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IVAN TRINKO padre della Benecia

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26 mag 2020

Koš - gerla

 Koš - gerla 
E' una cesta in legno, vimini o viburno intrecciati a forma di tronco di cono rovesciato, aperta in alto, usata per trasportare materiali vari; è munita di due cinghie, fettucce o spallacci di fusti di nocciolo per poter essere portata sulle spalle.
In latino si chiamava cista cibaria e veniva usata per il trasporto del cibo.
In Carnia si ha il zèi (pronuncia locale: gei) per il trasporto di fieno, legna, formaggio, letame,prodotti agricoli ecc. (nella prima guerra mondiale veniva usata per portare le munizioni). Assieme al zèi si usava il màmul o musse, una sorta di treppiede in legno su cui si poggiava la gerla per poterla caricare senza bisogno d'aiuto.
immagine dal mio archivio personale

                   NA RAMANAH

   Na ramanah so nosili sieno.
Na ramanah tou košu so nosili nuoj
   anu a zanašali v vilami.
Na ramanah so nosili derva

dal calendario 2014 del Centro  di Ricerche Culturali di Bardo-Lusevera

                SULLE SPALLE

Sulle spalle portavano il fieno.
Sulle spalle nella gerla portavano letame
lo spargevano con la forca.
Sulle spalle portavano la legna

25 mag 2020

ANCORA A DEBITA DISTANZA



In questo periodo – dagli inizi di marzo ad oggi – in cui non sono accaduti eventi, in realtà è accaduto e sta accadendo di tutto. Sta cambiando il mondo, stanno cambiando i nostri stili di vita, sta cambiando la nostra idea di futuro. Sarà poi che in questo periodo sono nati e proliferati come i funghi sul Planino i virologi, epidemiologi e mascherinologi di ogni specie, ma a volte sembra veramente di essere soppraffatti da informazioni che spesso informazioni nemmeno lo sono.
In tutto questo a noi, come comunità, forse dovrebbero interessare soprattutto due aspetti. Di uno se ne parla molto anche a livello nazionale. La scuola. La scuola in Italia è e rimarrà ancora per tanto una nota dolente, inutile girarci attorno. La pandemia sta però mettendo ancora di più in discussione il sistema scolastico italiano, con tutti gli annessi e connessi. Si può cominciare con il chiedersi se è (o meglio: era) davvero impossibile pensare a una ripresa delle lezioni in classe (o fuori dalla classe, nei cortili, nei prati, nei boschi, ovviamente ove questo sarebbe stato possibile) prima della fine dell’anno scolastico. Di certo quella che a fatica sta terminando atttaverso la didattica a distanza non è un’esperienza che si può definire ‘scuola’. Lo dice benissimo Angelo Floramo nell’intervista che pubblichiamo su questo numero.
Il secondo aspetto che più ci interessa, come comunità slovena, è quello del confine. Anche qui l’impressione è che, una volta tolti i blocchi di cemento dai valichi confinari, non tutto sarà come prima. Da una par- te abbiamo capito che quel confine che vorremmo sempre aperto può richiudersi anche da un momento all’altro, per motivi che certo non dipendono da noi. Dall’altro, anche su questo giornale abbiamo spesso registrato voci che parlavano di una grande occasione che non sempre è stata utilizzata al meglio. Quando torneremo a circolare liberamente, ricordiamoci anche di questo. (m.o.)

24 mag 2020

Cividale-Čedad



Cividale,Cividât in friulano, Čedad in sloveno è un comune del Friuli di 11.077 abitanti.Fu fondata da Giulio Cesare con il nome di Forum Iulii, da cui poi ha preso il nome tutta la regione, diventò il capoluogo longobardo del Friuli.

Cividale del Friuli sorge ai piedi dei colli del Friuli orientale sulle sponde del Natisone, a 17 km da Udine, sulla strada che collega la pianura friulana alla media e alta Valle dell'Isonzo , in territorio sloveno. Si estende su una superficie di 49,50 km², dall'altitudine minima di 97 metri alla massima di 508 metri.
La città, ai tempi dei romani, era chiamata Forum Iulii. La tradizione la indica come fondata da Giulio Cesare: «Forum Iulii ita dictum, quod Iulius Caesar negotiationis forum ibi statuerat». Il toponimo "Forum Iulii" potrebbe, invece, aver avuto origine dalla gens Iulia, che ha lasciato nella zona diverse altre testimonianze nei nomi attribuiti ai luoghi della regione. Tra il VII e l'VIII secolo venne chiamata Civitas Forum Iulii. Alla fine dell'VIII secolo Paolo Diacono la citava come Civitas vel Castrum Foroiulianum. Nel X secolo, essendo allocata nella parte orientale del regno di Lotario, cominciò a chiamarsi Civitas Austriae. Abbreviando il nome ufficiale, la popolazione la denominò Civitate(m), da cui discesero i nomi locali di SividàtZividàtCividàt e successivamente, intorno al XV secolo, prima in ambito letterario, quello di Cividale
La città, ai tempi dei romani, era chiamata Forum Iulii. La tradizione la indica come fondata da Giulio Cesare: «Forum Iulii ita dictum, quod Iulius Caesar negotiationis forum ibi statuerat». Il toponimo "Forum Iulii" potrebbe, invece, aver avuto origine dalla gens Iulia, che ha lasciato nella zona diverse altre testimonianze nei nomi attribuiti ai luoghi della regione. Tra il VII e l'VIII secolo venne chiamata Civitas Forum Iulii. Alla fine dell'VIII secolo Paolo Diacono la citava come Civitas vel Castrum Foroiulianum. Nel X secolo, essendo allocata nella parte orientale del regno di Lotario, cominciò a chiamarsi Civitas Austriae. Abbreviando il nome ufficiale, la popolazione la denominò Civitate(m), da cui discesero i nomi locali di SividàtZividàtCividàt e successivamente, intorno al XV secolo, prima in ambito letterario, quello di Cividale.
Epoca romana

La presenza umana nella zona dove oggi sorge Cividale risale a epoche piuttosto antiche, come attestato dalle stazioni preistoriche del Paleolitico e del Neolitico trovate appena fuori della città; ad esse si aggiungono abbondanti testimonianze dell'Età del Ferro e della presenza veneta e celtica risalenti sino al IV secolo a.C. La strategica posizione di questo primitivo insediamento indusse i Romani a stabilirvisi, fondando forse alla metà del II secolo a.C. un castrum, di ovvia natura militare, il quale fu in seguito elevato da Giulio Cesare a forum (mercato) e per tale motivo la località assunse il nome di "Forum Iulii" poi divenuto identificativo di tutta la regione. Successivamente la località fu elevata a municipium, venendo ascritta alla tribù romana Scaptia e assurse infine al rango di capitale della Regio X Venetia et Histria allorché Attila rase al suolo Aquileia nel V secolo

Epoca longobarda

Nel 568 giunsero dalla Pannonia i Longobardi, di origine scandinava, il cui re Alboino elesse subito la romana Forum Iulii a capitale del primo ducato longobardo in Italia e ponendovi duca il proprio nipote Gisulfo. Ribattezzata la propria capitale Civitas Austriae, ossia "Città dell'Austria" (da cui il nome moderno), i longobardi vi eressero edifici imponenti e prestigiosi e nei dintorni fondarono strutture fortificate assegnate alle fare, ossia le stirpi nobili di quel popolo germanico; nel 610 Cividale venne saccheggiata e incendiata dagli Avari, chiamati dal re longobardo Agilulfo (allora con sede a Milano) per punire la riottosità del duca "friulano" Gisulfo II. Nel 737, durante il regno di Liutprando e per sfuggire alle incursioni bizantine, il patriarca di Aquileia Callisto decise di trasferire qui la propria sede, così come già fece il vescovo di Zuglio che venne scacciato dallo stesso Callisto. La città ebbe così aumentato il suo ruolo anche grazie a quest'importante presenza ecclesiastica; già pochi decenni più tardi, nel 796, qui si tenne il concilio che riconfermò l'indissolubilità del matrimonio.
Il sacro Romano Impero e il Patriarcato di Aquileia

Nel 775 il Ducato del Friuli fu invaso dai Carolingi e i longobardi, col loro duca Rotgaudo in testa, impugnarono per l'ultima volta le armi fronteggiando l'arrivo dei Franchi. Sconfitti gli antichi dominatori, i Carolingi istituirono la marca orientale del Friuli, mantenendo come capitale Civitas Austriæ. Quest'ultima divenne sede di un'importante corte, soprattutto durante il marchesato di Eberardo che attirò uomini di cultura da tutt'Europa.
Il 25 maggio dell'anno 825 l'imperatore Lotario I promulga il capitolare di Corteolona che costituì le scuole imperiali, oltre a Pavia capitale del Regno d'Italia, anche Cividale ebbe la scuola pubblica di diritto, di retorica e arti liberali, ereditando la tradizione della scuola di diritto, fondata dall'imperatore romano Teodosio I; dalla sede di Cividale dipendevano tutti gli studenti della Marca del Friuli.
Dalle famiglie che ressero la marca ebbero i natali importanti uomini politici tra cui l'imperatore Berengario, figlio dello stesso Eberardo. Nel X secolo, ossia in epoca ottoniana, la marca friulana venne declassata a contea (o contado) e inserita dapprima nella marca di Verona e quindi in quella di Carinzia (quest'ultima facente dapprima parte del Ducato di Baviera per poi assurgere essa stessa a Ducato). La ricomposizione dei poteri a livello centroeuropeo e norditaliano lasciò un importante spazio ai patriarchi, i quali accrebbero i propri beni e il proprio potere sin dall'inizio del X secolo e nel 1077 divennero liberi feudatari del Sacro Romano Impero su un vasto territorio. Sorse così lo Stato patriarcale durato sino al 1419.
Cividale rimase comunque il massimo centro politico e commerciale di tutto il Friuli, rivaleggiando dal XIII secolo con Udine, la quale era in forte ascesa grazie a una più congeniale posizione geografica, tanto che il patriarca Bertoldo di Andechs-Merania nel 1238 vi trasferì la propria sede. La città vide sorgere monasteri e conventi, palazzi e torri, qui posero residenza le più importanti casate parlamentari del Friuli e ne fiorirono di altrettanto dignitose. nel 1331 Cividale rimane nelle cronache perché furono usate, per la prima volta, le prime armi da fuoco; le cronache parlano di combattimento "con gli sclopi" sul Ponte del Diavolo. Nel 1353 l'imperatore Carlo IV, dopo una sanguinosa vendetta operata da suo fratello il patriarca Nicola di Lussemburgo (1350-58) - e scatenata anche contro i cividalesi per punire l'assassinio del predecessore Bertrando - concedette a Cividale l'apertura dell'Università.
Nel 1301 un terremoto e una violenta grandinata colpirono Cividale ma non si segnalarono danni neppure al Duomo, che invece nel 1348 fu notevolmente rimaneggiato da una violenta scossa, le notizie sono molto scarne e trovano riscontro solo nel sito "storing.ingv.it". Nel 1364, probabilmente l'8 agosto, il Duomo subì ulteriori danni; in questo caso si conosce l'intensità della scossa, che fu di 4,83° scala Richter, ma non si sa se vi furono delle vittime. Il terremoto ebbe come epicentro Lombai nel comune di Grimacco e un'ulteriore conferma la troviamo sul portale dell'Abruzzo.
Le lotte intestine friulane, durante le quali Cividale era spesso alleata dei conti di Gorizia e dei nobili castellani contro Udine, trovarono via via una più serrata intensità sino a concludersi convulsamente nel 1419, quando Venezia si decise a invadere la regione. Cividale si diede per prima alla Serenissima, stipulando una solenne pace e una contestuale alleanza. Nei decenni successivi alcuni nobili progettarono di aprir le porte allo spodestato patriarca Ludovico di Teck, tornato nel 1431 alla testa di 4.000 ungari, ma il progetto fallì.

Le due guerre mondiali
Durante la Prima guerra mondiale, Cividale ospitò il comando della II Armata e rimase danneggiata da bombardamenti aerei; occupata dagli austro-tedeschi in seguito alla disfatta di Caporetto, la città venne riconquistata dagli italiani alla fine di ottobre 1918 dopo la vittoria sul Piave. Negli anni seguenti fu foriera di illustri personalità date al Fascismo. Nel corso della Seconda Guerra mondiale (1943) la città venne annessa con tutto il Friuli al III Reich e qui vennero anche dislocate truppe cosacche e calmucche alleate dei tedeschi.
Sul suo territorio si consumò non solo la guerra civile ma altresì un drammatico episodio di lotta tra partigiani osovani e garibaldini (comunisti e socialisti, agli ordini del IX Korpus jugoslavo): nel Bosco Romagno i Gappisti comunisti uccisero diversi combattenti Osovani (tra cui il fratello di PierPaolo Pasolini) precedentemente catturati alle malghe di Porzûs. Furono diversi gli episodi di scontro tra Osovani e Garibaldini filo-titini. Una situazione ambigua, poiché gli Jugoslavi non nascosero mai il loro desiderio di annettere i territori italiani fino al Tagliamento, in virtù di un'infondata convinzione che il Friuli fosse anticamente abitato da sloveni. Questo provocò una netta contrapposizione tra Osovani e Garibaldini.
Nel secondo dopoguerra, Cividale è stata la sede del comando e di alcuni reparti della Brigata meccanizzata "Isonzo", posta a difesa della frontiera orientale in caso di invasione da parte del patto di Varsavia, dove alcune componenti della Fanteria d'arresto custodivano diverse opere difensive, tra cui la Galleria di Purgessimo. La particolare posizione in tale contesto storico e geopolitico portò alla presenza in zona dell'Organizzazione Gladio, - articolazione nazionale della Stay Behind della NATO - a cui aderirono principalmente alpini ed ex alpini addestrati ad organizzare una resistenza armata sul territorio in caso di invasione sovietica. La Città e il territorio subirono alcuni danni nel terremoto del 1976, ma le ferite vennero presto rimarginate.
A Cividale del Friuli, accanto alla lingua italiana, la popolazione utilizza la lingua friulana. Ai sensi della Deliberazione n. 2680 del 3 agosto 2001 della Giunta della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, il Comune è inserito nell'ambito territoriale di tutela della lingua friulana ai fini della applicazione della legge 482/99, della legge regionale 15/96 e della legge regionale 29/2007.
La lingua friulana che si parla a Cividale del Friuli rientra fra le varianti appartenenti al friulano centro orientale .
Tradizioni e folclore
Cucina
La cucina cividalese è tipica della valle del Natisone e del Friuli orientale. Particolarmente importanti i vini, i formaggi e la pasticceria: la Gubana, un tipico dolce delle valli del Natisone, a base di pasta dolce lievitata con un ripieno di nociuvettapinolizucchero, scorza grattugiata di limone, dalla forma a spirale e cotto al forno, le gubanette, simili alla gubana ma più piccole, e gli strucchi, pasta dolce fritta o lessa ripiena con uvetta, pinoli, noci e nocciole.
Cividale è la città capofila del progetto Longobardi in Italia: i luoghi del potere (568-774 d.C.), inserito nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel giugno 2011 ed è membro associato del progetto europeo a guida italiana EUHeritage-TOUR; a Cividale fa parte del sito seriale l'area della Gastaldaga con il Tempietto longobardo e il Complesso episcopale, che include i resti del Palazzo patriarcale sottostanti al Museo archeologico nazionale.
da wikipedia

IRENE DA SPILIMBERGO pittrice friulana



Gli esempi luminosi di chi nel corso di una vita più o meno lunga ha lasciato onorevole ricordo di sè non possono essere eclissati nè dal tempo nè dalle umane vicende.
E il nome di Irene da Spilimbergo, alla quale è dedicato l’Istituto Magistrale di San Pietro al Natisone, è ancor oggi una fiaccola che può illuminare il cammino a quanti si accingono a percorrere le vie del sapere.
Poche le memorie rimaste di lei, ma tali che lasciano perplessi e fanno pensare quali mete Irene avrebbe raggiunto se la sua vita si fosse protratta più a lungo nel tempo.Nacque a Spilimbergo nel 1541, secondogenita del Conte Adriano da Spilimbergo e della nobile patrizia veneta Giulia Da Ponte.Il Conte Adriano, perfetto conoscitore delle lingue ebraica, greca e latina, “letteratissimo così nelle lingue come nelle scienze” le diede la prima educazione e rilevò ben presto la precocità intellettuale di Irene. La quale assimilava con tanta rapidità quanto le veniva insegnato da destare l’ammirazione di quanti l’avvicinavano, della stessa regina Bona di Polonia, che di passaggio per il Friuli fu ospite dei Conti Spilimbergo e fece dono ad Irene di due catene d’oro, e dello zio Giovan Paolo Da Ponte, gentiluomo di rare qualità.
Il padre di Irene morì quando la fanciulla non aveva ancora raggiunti i dieci anni, e la madre, dopo il periodo di lutto, passò a seconde nozze.
Giovan Paolo Da Ponte volle Irene presso di sè e la fanciulla, poco più che decenne, fece il suo ingresso nella nobile famiglia dei Da Ponte, una delle più illustri case di Venezia, che potè vantare anche un doge, Nicolò Da Ponte.
Le preclari qualità della fanciulla qui ebbero modo di svilupparsi e concretarsi.
Fu educata alle lettere, alla musica e al ricamo fra i dotti conversari e le fini maniere delle patrizie Olimpia Malipiero, Foscarina Venier e Adriana Contarini; alla serietà degli studi fra le dissertazioni letterarie di Eaisabetta Quirini e Pietro Bembo; al culto del bello dalla famigliarità di vita con Tiziano Vecellio e Sansovino.
Si dedicò allo studio dei migliori scrittori italiani dal Petrarca al Bembo con una tenacia insolita in una età ancora tanto giovane; e lo studio assiduo nell’età dell’immaginazione e dell’entusiasmo le fecondò la mente e il senso del bello. Le dotte conversazioni, alle quali sempre partecipava più per ascoltare che per parlare, accrebbero il tesoro delle sue cognizioni tanto che cominciò ben presto ad attrarre l’attenzione degli illustri frequentatori di casa Da Ponte.
Un’aureola di stupore e di ammirazione la circondò ben presto, nella luce della quale Irene si moveva ed appariva quasi un essere destinato a grandi cose fin da giovane. Modesta nel portamento, anche nella ricchezza dell’abbigliamento che curava in modo particolare ricamando su preziose sete o su candidi lini figurazioni e allegorie con raro senso artistico, graziosa e delicata, squisita esecutrice di musica classica all’arpa e alla viola, divenne come una meteora luminosa sulla quale si appuntarono gli sguardi dei più celebri maestri delle lettere, delle scienze e dell’arte.
E verso Irene, con le mature patrizie, cominciò ad accorrere anche la gioventù veneziana quasi in una gara di spirito e di eleganza per ottenere in cambio una parola, un sorriso o almeno uno sguardo. Irene però, con la finezza propria dell’educazione e del sentimento, fece presto intendere di sentirsi portata unicamente verso i valori dello spirito di fronte ai quali tutto ciò che è solamente terreno impallidisce e muore.
Gli anni trascorsi nel vecchio castello di Spilimbergo, nella contemplazione delle bellezze della natura, del dolce paesaggio che dalle sponde del Tagliamento va mollemente elevandosi fino alle verdi colline per perdersi nella maestosità delle Alpi Carniche, avevano lasciato nel suo cuore un nostalgico desiderio di qualche cosa che potesse far rivivere il mondo interiore che si agitava in lei.
L’incanto dalla laguna, il mare sconfinato, la festa di colori, di cui Venezia è sempre accesa, avevano trasformato il desiderio in volontà.
A Spilimbergo aveva imparato ancor fanciulla il disegno da una certa Gampaspe che frequentava il castello; a Venezia, attratta nell’orbita del grande Tiziano, volle diventare sua allieva. E Tiziano, quantunque spesso astioso e insofferente di aver accanto allievi o imitatori, l’accettò di buon grado…, “e: non era poco per lei l’addivenire allieva di colui che fra i pittori era chiamato maestro universale”.
Una base comune unì maestro e allieva fin dall’inizio: l’amore per la natura, per quella natura che è incomparabilmente superiore a qualsiasi tecnica pittorica e che sola può essere ispiratrice de bello.
Tiziano guidò amorevolmente per un anno la giovane, incoraggiando e correggendo con paternità e con severità, additandole come modello da imitare quel Giovanni Bellini che era stato suo maestro e che aveva saputo trasfondere tanta grazia sovrumana nelle sue Madonne.
Tiziano si preoccupò di instillare in Irene quel senso del bello che deriva dall’armonia dei colori e dall’equilibrio tra il semplice e il vero.
Irene sentì nella persona e nell’arte del maestro qualche cosa che trascendeva le più elette capacità e fece meta dei suoi pellegrinaggi quasi quotidiani l’Assunta che già sfolgorava nella Chiesa dei Frari.
La contemplazione e la meditazione di quel gioiello inestimabile furono la sua scuola migliore.
Volle allora cimentarsi con la tavolozza. Rimangono di lei tre quadretti che nella armoniosa fusione delle tinte, delle luci, della composizione possono considerarsi una felicissima prova della versatilità e dell’intuizione dello spirito di Irene.
I tre quadri, portati alla luce dal conte Fabio di Maniago e raffiguranti rispettivamente “Noè che entra nell’Arca”, il “Diluvio Universale”, la “Fuga in Egitto”, furono da Irene composti all’età di 18 anni, dopo un anno cioè di studio assiduo sotto la guida del suo illustre maestro, spinta da un profondo senso di emulazione per una sua amica, allieva del cremonese Bernardo Campi, Sofonisba Anguissiola che pur giovane già godeva di fama meritata.
Oltre la pittura storico-biblica sembra, a dire di un anonimo poeta suo contemporaneo, che Irene abbia imparato da Tiziano anche l’arte del ritratto.
Così infatti si esprime l’anonimo:
Dal divin Tiziano ed immortale
l’arte imparò già di ritrar altrui
Irene che poi mai ebbe uguale.
Irene fu anche scrittrice. Poesie da lei composte erano possedute dal conte Bastiano Mistruzzi, e alcune prose e orazioni dal cancelliere dei Conti di Spilimbergo, Francesco Stella; ma tutti questi saggi letterari andarono perduti.
L’attività di questa fanciulla ebbe qualcosa di prodigioso; ma sembra che la natura non voglia mai venir meno alla sua legge sulla graduale e lenta evoluzione dell’intelligenza umana. Lo studio, le veglie, le fatiche avevano già minato la salute di Irene. A nulla valsero le esortazioni amorevoli; i consigli, l’affetto, i rimproveri di chi l’amava e le stava accanto.
L’ansia e il tormento di non poter raggiungere la meta prefissasi erano diventati quasi una seconda natura che per poco tempo valse a sostenere la fragilità del suo corpo.
Aveva appena 18 anni quando una febbre ardentissima l’assalì, accompagnata da acutissimi dolori alla testa.
Per 22 giorni si dibattè tra la vita e la morte e poi reclinò il capo come un fiore troppo bello per restare più a lungo sui giardini della terra.
Il trapasso, anche nel tormento del male, fu sereno e cristianissimo come era stata la sua vita.
Era il 1559.
La notizia della sua morte si sparse rapidamente.
E fu un accorrere angoscioso di artisti e di letterati, e fu una gara di lodi e di omaggi alle doti di mente e di cuore di Irene.
Tiziano che l’aveva avuta allieva prediletta, che l’aveva amata come un padre, la volle immortalare in un quadro dove splendore, bellezza e compostezza si fondono mirabilmente.
Il quadro era posseduto dal Conte Giulio di Spilimbergo e custodito nella sua casa di Dernanins a Maniago.
Successivamente fu portato in casa dei Conti Maniago a Maniago.
Torquato Tasso, che era legato ad Irene oltre che dalla stima da un vincolo di parentela, avendo Lucia Tasso, sorella naturale di Bernardi, sposato il Conte Alessandro di Spilimbergo, si inchinò commosso davanti alla morte della promettente fanciulla e venne a confondere “il proprio pianto al pianto universale per la cruda morte di Irene: di questa Beatrice della pittura e del femminino friulano”.
Volle anche, dopo aver visto il quadro del Tiziano, rievocarla in pochi versi:
Quai leggiadri pensier, quai sante voglie
dovea viva destar ne l’altrui menti
questa del Gran Motor gradita figlia!
Poi c’hor dipinta (o nobil meraviglia)
e di cure d’honor calde ed ardenti
e d’honesti desir par che ne invoglie.
Tre secoli più tardi il poeta Luigi Carrer nel suo “Anello di 7 gemme o Venezia e la sua storia” pose Irene da Spilimbergo ira le sette donne che diedero luce e gloria senza pari alla Serenissima che con l’iniquo trattato di Campoformido cessava per sempre di esistere.
E il Prati ancora, osservando un dipinto nel vecchio castello di Spilimbergo, volgeva un pensiero reverente all’autore Giovanni da Udine, che…
del merlato Spilimbergo intorno
udia sull’aura reverenti i nomi
di Vecellio e di Irene, ambo immortali.
Più recentemente il nome di Irene di Spilimbergo fu posto ancora una volta in luce.
Un trafiletto de “La Patria del Friuli” del 12 settembre 1907 riportava un desiderio espresso da Pietro Mascagni di avere un libretto da musicare, disposto per questo a pagare qualsiasi somma.
La scrittrice viennese Tosa Will, nota maggiormente sotto il pseudonimo di Wilda, compose un libretto in un prologo e 2 atti dal titolo “Irene da Spilimbergo”.
Il manoscritto fu dal Mascagni ricevuto e fatto tradurre, ma poi, non si sa come, andò perduto.
Per questo motivo l’autrice che non ne possedeva un altro esemplare, sporse querela contro l’insigne musicista italiano.
Per una fatalità quindi ci è venuta forse a mancare un’opera che avrebbe certamente divulgato ancor di più il nome e le virtù di questa meravigliosa figlia del Friuli.
Lungo sarebbe ricordare anche soltanto i nomi di tutti coloro che dal tempo della morte di Irene ad oggi vollero in qualche modo celebrarla e glorificarla.
Credo tuttavia che il profilo di Irene, quale appare dalle poche e frammentarie notizie raccolte, sia sufficientemente delineato per mostrare quanto degnamente il suo nome possa stare sulla facciata del glorioso Istituto Magistrale di San Pietro al Natisone fondato da 130 anni ormai.
Questa volitiva fanciulla è guida delle giovani menti che si accingono a percorrere le dilettevoli, se pur aspre, vie del sapere…, possa la sua luce illuminare le intelligenze e il suo calore accendere nei cuori quelle fiamme che solo nell’amore della terra natale, del buono e del bello trovano un’esca che le rende inestinguibili.
Ringrazio Loris per aver concesso la pubblicazione.

23 mag 2020

Il manoscritto di Castelmonte

Castelmonte-Stara Gora

Il Manoscritto di Castelmonte (Starogorski rokopis).

E' composto da due fogli contenenti le preghiere del Padre Nostro, dell'Ave Maria e del Credo come nel Manoscritto di Rateče o di Klagenfurt. Si suppone sia una trascrizione di quello di Rateče e il collegamento potrebbe esser confermato a livello di lingua e scrittura, poiché son presenti caratteristiche peculiari delle parlate della Carniola, del Carso interno collegate a quelle delle Valli del Natisone. Castelmonte è meta continua di pellegrinaggi da secoli (8) e quindi è possibile parlare di commistione linguistica. L' autore del manoscritto sembra essere il vicario di Castelmonte Lavrenčij da Mirnik presso Gorizia e la scrittura risulta influenzata dall'ambiente latino-italico. Il documento faceva parte integrante del libro della Confraternita di Santa Maria del Monte e venne ritrovato solo verso gli anni '60 del XX secolo e poi pubblicato, a cura di don Angelo Cracina, nel 1973. Cracina sostiene che il manoscritto sia databile dal 1498 ai primi anni del '500, mentre Breda Pogorelec fra il 1492 e il 1498.
Opere interamente in lingua slovena, lingua soggetta ad una cosciente e decisa normativizzazione durante il XVI sec. , si ebbero a partire dalla traduzione della Bibbia di Jurij Dalmatin, cioè il 1584, ma testimonianze provenienti dalle Valli del Natisone si hanno solamente dalla seconda metà del '700 e provengono perlopiù anche qui dall'ambito ecclesiastico: i catechismi.
Questi catechismi manoscritti non si discostano molto dalla lingua slovena ufficiale dell'epoca, citiamo quello di don Michele Podrecca del 1743, e un altro sempre suo o di Leonardo Trusnig del 1780, dove la lingua locale tende ad espandere la sua presenza.
Nel corso dell'Ottocento troviamo quello di don Pietro Podrecca, Katekizem za Slovence Videmske Nadškofije na Beneškem, compilato assieme a don Michele Mucig e pubblicato nel 1869, totalmente in sloveno letterario.
Ma qualcuno rappresenta un'eccezione alla regola ed è don Andrea Floreancig di Covacevizza, che ha scritto un catechismo in lingua locale, il quale presenta influenze della lingua centrale minime. Datato 1891 è purtroppo incompleto, ma rappresenta una vera intenzione di dare alla lingua locale una dignità letteraria autonoma e una tradizione scritta.
Ai catechismi fanno seguito le prediche, quelle più famose di don Pietro Podrecca ritrovate ad Antro che sono quattro, datate 1848-1854, e di altri sacerdoti anonimi (9). La predica fu il genere letterario più in voga nelle Valli all'epoca.
Dopo le prediche, sempre in sloveno letterario, troviamo i libri di preghiere, ma già del novecento, ad esempio Naše molitve di Ivan Trinko, del 1951.
Trinko e Anton Clodig, letterato e pedagogo divenuto popolare nel mondo sloveno per le sue liriche epiche di Livško jezero (1912) e alcuni pezzi teatrali, si occuparono anche più strettamente di lingua. Del primo conserviamo una grammatica slovena rivolta agli abitanti della Valli e del secondo una descrizione della lingua locale pubblicata a San Pietroburgo nel 1878.

Esulano dall'ambito ecclesiastico anche se scritte da ecclesiastici alcune raccolte di poesie. Quella più famosa, ma non subito apprezzata dalla critica slovena, fu Poezije sempre di Ivan Trinko Zamejski (pseudonimo), pubblicata nel 1897; poi di Pietro Podrecca, sono Predraga Italija, manifesto antiaustriaco del 1848 e Slovenija in njena hčerka na Beneškem citate anche da Carlo Podrecca, le poesie religioso-popolari di Valentin Birtič-Zdravko, Spomin na dom (1983) e quelle di Rinaldo Luszach, e prima di queste opere si ricorda ancora un libretto di canti popolari scritti e musicati da don Antonio Droli (1808-1888), capellano e maestro elementare a Cravero (San Leonardo), tra cui il noto canto delle Valli Sladko vince. A queste si aggiungono pubblicazioni di varia natura del primo novecento, ancora di Ivan Trinko, racconti di piccole avventure della vita quotidiana dei ragazzi della Slavia Naši Paglavci (1929).
Non si può dimenticare poi il repertorio di canti prevalentemente religiosi in lingua slovena letteraria e sovra-dialettale (sloveno letterario interpolato alla lingua locale o “dialetto” elevato) (10), ma anche profani.
Operano in grande autonomia dalla lingua centrale, non rifiutandola, i compositori Nino Specogna e Antonio Qualizza, che maggiormente si dedicano però alle ricerche sui canti sia sacri che profani diffusi nelle Valli. Del primo, citiamo Canti sacri nel Comune di Pulfero (1998) pubblicato assieme a Luciano Chiabudini e Pod Lipo (1999), mentre per il secondo Se zmisleš... (1999, rivisto 2005), che raccoglie duecento canti del comune di Stregna.
Nino Specogna, tra l'altro, ha scritto anche libri sull'educazione musicale per le scuole dell'obbligo. I manuali Noi e la Musica (1986) e Cantiamo (1997) manifestano il suo impegno per la creazione di un istituto musicale nelle Valli. Si anticipa qui che il suo amore per la cultura autoctona lo ha condotto alla redazione di una Gramatika (Grammatica)e di un Besednjak (Vocabolario) della lingua locale nediška, avvenimento storico importantissimo che, con l'immissione dalla tradizione scritta, ha elevato a dignità di lingua il nediško (prima espressione linguistica)
http://www.lintver.it/index.html

IL MANOSCRITTO DI CASTELMONTE

Manoscritto di Castelmonte(Starogorski Rokopis in sloveno) è uno dei più antichi documenti,fino a noi pervenuti,scritto in lingua slovena.Fu compilato alla fine del XV secolo (1492-1498) con il testo delle preghiere del Pater Noster, dell'Ave Maria e del Credo.

EPOCA

Il manoscritto fu redatto presso il Santuario della Beata Vergine di Castelmonte, situato nelle vicinanze di Cividale del Friuli, tra il 1492 ed il 1498 da Lorenzo da Mernicco (Laurentius vicario di Mirnik). Il periodo corrisponde a quello in cui l'idioma sloveno, fino ad allora prettamente orale, cominciava a sviluppare le regole per dotarsi anche di una forma grafica.
CONTENUTO

 Il manoscritto, composto da due fogli, contiene le principali preghiere del Cristianesimo e precisamente il Padre Nostro, l'Ave Maria ed il Credo. Nel testo sono presenti caratteristiche peculiari delle parlate della Carniola, del Carso interno e della Slavia Veneta. Insieme al manoscritto di Cergneu, custodito presso il Museo Archeologico Nazionale di Cividale, testimonia il contributo dato dall'idioma parlato nella Slavia friulana alla formazione della lingua slovena letteraria.

Il documento, che faceva parte integrante del libro della Confraternita di Santa Maria del Monte, venne ritrovato solo verso gli anni 60 del XX secolo e fu pubblicato, a cura di Angelo Cracina, nel 1974. Il manoscritto era inizialmente conservato presso l'Archivio arcivescovile di Udine; attualmente risulterebbe custodito presso l'Archivio Capitolare della parrocchia di Santa Maria Assunta di Cividale del Friuli.


Preghiere

Il Padre Nostro

I.
Oratio dominicalis sclauonice
Otzha naſch kher ſy vnebeſſich poſſchwetſcheno
wody twoye yeme, pridi khnam twoye
Bogaſtwo, yſidiſſe twoye wuolle, khokher vnebeſſich
tochu Naſemle. Day nam donneſs ta vſſe-
dannj khruch ynuy nam odpuſti naſche douge
khokhr mi odpuſtimo naſchim dolſchnickham.
Naſs vnapellay, na reſreſchno, Naſs reſche
od ſlega. Amen.

L'Ave Maria

II.
Salutatio Angelica
Zheſchena ſy Maria gnade ſy pollna
goſpod ye ſtabo, ſegnana ſy me
vuſſemj ſchenamy, ſchegnan ye ta ſſadt,
twoyga telleſſa. Yhs Hps Amen.

Il Credo

III.
Symbolum Appoſtollor(um)
Yest veryo na boga vſſega mogotzhiga, otzha
ſtvarnickha nebeſs ynuy ſemle ynuy na
Jheſuſſa chriſtuſſa ſynnu nega ediniga
goſpodj naſchiga, kheter ye podtzhett od ſwetiga
ducha Royen od Marie diwitze, Martran
pod pontio pyllatuſſo. Na khriſch reſpett,
ys khriſcha ſnett, mortiw vgrob polloſchen,
pred pekhell yede, Na trettye dan od
ſmertte vſtall, Na nebw ſtoppl, tu ſydj
Na deſſnitzi ſwoyga otzha nebeſkhiga od
tod yma tudi pritti ynuy ſodittj zhes
ſchywe ynuy zhes me(o)rtwe
Yest veryo na sſwettiga ducha, sſwetto kherſchan-
ſckho Zerckho, gmayno vſſech ſwettikhow
odpuſchane grechow, ſtayenna tega ſchewotta
ynuy ta vi(e)tzhe leben. Amen [4]




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