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Le rape

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da Vita nei Campi

 Novembre: testa di rapa.

di Angelo Floramo
Prodotto povero per antonomasia, la rapa ha da sempre rappresentato un alimento fondamentale del contadino friulano. Coltivata a margine dei campi o negli orti, venne considerata talmente preziosa per la sopravvivenza “nei mesi freddi” che i legislatori medievali punirono con grande severità chi le rubava, mettendo a repentaglio la sussistenza dei ceti più svantaggiati. Così ad esempio gli statuti di Ragogna, risalenti alla fine del secolo XV, colpiscono con particolare asprezza coloro che, intromettendosi nei fondi altrui ardiscono “portare via rape o foglie di rape”, conosciute in Friuli come viscjes, importante fonte di sostentamento, assieme al vino, per la gente comune. La celebre “brovada” non era l’unica ricetta: le donne sapevano bene che dopo la prima gelata veniva il tempo della raccolta. Le rape diventavano così gustosissimi “ufiei” se tagliate a tocchettini, fatte lessare e poi passate in padella nello strutto; le foglie si conservavano invece sotto sale ottime per condire le zuppe. Correva il 1547 quando con il nome d’arte di Andrea Bergamo Pietro Nelli stampò un libretto godibilissimo, che contiene ventisei capitoli scritti in rima conosciuto come le “Satire alla charlona”. Il contenuto è ispirato alla grande tradizione burlesca del ‘500. Ne esce un quadro estremamente colorato di straordinaria vivacità, che ha il sapore di quel vino che si versa sulle tavole di legno di un’osteria piuttosto che l’abboccato dolce e stucchevole di un liquore offerto in calici di cristallo nel salotto di una corte raffinata. I contenuti sono rabbiosi ma l’acidulo si mescola sempre alla leggerezza che scaturisce dalla risata, mantenendo intatto il piacere ruvido e il gusto di mordere quando capita. Nel capitolo dedicato alla “lingua” l’autore si occupa anche dei friulani: “Ma dà vanto al Friul d’un tal contento, lingue furlane, anchor che fosser nate cento miglia di qua dal Tagliamento, o fosser pur delle vacche impastate ne pestrini in Venezia, assai più degne che le furlane, con rape ingrassate”. Mi sembra il complimento più bello fatto all’idioma che schiocca in queste nostre contrade, definito schietto e vero, forse perché corretto con l’asprigno delle rape, così lontane dai confetti veneziani. Per questo destinato a farsi riconoscere anche lontano dal Tagliamento. Come a dire che Popolo e Lingua si assomigliano. E che c’è più dignità in una scodella di “brovada”, ma gustata da uomini liberi, che in un piatto d’argento leccato con la lingua di un servo.

Messa con concerto

 


Združenje/Associazione Don Eugenio Blanchini

📆🎅V nedeljo 4. decembra nadaljujemo z ciklom adventnih koncertov v Černeji – pridite in se prepustite glasbi v slovenskem jeziku skupaj z Slovenskim pevskim zborom iz Tržaškega 🤩
👉Ob 11:00 koncert pri maši v cerkvi Svetega Jakoba v Černeji skupaj v organizaciji z Associazione Culturale Cernedum
📆🎅Domenica 4 dicembre continuiamo con il concerto dell'Avvento a Cergneu Superiore - venite e lasciatevi andare nella musica della lingua slovena con il coro sloveno di costa triestina 🤩
👉Alle 11:00 Concerto alla messa nella chiesa di San Giacomo a Cergneu Superiore organizzato in collaborazione con l'Associazione Culturale Cernedum

Mercatini di Natale nelle Valli del Natisone


 Oggi,Sabato 3 Dicembre, e Domenica 4 Dicembre dalle 10 alle 19 vi aspettiamo a San Pietro al Natisone, zona Centro Studi.

Con qualunque tempo, il Mercatino si svolgerà al coperto in ambiente riscaldato, dove sarà possibile anche gustare bevande e piatti caldi presso i punti ristoro.
Un'occasione per conoscere tanti artigiani e produttori agricoli delle nostre zone, vedere dal vivo ed acquistare i loro prodotti.

Nelle Valli del Natisone arrivano i mercatini di Natale

Valli del Natisone pronte a far vivere ai visitatori un fantastico periodo natalizio: la Pro Loco Nediške Doline – Valli del Natisone ha presentato il suo programma che prevede Mercatini di Natale, Agribus tra le aziende agricole e ricette della tradizione e tanti altri eventi.

Si inizia sabato 3 e domenica 4 dicembre a San Pietro al Natisone nelle strutture al coperto e riscaldate del Centro studi con i Mercatini di Natale delle Valli del Natisone dalle 10 alle 19. “Saranno presenti - spiega il presidente della Pro Loco Antonio De Toni - oltre 100 artigiani, agricoltori e artisti del Friuli Venezia Giulia e della vicina Slovenia, con opere creative e manufatti utili e suggestivi, pezzi unici e realizzati rigorosamente a mano”.

I visitatori potranno trovare sculture in legno, maglieria di lana lavorata ai ferri, cesti e creazioni artistiche e tutte le produzioni agroalimentari tipiche della zona come mele, miele, vino, formaggi, salumi e dolci della tradizione. L'evento giunge alla sua 18esima edizione ed è organizzato da Pro Loco Nediške Doline – Valli del Natisone APS e Comune di San Pietro al Natisone. Durante i due giorni, saranno presenti anche punti ristoro con prodotti a Km 0 per una merenda o uno spuntino durante la visita.

“Complimenti alla Pro Loco - commenta il presidente del Comitato regionale Unpli Pro Loco del Friuli Venezia Giulia Valter Pezzarini - per questo evento che sa valorizzare le eccellenze delle Valli del Natisone, rendendo più speciale il Natale. Questo come gli altri eventi natalizi delle nostre associate, con tanti volontari impegnati in questi giorni nell’organizzazione, è un messaggi di speranza per il futuro e un invito a condividere le gioie più semplici che sono però anche le più durature”.

Domenica 11 dicembre si terrà invece un'edizione speciale dell'Agribus delle Valli, con partenza da Udine (Piazza Primo Maggio) alle 9 e rientro alle 18 con tour e degustazioni alla scoperta di prodotti tipici nei luoghi di produzione come la gubana, il vino, l'olio d'oliva, il miele e la visita al suggestivo mercatino di Natale di Borgo Stremiz a Faedis. Previste tappe presso il Gubanificio La Gubana della Nonna, l'azienda agricola Ronc dai Luchis e l'agriturismo Le Cuccagne che proporrà un gustoso pranzo friulano. Solo pochi posti disponibili per questo viaggio enogastronomico, in cui sarà possibile anche acquistare prodotti agricoli ed artigianali in vista del Natale.

Domenica 18 dicembre la Pro Loco Nediške Doline – Valli del Natisone inaugurerà infine la stagione più fredda con i pomeriggi d'inverno nelle Alte Valli del Natisone. “Pomeriggi d’inverno in Benecija – riti e ricette con Le Donne della Benecija” propone la condivisione con il pubblico dell'antica ricetta degli strucchi lessi, la creazione di un centrotavola delle feste con gli elementi naturali del bosco e una degustazioni di vino in abbinamento a formaggi e prelibatezze locali. Il tutto avrà luogo a partire dalle 15 presso l'Agriturismo La Casa delle Rondini a Dughe di Stregna.

Per maggiori informazioni e iscrizioni agli eventi: segreteria@nediskedoline.it, 339-8403196 / 349-3241168, www.vallidelnatisone.eu https://www.ilfriuli.it/articolo/viaggi/nelle-valli-del-natisone-arrivano-i-mercatini-di-natale/11/274299


Proverbio friulano


 Il proverbio friulano della settimana

di Vita nei Vita Nei Campi
“Se al plûf a Sante Bibiane, al plûf par un mês e une setemane”, ovvero se piove il giorno di Santa Bibiana (il 2 dicembre) pioverà per un mese e una settimana

L'elleboro

 


ELLEBORO: ROSA DI NATALE

di Alessandro Squizzato
L’elleboro appartiene alla famiglia delle Ranuncolacee, conta circa 25-30 specie di perenni, la maggior parte a foglia sempreverde, alcune sono a foglia caduca. Abituato alle basse temperature, l'elleboro viene anche chiamato rosa di Natale o rosa d'inverno perché fiorisce tra dicembre e marzo. Lo possiamo trovare nelle regioni di montagna ad altitudini fino ai 1900 metri.
Sono molto tolleranti e sono generalmente semplici da coltivare, preferiscono una posizione riparata, in mezzo ombra, perché l’ombra densa può ridurre la fioritura ma facciamo attenzione al sole estivo. Il mio consiglio è di porre la pianta in ombra nei mesi estivi e in mezz’ombra nei mesi invernali. Se decidiamo di piantarla a terra, troviamo una zona in cui non riceva i raggi solari nelle ore centrali della giornata. Nonostante siano tolleranti a vari tipi di terreno, gli ellebori preferiscono suoli alcalini, ricchi di sostanza organica, umidi ma che drenino molto bene. Hanno radici profonde e per fiorire al meglio apprezzano concimazioni consistenti.
Possono crescere fino a un'altezza compresa tra 10 e 30 cm. Si adattano molto bene alla coltivazione in vaso purché s’impieghino vasi profondi.
I fiori possono persistere fino a due mesi, se la pianta viene tenuta nel luogo giusto e il clima è clemente. I colori dell'elleboro sono generalmente il bianco ed il porpora, ma esistono varietà con fiori che vanno dal rosa delicato, al verde, al crema.
La Rosa di Natale non necessita di potature se non per eliminare le parti secche e danneggiate. Si moltiplica per seme, oppure anche per divisione dei rizomi.
Anche se non in fiore durante i mesi caldi, gli ellebori producono molto fogliame, costituendo così piccoli cespugli decorativi. da Vita nei campi

Poesia di Umberto Saba

immagine dal web

Fior di neve


Dal cielo tutti gli Angeli
videro i campi brulli
senza fronde né fiori
e lessero nel cuore dei fanciulli
che amano le cose bianche.
Scossero le ali stanche di volare
e allora discese lieve lieve

la fiorita neve. 

Rumiz: Noi europei siamo figli di una donna

 


Tra gli appuntamenti conclusivi del bel ciclo di incontri denominato ‘Conflitti’, organizzato nella seconda metà di ottobre dalla Società operaia di mutuo soccorso e istruzione di Cividale, la presentazione dell’ultimo libro di Paolo Rumiz, ‘Canto per Europa’, avvenuta in una affollata sede della Somsi sabato 29, è stata l’occasione per riflettere, assieme al giornalista, scrittore e viaggiatore triestino, sul senso e sul valore che vogliamo dare al Vecchio Continente. La pubblicazione (edita da Feltrinelli, la copertina e le illustrazioni sono di Cosimo Miorelli) è un vero e proprio canto, scritto in endecasillabi. Racconta di una ragazza siriana, profuga di guerra, che fugge sulla barca a vela di quattro uomini, argonauti assetati di miti, e con loro intraprende un viaggio – in bilico tra mito antico e realtà odierna, quella dei naufragi dei migranti, del turismo di massa, del riscaldamento climatico – che per la ragazza è l’alba di un nuovo inizio. Dal Libano alla Turchia, dalla Grecia all’Italia la barca naviga il Mediterraneo per poter offrire un nuova vita alla clandestina di bordo, Europa, che porta con sé una lunga storia di dolore e di soprusi.

Il fondamento mitico dell’Europa è femminile
Presentato da Emanuela Gorgone, Rumiz ha posto subito in chiaro il punto focale dell’opera: “Europa è la nostra grande capostipite, riflettere su questa origine femminile dell’Europa non è senza significato in un momento in cui ci ritroviamo schiacciati da mitologie guerresche tipicamente maschili. Il mito ci dice che il fondamento mitico dell’Europa è femminile, che Europa viene dall’Asia, che è una terra benedetta dagli dei e che senza Mediterraneo non esisteremmo.”
Dobbiamo ricordarci dunque che veniamo da una terra che ha un fondamento mitico femminile, ma anche che la vocazione dell’Europa è quella di ricevere popoli, di amalgamarli oppure di creare, attraverso o con loro, dei conflitti. Il ripescaggio del mito di Europa serve anche, secondo Rumiz, a fare in modo che cresca un orgoglio di appartenenza europea. Il grande tema mancante nella campagna elettorale delle ultime elezioni politiche in Italia.

Se tutti fanno la guerra e scappano, chi pianta la patate?
Sul tema del ruolo della donna Rumiz, riferendosi alla guerra che è in corso, ha affermato che “la grande vittima di questo conflitto è la donna, non solo quella ucraina ma anche quella russa. Sono state reclutate sommariamente per strada, soprattutto nelle zone più periferiche della Russia, quasi 150 mila persone, che sono state caricate sui camion e portate al fronte. È chiaro che la famiglia è stata colpita in pieno, nella società russa c’è un forte smarrimento.” Il giornalista e scrittore ha poi raccontato l’episodio di una donna ucraina che lavorava come badante a Trieste e che, a un mese dallo scoppio della guerra, è tornata in Ucraina perché, aveva spiegato, “se tutti fanno la guerra e scappano, chi pianta la patate?”. Rumiz ha visto in questo “la bellezza della donna slava, attaccata alla terra contro tutta quella macchina spaventosa che spinge i popoli gli uni contro gli altri, e che si preoccupa della sopravvivenza della specie.”
D’altra parte, ha sottolineato Rumiz, “quello a est di Berlino e a ovest di Mosca è un mondo dove la guerra non è finita mai. Non è possibile capire quel mondo se non comprendiamo questo. Ma è anche vero che essendo un mondo che non ha conosciuto la democrazia, ha una visione del popolo, della nazione che è recessiva rispetto alla nostra. La nazione per loro è una cosa di antenati, nel quale la minoranza, la diversità è vissuta come una canaglia. Lo stesso è accaduto nella vecchia Jugoslavia.”

L’anima dell’Europa persa nel 1992 nei Balcani
Altro capitolo, a cui Rumiz è sembrato non voler dedicare troppo spazio, rimarcando comunque come “l’Europa ha perso la sua anima nel 1992, quando abbiamo accettato l’idea che la Bosnia potesse pacificarsi separando le etnie. Che significava picconare l’essenza stessa dell’Europa. Per questo non capisco come mai non vengano messi del paletti a ciò che viene detto oggi a proposito di questa guerra. Non possiamo mettere fuorilegge tutto ciò che non ci appartiene etnicamente, perché la diversità è la nostra ricchezza. Questa è l’Europa. Si spiega così il silenzio, la paura che abbiamo, come europei, a declinare la nostra diversità mediterranea, europea, di fronte alle semplificazioni che arrivano da Mosca e da Washington. Ritornare al fondamento mitologico dell’Europa è diventato ancora più importante di quanto lo fosse tempo fa.”

Paolo Rumiz

Il partito di Meloni intitola un circolo ad un gerarca fascista


Il partito di Meloni intitola un circolo ad un gerarca fascista: Nonostante i ripetuti sforzi di parte della stampa di destra per ripulire l'immagine di Fratelli d'Italia, partito erede del neofascista Movimento Sociale Italiano, si susseguono a livello locale gli scandali che mettono in imbarazzo il partito di Giorgia Meloni.


Il poeta-partigiano Kajuh e la musica, il ricordo al Kulturni dom di Gorizia


Il ricordo del poeta e partigiano sloveno, i suoi versi raccontati con la musica.


Il poeta-partigiano Kajuh e la musica, il ricordo al Kulturni dom di Gorizia

Nell’ambito dei festeggiamenti del 41esimo anniversario d’inaugurazione del Kulturni dom di Gorizia e nel centenario della nascita del noto poeta sloveno Karel Destovnik "Kajuh", si terrà sabato il recital musicale “V tej pesmi je strastno…” L'evento inizierà alle 20.30, presso la sala maggiore del teatro di via Brass.


Sul palco si esibiranno i cori riuniti: i triestini MePZ Rdeča zvezda, MePZ Lipa, l’Ensemble Ovce, il coro di voci bianche Mali kraški Kajuhovci diretto da Carmen Cosma, da San Michele del carso ŽeVS Danica, da Doberdò del Lago ŽeVS Jezero, Tamara Razem Locatelli, Rado Milič, Dario Bertinazzi e i cantanti Aljoša Saksida, Miljana Stević, Lara Černic e Zora Černic. Le poesie verranno lette da Ilija Ota, mentre la regia è stata affidata ad Elena Husu.

Kajuh, pseudonimo di Karel Destovnik (1922-1944), è stato un poeta sloveno. Quasi tutte le sue poesie s'ispirano alla vita dei partigiani e si distinguono per intensità emotiva ed efficacia espressiva, raggiunta con mezzi semplicissimi. Molto nota è la lirica dedicata alla madre del partigiano caduto, “Materi padlega partizana” (1943).https://www.ilgoriziano.it/notizie/cronaca/

da Treccani
Poeta sloveno (n. Šoštanj, Celje, 1922 - m., combattendo, 1944). Quasi tutte le sue poesie s'ispirano alla vita dei partigiani e si distinguono per intensità emotiva ed efficacia espressiva, raggiunta con mezzi semplicissimi. Molto nota è la lirica dedicata alla madre del partigiano caduto, Materi padlega partizana (1943).

HO LETTO DELLE PAGINE IN CUI GOETHE

 



PIERLUIGI CAPPELLO

HO LETTO DELLE PAGINE IN CUI GOETHE

Ho letto delle pagine in cui Goethe
scrisse d’aver lentamente accumulati
dei piccoli tesori di parole;
spicciolo per spicciolo, a poco a poco,
dei veri e propri scrigni colmi d’oro;
classica e limpidissima metafora
che così avvicina lettere e monete
lettere d’oro, d’argento e di rame
mezzi accuratamente graduati
tra la genialità e il destinatario.
Adesso l’inventario è sconfortante:
impraticabile l’uso dell’oro
e molto, molto rari argento e rame
ciascuno, se può, tacita le questue
con l’acmonital, per le compravendite
arrangiandosi con le banconote
o degli assegni, che sono più veloci;
chi rimastica un po’ di economia
con le carte di credito di plastica.

(da  Le nebbie, Campanotto, 1994)

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L’incerto zampettio delle parole” recita un verso di Pierluigi Cappello da Assetto di volo: il poeta ha questa “ansia di emendarci sulle pagine” e non ha che quello strumento, le parole appunto. Accumularle come se fossero monete, dal prezioso oro al vile acciaio delle vecchie cento lire, consente di avere da parte un tesoro di cose da dire, un armamentario da usare come un artigiano.


Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 8 agosto 1967 – Cassacco, 1º ottobre 2017), poeta italiano. La sua vita è stata gravemente segnata da un incidente stradale occorsogli quando aveva sedici anni: dallo schianto della sua moto contro la roccia uscì con il midollo spinale reciso e una perenne immobilità. Ha scritto numerose opere, anche in lingua friulana.

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Aquileia, le grandi terme svelano due settori inesplorati

 


Due nuove “perle” delle
 Grandi Terme romane di Aquileia, costruite nella prima metà del IV secolo d.C., sono state portate alla luce negli ultimi scavi fatti dalla missione archeologica dell’Università di Udine nell’area. Si tratta di un vasto ambiente che ospitava grandi vasche, mosaici e fontane e di un’ampia area dell’abside (ambiente semicircolare) del calidarium, la zona destinata ai bagni in acqua calda. Le indagini si sono concentrate in due settori del grande edificio termale: quello a sud est, dove lo scavo prosegue da alcuni anni, e quello a ovest, in un settore nuovo, nell’area degli ambienti riscaldati.

Le ricerche sono state condotte su concessione ministeriale, in accordo con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia-Giulia e in collaborazione scientifica con Cristiano Tiussi, direttore di Fondazione Aquileia, che ha assicurato il sostegno economico allo scavo.

Il cantiere-scuola

La campagna di scavi è stata condotta, a settembre e ottobre, da un gruppo di ricerca del dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale, diretto da Matteo Cadario, coadiuvato da Marina Rubinich. Alle ricerche hanno partecipato 25 studentesse e studenti dei corsi di laurea triennale, in Beni culturali, e magistrale, in Archeologia e Culture dell’antichità, e della Scuola interateneo di specializzazione in beni archeologici. "Tutte le attività di scavo, documentazione e lavaggio dei materiali – sottolineano Cadario e Rubinich – sono state svolte anche allo scopo di preparare al meglio i futuri archeologi ad agire in un cantiere".

Vasche e fontane

Nel settore nord-orientale è stato messo in luce un ambiente di oltre 200 metri quadrati che, nella prima fase delle terme (IV secolo d.C.), ospitava grandi vasche e forse fontane. L’elemento più impressionante è la poderosa fondazione dell’ambiente in calcestruzzo e grossi frammenti di colonne reimpiegate, prevalentemente in marmo cipollino. Sulla struttura, spessa oltre un metro e 60 centimetri, poggiavano vari strati di mattoni intorno a una vasca circolare di otto metri di diametro. Vasche, nicchie e pareti dovevano essere decorate con tessere musive in vetro colorato e lastre sagomate di marmi pregiati, i cui resti si trovano nei riempimenti della fase successiva.

Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, infatti, la vasca circolare fu colmata e l’ambiente ricoperto da un mosaico a grandi tessere con un reticolo di quadrati contenenti grandi fiori stilizzati. Si creò così un nuovo vano rettangolare, lungo 15 metri, che fa parte di una importante ristrutturazione non solo di questo lato nord, ma anche di quello sud, a ben 140 metri di distanza.

Le sistematiche spoliazioni delle strutture murarie condotte a partire dal tardo Medioevo hanno asportato tutti i muri fino a notevole profondità, rendendo molto difficile la lettura delle diverse fasi. Tuttavia, qualche raro documento dell’antico lusso dei frequentatori delle Grandi Terme si è salvato. Tra questi un grano di collana in vetro a stampo con una minuscola testina femminile databile, per la sua acconciatura, al III secolo d.C., rinvenuto proprio in uno di questi riempimenti. Lo scavo in quest’area è stato guidato da Marina Rubinich, con il supporto di un piccolo nucleo di professionisti, studenti e specializzandi affidato a Luciana Mandruzzato.

Il calidarium

Nel nuovo scavo nel settore occidentale, che ha interessato un’area di circa 150 metri quadrati, è stata messa in luce quasi completamente l’ampia abside del calidarium, la parte delle terme destinata ai bagni in acqua calda e di vapore, con cui l’edificio si concludeva. Dell’abside dissestata dai crolli delle volte e priva del muro di fondo asportato successivamente, si conserva la massiccia preparazione del pavimento, caratterizzata dall’inserimento di centinaia di lastrine in marmi colorati. L’identificazione del calidarium è assicurata dalla presenza del doppio sistema di riscaldamento a ipocausto (pavimento sopraelevato sostenuto da pilastrini lapidei) e a parete (intercapedine formata da grandi tubuli fittili rettangolari). Entrambi erano alimentati dalla circolazione di aria calda proveniente dai forni.

Intorno all’abside è stata poi riconosciuta la presenza di una piattaforma in laterizi, ampiamente spoliata, pertinente ad ambienti di servizio, tra cui almeno due praefurnia (i forni dove si bruciava la legna), gli imbocchi dei quali sono stati parzialmente messi in luce. La presenza di spessi livelli di bruciato nell’ipocausto e il deterioramento dei pilastrini dovuto al forte calore dimostrano che il calidarium è stato utilizzato a lungo. E questo nonostante le dimensioni e gli alti costi del suo funzionamento, il che costituisce un’ulteriore prova della vitalità dell’Aquileia tardoantica. Lo scavo nell’area, organizzato come cantiere-scuola, è stato eseguito da Chiara Bozzi e Federica Grossi, sotto la diretta supervisione di Matteo Cadario. "La scoperta dell’abside – spiega Cadario, docente di archeologia classica – consentirà in futuro di allargare lo scavo allo scopo di mettere in luce integralmente l’area riscaldata dell’edificio".

"Le Grandi Terme con la loro imponenza rappresentavano un tratto distintivo della grandezza di Aquileia in età imperiale – spiega la Soprintendente del Friuli Venezia Giulia, Simonetta Bonomi –. Indagarne i resti e comprenderne lo sviluppo funzionale e costruttivo, come sta da tempo facendo l'Università di Udine, costituiscono sia una meritoria e importante impresa scientifica sia il presupposto imprescindibile per una futura valorizzazione".

"I risultati dello scavo delle Grandi Terme sono per la Fondazione Aquileia – sottolinea il direttore, Cristiano Tiussi – di grande importanza perché la prospettiva della valorizzazione di questo straordinario ed enorme edificio dovrà rappresentare, per tutti noi, una sfida ineludibile in un futuro non troppo lontano".

L’Università di Udine ad Aquileia

La presenza dell’Ateneo friulano alle Grandi Terme è ormai consolidata da due decenni e nelle campagne di scavo annuali si sono formati oltre 600 studenti di archeologia. Dal 2016, anno della prima concessione di scavo dal Ministero, allora dei beni e delle attività culturali, fu avviata una nuova e proficua collaborazione con la Soprintendenza e la Fondazione Aquileia, che aveva appena acquisito l’area in gestione.

Storia e caratteristiche dell’edificio

Le Grandi Terme di Aquileia, o Thermae felices Constantinianae, come sono chiamate nell’iscrizione di una base di statua di Costantino rinvenuta nell’area, furono costruite (o completate) per volontà di Costantino stesso nel corso dei primi decenni del IV secolo d.C. Allora Aquileia era uno dei porti principali del Mediterraneo e ospitava spesso l’imperatore. La loro collocazione nella zona sud-occidentale della città, nella località detta poi Braida Murada adiacente a Via 24 Maggio, tra l’anfiteatro e il teatro, suggerisce la progettazione di un grande quartiere dedicato all’otium e alle attività ludiche, protetto dalle nuove mura tardoantiche. Gli scavi dell’Università di Udine, ricollegandosi a quelli condotti dalla locale Soprintendenza archeologica nel corso del ‘900, hanno permesso di ricostruire un edificio “fuori scala” anche per una città importante come Aquileia, con elevati superiori a 10 metri e con un’estensione pari a circa 2,5 ettari (25.000 metri quadrati), paragonabile quindi solo alle grandi terme imperiali pubbliche costruite a Roma da Caracalla, Diocleziano e Costantino stesso.

Un intervento di questa portata dimostra la volontà di Costantino di dotare anche Aquileia, come le altre città divenute residenze imperiali alla fine del III sec. d.C. (Milano, Trier, Arles, Antiochia), di una magnifica struttura termale, adeguata al suo ruolo strategico e degna della frequentazione della corte. Nelle terme imperiali l’edificio era organizzato intorno a un asse centrale formato dalle aule che offrivano di bagnarsi consecutivamente in acque di temperature diverse (calda, tiepida e fredda) secondo il modello di pratica balneare peculiare del mondo romano.

Gli scavi hanno finora rivelato: ampi saloni pavimentati con raffinati mosaici policromi geometrici e figurati o in tarsie di pietre e marmi multicolori; l’enorme frigidarium, con le sue grandi vasche per i bagni freddi; la parte centrale della grande piscina (natatio) lastricata in cui si poteva nuotare; gli ambienti del settore nord-orientale, dove è ancora visibile la sovrapposizione di tre fasi successive con i rispettivi mosaici; alcuni ambienti riscaldati del settore occidentale.

In particolare, dalla grande aula nord provengono i mosaici di eccezionale pregio oggi conservati al Museo archeologico nazionale di Aquileia e raffiguranti soggetti marini e atletici. Ossia i temi caratteristici della decorazione delle terme imperiali, dove erano previsti spazi per agonismo e training sportivo. Le didascalie in greco provano l’intervento di raffinate maestranze di origine greca/orientale.

I rifacimenti e i restauri dei mosaici dimostrano che le terme costantiniane continuarono a vivere fino al termine del V secolo d.C., anche oltre il famoso saccheggio di Attila del 452 d.C. Tra il VI e il VII secolo i ruderi furono riutilizzati a fini abitativi da piccoli nuclei familiari e, dopo il definitivo abbandono e il crollo delle volte e degli elevati, diventarono una grande cava di pietre e mattoni da riutilizzare come materiale da costruzione o da cuocere per ottenere calce.

La spoliazione dei resti delle terme si intensificò in età tardomedievale (XIII-XIV secolo), eliminando tutti i resti delle strutture fino alle fondazioni dei muri. Così si trasformò completamente l’aspetto del sito, che prima dell’inizio degli scavi moderni si presentava come un campo coltivato, proprio grazie a grandi riporti di terra disposti sulle macerie.

Oggi delle terme si conservano quindi solo i pavimenti e le trincee di spoliazione dei muri depredati fino all’età moderna.

Varie zone dell'edificio sono state indagate più volte nel corso del XX secolo dalla locale Soprintendenza e da alcuni dei nomi più noti dell’archeologia aquileiese: Giovanni Battista Brusin (1922-1923); Luisa Bertacchi (1961); Paola Lopreato (1980-1987). "Gli scavi del ‘900 – spiegano Cadario e Rubinich – furono però pubblicati solo in parte e soltanto con le nuove metodologie di scavo stratigrafico, introdotte nel 2002 con l’inizio delle attività dell’Ateneo udinese, è stato possibile ricollegare i nuovi ritrovamenti a quelli pregressi e indagare non solo le fasi di epoca romana, ma anche quelle che dal Medioevo a oggi hanno reso il sito un paesaggio prevalentemente agricolo".https://www.ilfriuli.it/articolo/cultura/aquileia-le-grandi-terme-svelano-due-settori-inesplorati/6/274462

Sebastijan Pregelj-Il giorno in cui finì l'estate-

 Per i tipi di Bottega Errante (BEE) di Udine è appena uscito, in traduzione italiana di Michele Obit, il romanzo “Il giorno in cui finì l’estate” (Premio Ivan Cankar 2020) di Sebastijan Pregelj. Ne pubblichiamo il Capitolo 8. 



Per i tipi di Bottega Errante (BEE) di Udine è appena uscito, in traduzione italiana di Michele Obit, il romanzo “Il giorno in cui finì l’estate” (Premio Ivan Cankar 2020) di Sebastijan Pregelj. 



Il nostro Tito è morto, c’è scritto sulla lavagna quando il lunedì mattina entro in classe. So già tutto. Mamma e papà mi hanno raccontato. Mi hanno raccontato in modo che capissi, poi ho dovuto ripetere alcune cose con loro. «Perché tu possa ricordare» ha detto papà, «e perché non ti lasci scappare qualche idiozia».


Domenica pomeriggio, sul tardi, sono arrivati lo zio, la zia e Martin. Con Martin siamo rimasti quasi sempre nella mia stanza. Quando siamo usciti, gli adulti si sono zittiti.


«Ci guardano come se avessimo fatto qualcosa di sbagliato» ha detto Martin. «Forse perché è morto Tito. Che ne so. Non è che sia colpa nostra».


«Certo che no» ho assentito, e con Superman nella mano destra ho preso a correre per la stanza, mentre Martin sul pavimento muoveva il robot di plastica che aveva ricevuto dall’Italia. «Questo è Droid» mi istruiva. «Droid di Guerre stellari. Hai visto Guerre stellari?».


«No» ho fatto con il capo.


«Peccato. Devi guardarlo. A me, mamma e papà prima non me l’hanno permesso, poi però papà mi ha portato al cine. Che film!».


Martin mi ha raccontato per bene tutta la trama.


Quando sono arrivato alla porta e da tempo non stavo più seguendo Martin, che ora stava parlando di tutt’altro, ho sentito papà dire che era preoccupato. «Già prima mi preoccupava. Non è un segreto che il vecchio da tempo non governava il Paese. Lo facevano altri, i generali e Jovanka. Ma adesso che non c’è, be’, adesso non sarà semplice. Il vecchio metteva ordine. Nessuno osava nemmeno fiatare».


«Può essere che ci occuperanno i russi» ha detto lo zio.


«Finiscila di spaventare» ha detto papà, «quali russi! Non ci sarà nessun russo».


«E l’Ungheria e la Cecoslovacchia?» non la smetteva lo zio. «Là sono arrivati con i carri armati».


«Gli americani non gli permetterebbero mai di superare il confine jugoslavo» ha detto papà. «Se succedesse, sarebbero di colpo sul loro confine».


«Vedi» ha sospirato lo zio, «il vecchio sapeva navigare tra gli uni e gli altri. Ma adesso è cambiato tutto. Lui non c’è, fine. Speriamo solo che non venga la guerra».


«Pensi che possa venire la guerra?» ho chiesto a papà quando lo zio, la zia e Martin, dopo le notizie della sera, se ne sono andati.


«Non preoccuparti». Papà mi ha accarezzato la testa. «Non ci sarà nessuna guerra. Avete sentito quello che stavamo dicendo?».


«No» ho scrollato il capo. «Ho sentito qualcosa».


«Hai sentito qualcosa» ha sorriso papà. «Ascolta» mi ha messo a sedere, «ricordati di questo: Tito era il presidente della nazione. E il maresciallo…».


Ora sono in classe e guardo la scritta bianca sulla lavagna verde: Il nostro Tito è morto. Sono seduto vicino a Rok, che sulle guance ha vari cerotti. Mi racconta dell’iniezione e dei punti. Gli chiedo se gli ha fatto male.


«Ovvio che mi ha fatto male» ha annuito. «Ma non tanto. Ho stretto i denti. Tra una settimana mi tolgono i punti».


«Super!». Sono entusiasta. «Se vorrai far parte dei pirati, ti prenderanno già da subito. Solo che non dovrai dire loro che ti sei ferito su una recinzione. Devi dire che sono graffi da combattimento».


«Dirò questo» annuisce Rok. Poi restiamo zitti, perché in classe entra la maestra.


Nella mano destra tiene un fazzoletto con cui si asciuga gli occhi lacrimanti, nella sinistra un grosso libro dalla copertina rossa con il titolo stampato a caratteri dorati. La maestra Nada sta piangendo. Anche alcune compagne piangono, e tra loro Ana. La guardo e non capisco. Tito era il nostro presidente, va bene, ma non era nostro nonno o nostra nonna, uno zio o una zia. Perché allora piangono?


La maestra inspira profondamente alcune volte, poi con voce tremante dice che oggi è un giorno molto triste.


«Parleremo del compagno Tito, della sua vita e di cosa ha fatto. Ma molte cose le saprete già». Ci guarda. «Bene» apre il libro, «probabilmente ancora non tutto. Se sentite qualcosa che sapete già, va bene lo stesso, perché ve lo ricorderete meglio. È importante che ricordiate, è importante che sappiate. Per oggi e per domani». Poi inizia a raccontare del ragazzino della Sotla[1].


Durante l’intervallo rimaniamo ai banchi, anche la maestra rimane in classe.


La lasciamo solo quando scocca l’ora del pranzo. Ci allineiamo lungo la parete, una fila che si snoda fino agli ultimi banchi. Aspettiamo che la maestra si alzi, vada alla porta, la apra e ci lasci uscire. Diversamente dagli altri giorni, non ci accalchiamo, non corriamo e non ci superiamo, ma camminiamo uno accanto all’altro.


Quando Rok e io ci sediamo a tavola, lui mi urta con il gomito e fa un cenno verso il ritratto di Tito, appeso alto alla parete.


«Devo raccontarti una cosa» dice. «Ma è un segreto».


«Ah, sì?». Lo guardo incuriosito.


«Ascolta». Rok si china su di me. «Tito continua a guardarmi. Non importa dove mi siedo, mi fissa continuamente. Posso andare in un angolo della sala da pranzo oppure in un altro. Solo non so, adesso che è morto, se continua a vedere».


Sollevo lentamente lo sguardo e fisso il ritratto di Tito. La sua foto è appesa in ogni classe. Nella nostra c’è solo il viso. Nella sala di musica Tito è seduto al pianoforte. Nel laboratorio di tecnica è accanto a un macchinario. Nel corridoio, dove c’è il gabinetto di storia, sono appese delle fotografie dei tempi della guerra. Quella che mi ricordo meglio è Tito con un cane. Il cane si chiamava Luks e aveva salvato la vita a Tito. Sto in silenzio alcuni istanti, poi a Rok rispondo che lo so. Con Peter già tempo prima ci eravamo resi conto che Tito ci guardava. Mi sposto un po’ a destra, poi a sinistra, per controllare se è ancora così. Tito mi guarda. Il suo viso rimane inalterato, mentre gli occhi fissano direttamente me. Rok afferra il cucchiaio e inizia a mangiare la zuppa. Continua però a guardarmi: «Andremo anche nelle altre classi. Cercheremo tutte le foto e verificheremo se anche in quelle ci guarda». Portiamo i vassoi, con i piatti quasi intatti, fino al banco. Fosse un giorno comune, lì ci aspetterebbe la maestra Nada. Ci chiederebbe perché non abbiamo mangiato quasi niente e ci direbbe che nel mondo ci sono tante persone affamate e solo per loro dovremmo dimostrare più rispetto nei confronti del cibo. Ma oggi è un giorno particolare. Al banco non c’è nessuno dei maestri, perciò lasciamo lì senza problemi i vassoi e corriamo lungo il corridoio verso le aule.


Rok apre con cautela le porte delle classi prime e seconde. Le aule sono quasi vuote, gli alunni sono a pranzo. Se c’è qualcuno in classe chiude velocemente la porta, mentre nelle aule vuote entriamo come se fossero la nostra. Sul momento rimaniamo cauti, poi però ci muoviamo senza un filo di paura.


In ogni aula prima controlliamo quale fotografia sta appesa sopra la lavagna. Se non è uguale alle precedenti, ci collochiamo dritti di fronte a essa. Poi ci muoviamo a destra e a sinistra, arrivando alla finestra, alle pareti e all’armadio. Ci accorgiamo che Tito ci osserva sempre. Anche se ci accovacciamo dietro ai banchi e alle sedie, sa dove stiamo. Non appena riappariamo, ci guarda.


Quando siamo nella nostra aula, facciamo lo stesso che nelle precedenti. Poi vengo folgorato da un’idea: ognuno di noi deve andare a un’estremità dell’aula.


«Voglio proprio vedere chi guarderà, se facciamo così!».


«È vero!». Rok è entusiasta. Ci mettiamo al centro dell’aula, poi Rok inizia a spostarsi verso la finestra, io verso la porta.


«Continua a guardarmi!» dice Rok ad alta voce.


«Anche me!».


Quando sono vicino alla porta, questa improvvisamente si apre.


«Cosa fai qui?» mi chiede la maestra Nada. Rabbrividisco e scuoto la testa.


«Niente» rispondo, e mi sposto al mio banco.


«Venite qui» dice quando raggiunge la cattedra. Sento brividi in tutto il corpo. Ho la sensazione che quello che abbiamo fatto sia sbagliato e che la maestra sappia tutto. Ho paura che ci scriva una nota per i genitori nel libretto o, ancora peggio, che chieda che la mamma o il papà o ancora meglio tutti e due vadano a parlare con lei. Con passi brevi mi dirigo alla cattedra, Rok invece è già alla lavagna, come se si aspettasse un elogio.


«Bene, cosa pensate del maresciallo Tito?» ci chiede la maestra.


«Ci guarda sempre» la sparo.


«Come?». La maestra è sorpresa.


«Qualsiasi cosa facciamo, sempre ci osserva e tutto vede» chiarisco.


«Cosa vuoi dire?». La donna aggrotta la fronte.


«Venga» faccio due passi indietro e guardo la fotografia di Tito. «Adesso mi sta guardando. E se mi metto vicino alla finestra, continua a guardarmi. E se corro all’altro lato della stanza, mi guarda ancora!».


«Vedi» sorride la maestra Nada, «per questo ciò che fai è importante. Per questo è importante come ti comporti. Devi essere un pioniere, sempre d’esempio e buon compagno! Perché Tito ti guarda. Tutti ci guarda. Tutto vede».


Il pomeriggio mi siedo con mamma e papà davanti al televisore. Guardiamo il treno blu che trasporta il presidente defunto da Lubiana a Belgrado, dove lo sotterreranno. Lungo la tratta ci sono migliaia di persone. La telecamera a volte si ferma sui volti del soldato, del poliziotto, dell’operaia, dell’operaio che in questo giorno non lavorano, ma stanno lungo i binari e attendono che passi il treno per poter salutare per l’ultima volta il maresciallo che ha unito i popoli jugoslavi e li ha guidati sulla strada della liberazione dall’occupazione nazista e fascista, accompagnandoci verso il futuro luminoso che è durato fino a quel terribile momento, domenica, alle tre e quattro minuti, quando il suo grande cuore si è fermato. Sullo schermo le donne si asciugano gli occhi, gli uomini guardano cupamente, sui volti di tantissimi scorrono le lacrime.


«Tito ci guarda tutti» dico.


«Come?». Papà si volta sorpreso verso di me.


«Tito ci guarda tutti» ripeto.


«Da dove l’hai presa questa?» chiede. Così gli racconto di come io e Rok siamo andati di classe in classe, e alla fine anche della maestra Nada, che ci ha dato ragione. Tito ci guarda.

fonte https://wordpress.com/read/feeds/25870481/posts/4407535467