrogativi senza risposta. Sappiamo che appartengono al grande ceppo indoeuropeo, e sappiamo che giunsero alle porte d’Europa tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo. Cosa fu di loro prima di allora lo si può a malapena dedurre dai ritrovamenti archeologici che ne mostrano la progressiva “iranizzazione” (non pensate all’odierno Iran, che pure non sarebbe così sbagliato, ma a sarmati, sciti, alani, popolazioni indoeuropee – come gli iraniani di oggi – che occuparono l’area della moderna Persia). Dalle popolazioni iraniche apprenderanno anzitutto la coltivazione della terra e la cremazione dei morti, tratti salienti della cultura slava fino alla conversione al Cristianesimo avvenuta, più o meno, intorno all’anno Mille.
Quando arrivano alle porte d’Europa gli slavi hanno una cultura definita, una propria produzione artigianale e una forte connotazione agricola. Non hanno scrittura (non l’avranno fino al nono secolo dopo Cristo) ma parlano la stessa lingua, lo “slavo comune“. Si stanziano nel bacino del Pripjat, tra i fiume Dnestr e Dnepr, o almeno così si crede. A spingerli in quelle terre, a cavallo tra le moderne Ucraina e Bielorussia, è la spinta di altri popoli che premono verso ovest. E’ infatti quella l’età delle grandi migrazioni.
Lo “slavo comune”
La lingua originaria degli slavi è oggi deducibile grazie alla filologia, esistono infatti molte parole comuni nelle moderne lingue slave grazie a cui è stato possibile stabilire quale fosse il “proto-slavo”, detto anche “slavo comune”, da non confondersi con il “paleoslavo”, di cui parleremo in futuro, che è stata la prima lingua letteraria. Lo “slavo comune” andò differenziandosi via via che le tribù slave si allontanavano tra loro, nello spazio e nel tempo, dopo aver lasciato la “culla” originaria nel bacino del Pripjat. Cosa fu a dividerle? La spinta di altre popolazioni provenienti da oriente, come gli unni e gli avari, frantumarono l’unità slava costringendo le tribù a disperdersi. Queste, nella loro diaspora, arriveranno a occupare uno spazio immenso che va dal Baltico al Mar Nero. L’uniformità linguistica ha retto fino al nono secolo, pur deteriorandosi rapidamente dal sesto secolo in poi. Ne sono nate una dozzina di lingue tra loro collegate da molti dialetti. Oggi, da Mosca a Praga a Skopje, la differenza non è così grande come sembra e sono ancora circa millesettecento le parole comuni.
La differenziazione è stata progressiva, tuttavia è stata più marcata dove la continuità tra genti slave è stata spezzata. Ad esempio gli slavi che, dalla “culla” originaria, si diressero verso ovest, si trovarono a un certo punto separati dagli slavi del sud a causa della presenza germanica e magiara. Le lingue slave si dividono oggi in tre gruppi che raccolgono lingue tra loro simili:
- lingue slave occidentali: polacco, ceco, slovacco, sorabo e casciubo
- lingue slave orientali: russo, bielorusso, ucraino
- lingue slave meridionali: sloveno, macedone, serbocroato e bulgaro (sul serbocroato, che tante questioni ha sollevato dopo la fine delle guerre jugoslave, si legga qui)
Il vocabolario comune
Dal vocabolario comune possiamo comprendere quali fossero le conoscenze tecniche degli slavi e come fosse il loro ambiente originario: descrivevano l’ambiente circostante con termini specifici per l’elemento acquatico (fiume, torrente, lago, mare ma anche palude, fango, acquitrino, ghiaccio). Conoscevano le stagioni, segno che vivevano in una zona temperata, e sapevano definire il tempo. Fanno pare del vocabolario comune il miglio, l’orzo, l’avena, la canapa e il lino, e usavano l’aratro, la vanga, il rastrello, il falcetto e la zappa. Conoscevano l’albero del melo ma non il faggio, cui diedero nome solo dopo essere migrati verso le terre dei germani (lo chiameranno “buk”, dal tedesco “buche”). Il loro mondo spirituale era fatto di divinità legate alla terra, alla guerra, ma anche a virtù morali (come amore, odio, giustizia, vendetta, bene e male, saggezza e castigo) che avevano sviluppato ben prima dell’incontro con il Cristianesimo. Ma è nella definizione delle strutture famigliari che raggiungono livelli tali da superare i germani, segno dell’importanza e della complessità dei rapporti sociali. I termini per descrivere queste realtà restano ancora oggi comuni ai popoli slavi.
La radice indoeuropea
Anche se i nazisti sostenevano il contrario, gli slavi sono indoeuropei (indogermanici o indoariani, come dicevano a Berlino). Questo si riscontra proprio nel vocabolario famigliare: mat, in russo, e mati in ucraino, ceco, serbocroato, bulgaro e sloveno, sono l’equivalente del latino mater e del tedesco mutter. Nel russo e nel bulgaro il termine sestra corrisponde al latino soror, quindi sorellasoeursister. Lo stesso vale per il russo brat, che è brother in inglese e frater in latino. La casa è dom in molte lingue slave, come in latino è domus, ed evidente è la comune origine del latino mare e dello slavo more. Interessante, in ambito tecnico, la parola kamen, che in slavo vuol dire pietra ma la cui radice “kam” è da accomunare alla radice germanica “ham“, che in inglese dà “hammer” (martello, che è fatto di pietra) e l’islandese hamarr conserva il significato originario di “roccia”.
Lo spazio slavo originario resta tuttavia difficile da definire e proprio per questo si è spesso prestato ad essere immaginato. E’ anzitutto uno spazio psicologico, un luogo vasto e perduto cui riandare nei momenti di difficoltà, quando l’identità delle nazioni slave è oppressa. Un’identità tuttavia forte, la cui specificità si è mantenuta grazie al relativo isolamento in cui gli slavi si sono trovati tra il 1000 a.C. e il 500 d.C.. Da quel momento in poi inizierà la storia degli slavi per come oggi la conosciamo. Una storia europea che vi racconteremo nelle prossime puntate.

(immagine Wikipedia: le lingue slave oggi)

Licenza Creative Commons

9 lug 2020

SLAVIA: L'espansione slava dal Baltico all'Italia



di Matteo Zola
Le migrazioni dei popoli slavi
Dal VII al XI secolo l’Europa assiste all’ultima grande migrazione, quella degli slavi. Barbari pagani diversi dalle gentes che li hanno preceduti per lingua, religione e struttura sociale ma egualmente rivestiti di quell’ideale negativo di nemici della civiltà che già ebbero i loro predecessori. Il mondo antico guardò agli slavi con diffidenza, specialmente Bisanzio: ancora non sapevano quanto i loro destini si sarebbero incrociati in futuro.
L’etnogenesi degli slavi fu un processo molto lento e tuttora oscuro: arrivati dalle steppe dell’Asia essi devono avere completato il loro percorso di costruzione etnica nello spazio che va tra il Dnepr e in Dniestr, nel bacino del Prjpiat (SI LEGGA: “Un unico popolo, una sola lingua. Alle origini degli slavi“). Da questa “culla originaria” gli slavi mossero versto ovest dall’iniziò nel V° secolo provocando continui processi di aggregazione e disgregazione di gruppi che andavano via via diversificandosi tra loro anche linguisticamente, dove in luogo di un protoslavo comune hanno preso piede le parlate locali (a tutt’oggi restano circa duemila parole comuni nelle lingue slave, ed è cosa che un viaggiatore può facilmente sperimentare visitando l’Europa dalla Macedonia alla Russia).
Gli slavi e gli avari
A spingere gli slavi sempre più addentro al continente europeo fu la pressione di altri gruppi, in particolare unni e avari. Dopo aver sterminato i discendenti delle tribù unne, gli avari – una popolazione turcica proveniente dalle steppe – incorporarono e assimilarono i superstiti (Grousset, L’empire de steppes) e, attraverso progressive espansioni, raggiunsero il basso corso del Danubio dove già stanziavano popolazioni slave e longobarde. Lo storico Menandro restituisce una cronaca dettagliata di quegli anni in cui, sfruttando la potenza avara, i bizantini cercarono di liberarsi delle popolazioni slave consentendo al re avaro Baina di transitare “con sessantamila cavalieri armati di corazza” nel territorio dell’Impero. Le popolazioni protoslave degli Anti e degli Sclaveni vennero trucidate e i primi addirittura scomparvero dalla storia. Correva l’anno 602 d.C. La dominazione avara fu tale da essere ricordata secoli dopo, con compassione e terrore, dal monaco kieviano Nestore, nel suo Racconto dei tempi passati. Fredegario, storico alla corte dei Merovingi, all’inizio del VII secolo narra di come gli slavi fossero usati dagli avari come “carne da macello”, prime linee durante le battaglie. Le tribù slave ancora libere si saldarono allora in un’unione che, in Slovacchia, Moravia e Boemia, diede vita a un proto-Stato slavo in grado di fermare gli avari, che premevano a sud, e i germani che spingevano da nord. Era quello il regno della Grande Moravia, di cui parleremo in futuro.
Espansionismo slavo
Liberatisi del giogo avaro, ma non dalla cultura dei dominatori, l’espansione delle genti slave raggiunse vertici mai più visti nei secoli a venire: dall’Asia minore all’Africa settentrionale, da Creta fino all’Elba. Ne nacquero, nel giro di due secoli, regni stabili nei Balcani, lungo la Vistola, sul Baltico e oltre il Dnepr. La differenziazione tra i gruppi fu lenta e inesorabile, favorita dalle cesure operate da successive espansioni gotiche o germaniche che isolarono per certi periodi legentes slave. Dove non si formarono regni autonomi, gli slavi vennero assimilati (in Grecia), deportati (dalla Macedonia), combattuti e vinti (in Tracia), federati all’Impero bizantino (in Asia minore), colonizzati (in Germania orientale). Nella Spagna arabo-berbera della dinastia Omayyade gli slavi furono dapprima utilizzati come mercenari, poi come schiavi, e infine (coloro che seppero affrancarsi dalla servitù) come dignitari dei califfi. A questo milieuculturale si devono i primi testi slavofili, come quello a firma di un imprecisato Habib dal titolo: Contro coloro che negano l’eccellenza degli slavi. Il testo, scritto probabilmente da un intellettuale di origine slava, era redatto in arabo.
E in Italia? A Palermo, fino al 1090, quando ebbe termine la dominazione araba sull’isola, esisteva una “via slava”, a render conto della presenza di quella comunità in città. Già nel VII secolo si assistette a migrazioni dalla Dalmazia, sovente associate ad atti pirateschi, e di proto-bulgari nelle Marche. Risale al 926 un documento che attesta con l’appellativo di župan (vale a dire “signore”, in serbo) il reggente della città di Vieste. La presenza slava nella penisola è quindi millenaria, con buona pace di chi oggi parla di “stranieri” inaccettabili.
Lo “spazio slavo”come spazio psicologico
Questa espansione verso il cuore dell’Europa segnerà i confini psicologici dello spazio slavo. Uno spazio che, anche quando le genti slave ne verranno scacciate, resterà come retaggio mitico. Alla “slavia” perduta andranno i canti e i poemi cechi, polacchi, ucraini, durante le varie occupazioni straniere. Durante il romanticismo, nell’Ottocento, alcuni letterati slavi – come il boemo Jan Kollar- vedranno nella “slavia” perduta il seme per una nuova rinascita culturale. E tra le regioni “perdute” la più cara, ed amara, è senz’altro la Germania, di cui parleremo prossimamente.

Udine .- Cosa vedere, Come visitarla e Perché

8 lug 2020

Una cartolina da...

Topolò-Topolove
per saperne di più

PROVERBIO

Il proverbio friulano della settimana
di Vita nei campi

“Quan' che il gjâl al fâs chicchirichì / son tre oris denânt dì” ovvero quando il gallo fa chicchirichì sono tre ore avanti il giorno”

7 lug 2020

Che fatica una volta...


foto da archivio personale
 Koš – gerla-zei è una cesta in legnovimini o viburno intrecciati a forma di tronco di cono rovesciato, aperta in alto, usata per trasportare materiali vari; è munita di due cinghie, fettucce o spallacci di fusti di nocciolo per poter essere portata sulle spalle.
In latino si chiamava cista cibaria e veniva usata per il trasporto del cibo.In Carnia si ha il zèi (pronuncia locale: gei) per il trasporto di fieno, legna, formaggio, letame,prodotti agricoli ecc. (nella prima guerra mondiale veniva usata per portare le munizioni). Assieme al zèi si usava il màmul o musse, una sorta di treppiede in legno su cui si poggiava la gerla per poterla caricare senza bisogno d’aiuto.
per saperne di più vai a http://lnx.bravoscuole.it/mater/secresia/mestieriValResia.pdf
                   NA RAMANAH 
 Na ramanah so nosili sieno.
Na ramanah tou košu so nosili nuoj
   anu a zanašali v vilami.
Na ramanah so nosili derva
dal calendario 2014 del Centro  di Ricerche Culturali di Bardo-Lusevera
                SULLE SPALLE
Sulle spalle portavano il fieno.
Sulle spalle nella gerla portavano letame
lo spargevano con la forca.
Sulle spalle portavano la legna
Donna con gerla usata in Carnia,Benecija,paesi di montagna
Serviva per il trasporto di legna,fieno,prodotti del campo…
per saperne di più vai a http://lnx.bravoscuole.it/mater/secresia/mestieriValResia.pdf
                   NA RAMANAH   
Na ramanah so nosili sieno.
Na ramanah tou košu so nosili nuoj
   anu a zanašali v vilami.
Na ramanah so nosili derva
dal calendario 2014 del Centro  di Ricerche Culturali di Bardo-Lusevera
                SULLE SPALLE
Sulle spalle portavano il fieno.
Sulle spalle nella gerla portavano letame
lo spargevano con la forca.
Sulle spalle portavano la legna

6 lug 2020

Un ginocchio sul collo anche per noi


«Le vite dei neri contano – Black Lives Matter». Certamente contano. Non solo quelle dei neri, s’intende; ma bisogna vedere quanto contano e per chi. Valgono ora e valevano quando, per quasi tre secoli, ad iniziare dal XVI, la tratta degli schiavi africani ne fece strage a milioni nelle stive delle navi e nelle piantagioni americane. Erano bianchi, europei ed ex europei alla conquista del continente americano a sfruttare una manodopera a nullo o basso costo per costruirsi il cosiddetto sviluppo. Ci riempiamo la bocca a dire «America »! La esaltiamo come esempio di civiltà e libertà guardando la mastodontica statua con la fiaccola alzata verso il cielo nella Manhattan dei grattaceli, quando si proclama come simbolo della «Libertà che illumina il mondo – Liberty Enlightening
the World». A visitare la vicinissima isoletta Ellis Island, – che «accolse», si fa per dire, una dozzina di milioni di immigrati desiderosi di realizzare l’American dream / sogno americano scegliendo accuratamente gli abili al lavoro, scartando e rispedendo a casa gli inabili – la detta illuminazione libertaria vi passava sopra, illuminandola di scarsa e flebile sua luce.
Quante generazioni di neri si erano succedute dalla guerra di secessione americana che li avrebbe liberati dalla schiavitù, ma, si sa, la luce si riflette sul «bianco», si perde sul nero… anche la luce della vera libertà.
Parrebbe che il razzismo faccia parte del genoma umano considerando quanto questa caratteristica sia influente sul comportamento del nostro genere. Quello di distinguere, discriminare il simile in base alle sue caratteristiche fisiche, linguistiche, culturali, di provenienza o di censo. Il «nero», purtroppo per lui, è troppo visibile, non può confondersi nel gruppo se non in quello dei suoi simili, e da singolo o come gruppo, anche oggi «conta» solo nella sua inveterata veste di schiavo. Per constatarlo dobbiamo guardare all’America di Trump? Al ginocchio del poliziotto piantato sulla carotide e sulla giugulare di George Perry Floyd, padre di cinque figli? Aveva tentato di spacciare una banconota falsa di 20 dollari. Col poco fiato che gli rimaneva chiamava sua madre come un bambino e chiedeva solo di poter respirare. Erano in tre gli agenti bianchi a tenerlo a bada e armati. Inutile chiederci come si sarebbero comportati se a terra ci fosse stato un bianco come loro.
«Le vite dei neri contano?» Contano, sì, anche da noi. «Un euro e mezzo all’ora per stare nei campi fino al crollo fisico», scriveva mercoledì scorso (24.6.) su Repubblica il giornalista Michele Serra sotto il titolo emblematico: «In quale secolo siamo? Maltrattamenti, segregazione, razzismo».
Siamo in Italia, regrediti a secoli in cui si disputava se i neri avessero l’anima. Ma siamo oggi, nell’Italia dell’immigrazione clandestina raccolta in furgoni come fossero cani randagi, robot da usare come attrezzi usa& getta in campi di pomodori. Peggio della schiavitù sudista americana, suggerisce Serra, infatti là uno schiavo valeva, contava – come schiavo, s’intende – e non era economicamente conveniente strapazzarlo troppo; come non lo si fa coll’asino.
Una società come la nostra, che dichiara nei primi articoli della sua legge costitutiva di repubblica democratica fondata sul lavoro, nel 2020 può permettersi di ignorare, tollerare, a volte favorire situazioni disumane portate all’estremo. È più crudele e diabolico sfruttare fino ad esaurimento la debolezza contrattuale di persone che, per essere rifiutate, discriminate, ignorate non hanno voce, con quel ginocchio sul collo che, invece di durare otto minuti dura giorni, mesi, anni e per qualcuno il tempo di una fucilata o di un incidente. È subdolo, oggi, il razzismo; cerca ragioni giuridiche per camuffarlo e grida: Prima noi! «America first» di Trump, che fa eco al fatidico «Deutschland Uber Alles». Prima i bianchi; prima gli italiani… Prima «io», il pronome più in voga, il più evidente e rafforzato dal potere, dalla razza egemone, dalla forza del dollaro, euro, sterlina, yen, yuan o franco che sia. Un euro e mezzo all’ora, e taci, lavora… e paga cara la carretta che ti porta nei campi e la baracca fatiscente in cui puoi riposare.
Un ginocchio sul collo, d’altronde, l’abbiamo avuto anche noi, sloveni, discriminati e vilipesi, considerati barbari ed incivili per aver resistito all’assimilazione forzata dai primordi dello Stato in cui fummo fagocitati, visti più come prede che come parte di una nazione che si diceva al massimo grado della civilizzazione sociale e culturale.
Varrà qualcosa la rabbia scatenata dei discriminati neri che reclamano il diritto alla vita e di aver riconosciuto non solo a parole il diritto di esserci, di avere la dignità di cittadino, di vedersi riconoscere senza infingimenti il proprio valore? Nella storia il ginocchio piegato fa pensare a Canossa, al re Enrico IV per tre giorni carponi davanti al castello di Matilde per rimediare alla scomunica papale, al penitente che si batte il petto riconoscendo la propria colpa. Oggi vale come protesta, come solidale gesto di ribellione ad uno strapotere ingiusto e disumano, che svuota in sé quella luce di uguaglianza e libertà che dovrebbe giungere sul serio dalla fiaccola di Manhattan.
Riccardo Ruttar

I bambini bilingui hanno una marcia in più rispetto ai monolingui.

Secondo uno studio dell'Università di Washington, i bambini  che apprendono una seconda lingua già da quando sono in fasce ,sono avvantaggiati rispetto ai monolingui . I cervelli, cresciuti in un ambiente bilingue, mostrano un più lungo periodo di flessibilità a differenti lingue ,se esposti continuamente ad esse.La  docente di psicologia dell'età evolutiva alla  Sapienza, Anna Oliverio Ferraris a tal proposito, ha affermato che "usando due lingue si diventa più assertivi e indipendenti e si comunicano meglio i propri bisogni."

Quindi i bambini  che abitano nelle zone del Friuli Venezia Giulia dove si parla lo sloveno,  il tedesco e il friulano sono molto avvantaggiati .

OLINTO MARINELLI geografo friulano

OLINTO MARINELLI (Udine 1874 – Firenze 1926)

Ho scoperto questo personaggio friulano grazie alla lettura della “Guida delle Prealpi Friulane”, pubblicata a Udine nel 1912 dalla “Società Alpina Friulana”, una guida ottimamente correlata con disegni a penna di Antonio Pontini.
Quindi, dopo avervi parlato di Giovanni Marinelli, il primo grande geografo friulano, ora traccio alcune note che riguardano questo illustrissimo professore di geografia naturalistica italiana tra i più noti non solo in Friuli ma anche nel mondo intero.
Non soltanto figlio ma erede quasi per vocazione naturale della passione del padre Giovanni, per gli studi geografici, fu avviato alle scienze fisiche, Olinto Marinelli si laureò a Firenze nel 1895 in scienze naturali.
All’età di diciotto anni, aveva allora già pubblicato uno studio sul Lago di Cavazzo (1892) e si presentava con una notevole preparazione scientifica: insegnò in Sicilia e poi ad Ancona, ricavandone vantaggi notevoli per un personale arricchimento, fino a conseguire la libera docenza.
Prendeva così la cattedra di geografia a Firenze, che era stata del padre.
Nel suo insegnamento universitario si rivelò il più completo geografo della scuola italiana in questa disciplina che Olinto Marinelli seppe fondere in un mosaico di scienze interdipendenti.
Quasi cinquecento sono i titoli delle sue pubblicazioni, con interessi alla geologia, ai fenomeni fisici, biologici e antropici, alla cartografia e alla modificazione fisica del territorio legata alla meteorologia.
Gli interessava tutto: centri abitati e topografia, storia e problemi politici, etnici e linguistici.
Lo prova il suo Atlante dei Tipi Geografici, le Guide delle Prealpi Giulie e di Gorizia con le vallate dell’Isonzo e del Vipacco, compilate seguendo la metodologia del grande padre.
Il tempo dedicato alla cattedra non gli proibì di interessarsi particolarmente al Friuli e di partecipare a congressi e spedizioni scientifiche: nel 1905 fu in Eritrea e nella Dancalia…, nel 1912, con i più noti geografi europei, fu invitato nel Nordamerica, ospite a New York di quella Società Geografica…, nel 1914 raggiunse il Tibet, il Turchestan Cinese e il Caracorum…, nel 1925 visitò il Dodecanneso, Rodi, la Palestina e l’Egitto.
Voglio anche segnalarvi che Olinto Marinelli diresse fino in fondo la miglior opera del T.C.I: il Grande Atlante Internazionale.
Di questo grande geografo, io ho letto anche “Il Friuli come tipo di regione naturale”, pubblicato la prima volta a Udine nel 1917…, e poi “Il Friuli e la Venezia Giulia. Problemi di geografia amministrativa e di toponomastica”, pubblicato sempre a Udine nel 1923.

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