Contro la Humanity1, è infatti stato emesso il 4 novembre un
decreto interministeriale: con questo atto, il Viminale, di concerto con i ministeri della Difesa e delle Infrastrutture, ha vietato alla nave della Ong, con 179 naufraghi a bordo, di “sostare nelle acque territoriali nazionali oltre il termine necessario alle operazioni di soccorso e assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali e in precarie condizioni di salute segnalate dalle competenti Autorità nazionali”. Alle persone rimaste a bordo (o che ci sarebbero dovute rimanere, nelle intenzioni governative) sarebbe comunque stata garantita, assicurava il decreto, “l’assistenza occorrente per l’uscita dalle acque territoriali”.
Il concetto elastico di emergenza
Già lo scarno dispositivo del decreto pone un primo problema: che cosa si intende per “condizioni emergenziali”? In base a quali parametri le condizioni di salute dei naufraghi a bordo si considerano precarie?
La definizione del decreto appare tanto più vaga se guardiamo all’uso comune e politico della parola “emergenza”. Consideriamo emergenza una pandemia quanto un terremoto, ma, con lo stesso termine, vengono indicati anche fenomeni meno imprevedibili e più gestibili: periodicamente sono stati varati provvedimenti per rispondere all’emergenza carceri, l’emergenza abitativa impegna da sempre gli enti locali, si parla di emergenza climatica dopo anni di minimizzazioni sull’abuso antropico delle risorse naturali. E, quanto alla comunicazione istituzionale (se non alla propaganda in senso stretto) dei governi dell’ultimo ventennio, abbiamo visto varie “emergenze”: siamo passati da quella sui “nomadi”, che ha legittimato politiche ai limiti della segregazione, a quella su sbarchi e immigrazione, a prescindere da qualunque dato o statistica. Allo stesso modo, guardando al presente, nel suo discorso programmatico, la presidente Meloni ha citato una “crescente emergenza delle devianze, fatte di droga, alcolismo, criminalità”.
Il concetto di emergenza è allora elastico, flessibile, si plasma a seconda delle esigenze di chi lo utilizza. Se riguarda i naufraghi trasportati dalle navi delle ONG, però, viene di fatto inteso come emergenza sanitaria o, al più, come fragilità anagrafica: inizialmente dalla Humanity1 sono scesi soltanto uomini e donne malati, bambini e minori non accompagnati, mentre sul ponte sono rimasti ad aspettare, altri giorni, trentacinque uomini, il “carico residuale”, secondo il ministro Piantedosi, il quale, interpellato sull’utilizzo dell’espressione, ha dichiarato: “non prendiamo lezioni da nessuno dal punto di vista del rispetto dei diritti umani”.
Naufragio, ricerca, soccorso: si salva, non si seleziona
Ecco perché, quanto più grave è il rischio, tanto più la soluzione deve essere semplice. Così, ad esempio, chiunque è punibile per omissione di soccorso se non presta aiuto a una persona ferita, o in pericolo, o priva di conoscenza. Sullo stesso principio si basano le regole del mare e, in particolare, le convenzioni in materia di soccorso o in caso di naufragio, recepite anche nel nostro Codice della Navigazione.
Il quadro normativo è chiaro: in mare, se ci sono vite in pericolo, chiunque è obbligato a prestare soccorso a imbarcazioni in difficoltà o persone in acqua. A questo dovere generale, per tutti i soggetti pubblici o privati che si trovino a navigare, si aggiunge l’obbligo per gli Stati di prevedere sistemi di coordinamento e cooperazione per l’assistenza e lo sbarco.
In questo sistema di solidarietà, le condizioni personali e giuridiche delle persone da recuperare e assistere sono irrilevanti: che provenga da uno yacht in avaria davanti a Posillipo, da una monoposto per regate nell’Atlantico o da una carretta del mare partita dalla Libia, un naufrago ha sempre e comunque diritto di essere soccorso.
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E il soccorso non termina mettendo i sopravvissuti su una nave più grande, ma si conclude solo con lo sbarco, portando cioè le persone recuperate, secondo le indicazioni del centro di coordinamento, al più vicino POS (place of safety, porto sicuro).
Il POS è il luogo in cui le operazioni di soccorso si considerano concluse, dove la sicurezza e la vita dei naufraghi non sia minacciata e le loro necessità umane primarie possano essere soddisfatte. Non tutti i porti, allora, sono sicuri.
Porto o posto: in ogni caso, non la Libia
All’inizio del mese si è rinnovato tacitamente il memorandum tra Italia e Libia, siglato dal ministro Minniti sotto il governo Gentiloni. Per altri tre anni, il nostro paese si impegna a vario titolo nella fornitura di mezzi, nella formazione e nel finanziamento della guardia costiera libica e dei cosiddetti centri di accoglienza, mentre la Libia, come contropartita, deve occuparsi del controllo dei confini marittimi...continua qui https://www.valigiablu.it/