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L’insegnante di Cordenons e le lettere alla regina Elisabetta: un rapporto epistolare che dura da trent’anni

 


Vilma Scian ha cominciato a scrivere con i suoi studenti alla casa reale britannica. I Windsor hanno sempre risposto ai messaggi e lei conserva una settantina di lettere

CORDENONS. Fervono in Inghilterra i preparativi per le celebrazioni dei 70 anni dall’ascesa al trono della Regina Elisabetta II, in calendario dal 2 al 5 giugno. Un appuntamento storico, del quale non si è dimenticata Vilma Scian, di Cordenons, che ha avviato un rapporto epistolare con la casa reale britannica già da tempo, quand’era insegnante di inglese, e che continua ancora oggi, in occasione degli eventi che coinvolgono i Windsor.

da Messaggero Veneto

David Maria Turoldo

 


A Milano iniziano le manifestazione per i 30 anni dalla morte di Turoldo.

David Maria Turoldoal secolo Giuseppe Turoldo (Coderno22 novembre 1916 – Milano6 febbraio 1992), è stato  un presbiteroteologofilosofoscrittorepoeta e antifascista italiano, membro dell'ordine dei Servi di Maria. È stato, oltre che poeta, figura profetica in ambito ecclesiale e civile, resistente sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso, di ispirazione conciliare. È ritenuto da alcuni uno dei più rappresentativi esponenti di un cambiamento del cattolicesimo nella seconda metà del '900, il che gli ha valso il titolo di "coscienza inquieta della Chiesa"

Nono di dieci fratelli, Giuseppe Turoldo recepì con intensità le caratteristiche della semplice cultura umana del suo ambiente nativo e prevalentemente contadino. Colse e fece propria la dignità delle condizioni povere della sua terra, che costituirono una solida radice informante tutto lo sviluppo della sua sensibilità e della sua attività futura.

A soli 13 anni fu accolto tra i Servi di Maria nel convento di Santa Maria al Cengio a Isola Vicentina, sede triveneta della Casa di Formazione dell'Ordine Servita: dove trascorse l’anno di noviziato, assumendo il nome di fra David Maria; il 2 agosto 1935 emise la professione religiosa; il 30 ottobre 1938 pronunciò i voti solenni a Vicenza. Incominciò gli studi filosofici e teologici a Venezia. Il 18 agosto 1940 nel santuario della Madonna di Monte Berico di Vicenza venne ordinato presbitero da monsignor Ferdinando Rodolfi, arcivescovo di Vicenza.

Nel 1940 fu assegnato al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso in Milano. Su invito del cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo della città, per circa un decennio tenne la predicazione domenicale nel duomo milanese. Insieme con il suo confratello, compagno di studi durante tutto l'iter formativo nell'Ordine dei Servi e amico Camillo de Piaz, si iscrisse al corso di laurea in filosofia all'Università Cattolica di Milano e conseguì la laurea l'11 novembre 1946 con una tesi dal titolo: La fatica della ragione - Contributo per un'ontologia dell'uomo, redatta sotto la guida del prof. Gustavo Bontadini. Sia Bontadini sia Carlo Bo gli offriranno il ruolo di assistente universitario, il primo presso filosofia teoretica a Milano, il secondo presso la cattedra di Letteratura all'Università di Urbino.

Presenza milanese

Durante l'occupazione nazista di Milano (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945) collaborò attivamente con la resistenza antifascista, creando e diffondendo dal suo convento il periodico clandestino l'Uomo. Il titolo testimonia la sua scelta dell'umano contro il disumano, perché «La realizzazione della propria umanità: questo è il solo scopo della vita». La sua militanza durò tutta la vita, interpretando il comando evangelico "essere nel mondo senza essere del mondo" come un "essere nel sistema senza essere del sistema". Rifiutò sempre di schierarsi con un partito.

Il suo impegno nel dialogo senza preconcetti e nel confronto di idee talvolta anche duro, si tradusse in particolare nel far nascere, insieme con Camillo De Piaz, il centro culturale la Corsia dei Servi (il vecchio nome della strada che dal convento dei Servi conduceva al duomo).

Turoldo fu uno dei principali sostenitori del progetto Nomadelfia, il villaggio nato per accogliere gli orfani di guerra “con la fraternità come unica legge”, fondato da don Zeno Saltini nell'ex campo di concentramento di Fossoli presso Carpi, raccogliendo fondi presso la ricca borghesia milanese.

Tra il 1948 e il 1952 si rende noto al grande pubblico con due raccolte di liriche Io non ho mani (che gli valse il Premio letterario Saint Vincent) e Gli occhi miei lo vedranno, presentato nella collana mondadoriana Lo Specchio da Giuseppe Ungaretti.

A seguito di prese di posizione assunte da politici locali e da alcune autorità ecclesiastiche, nel 1953 deve lasciare Milano e soggiornare in conventi dei Servi dell’Austria e della Baviera. . . .continua https://it.wikipedia.org/wiki/David_Maria_Turoldo


Il Frico friulano

Nel Comune di Lusevera/Bardo aspettando il Giro






foto da fb ringrazio il fotografo 

UCRAINA: Quando gli aggressori eravamo noi



C’è stato un tempo in cui gli aggressori in Ucraina eravamo noi: era il 1941 in piena seconda mondiale. L’Italia fascista seguì Hitler nella sua folle impresa di Russia.

I toni sono quelli pomposi tipici dell’epoca, la musica è incalzante, percussioni e ottoni a farla da padroni, sopralzano persino gli archi, relegati una volta tanto a gregari. Le immagini sono quelle in bianco e nero, firma inconfondibile dei filmati dell’Istituto Luce d’epoca fascista.

E in quel filmato, poco più di tre minuti in tutto, al minuto 1:21 la voce narrante ci informa che quelle che stiamo vedendo sono le riprese girate da “i nostri ricognitori nei cieli di Dniepropetrovsk, la grande città industriale, dopo i bombardamenti effettuati dai bombardieri italiani”.

Ancora oggi, nel pieno dell’invasione russa dell’Ucraina, il corso del Dnepr – il principale fiume ucraino che bagna anche la capitale Kiev – è uno spartiacque, divide il fronte orientale da quello occidentale del conflitto. Ma c’è stato un tempo in cui su quella linea di fronte c’eravamo noi, noi italiani, con le nostre truppe arraffazzonate e i nostri carrarmati di cartone.

A leggere i nomi di dove passammo, di dove combattemmo in quei mesi, sembra di leggere le cronache dei giornali di oggi: non solo Dnepr, dove le truppe italiane arrivarono dopo una marcia di centinaia di chilometri lungo i terreni argillosi resi impraticabili dalle avverse condizioni del tempo, ma anche Voznesensk, Pokrovika, Kharkiv, Kiev. Kiev, soprattutto: fu qui che gli italiani parteciparono insieme alle truppe naziste alla manovra di accerchiamento della capitale per prendere successivamente parte all’offensiva nel Dombass – dove si insediarono tra l’ottobre e il novembre del 1941 – e, più a sud, lungo la costa del Mar d’Azov prima di entrare in territorio russo.

A partire, nell’estate del 1941, fu il cosiddetto Corpo di Spedizione Italiano in Russia, CSIR, costituito da tre divisioni, la 3° Divisione Celere Principe Amedeo Duca D’Aosta, la Divisone Pasubio e la Divisione Torino. Ad esse, su richiesta tedesca, si aggiunsero poi altre sei divisioni che trasformarono la CSIR in ARMIR, l’8° Armata, di cui facevano parte quasi 230 mila uomini. Uno sforzo immane per l’Italia, frutto del tentativo – atrocemente goffo – di Benito Mussolini di prendere parte a una spedizione che si pensava trionfante e che invece si trasformò in una delle più grandi tragedie italiane – e non solo – della Seconda guerra mondiale. Non solo presunzione, comunque, ma il desiderio folle di assicurarsi un posto a tavola quando ci sarebbe stato da spartirsi il bottino con l’alleato tedesco.

Il resto è storia: le truppe italiane ripassarono in Ucraina (e in Bielorussia) nel 1943, nel pieno della drammatica ritirata dalla Russia, quella raccontata in modo straordinariamente efficace da Mario Rigoni Stern ne “Il sergente nella neve” o, ancora, quella narrata in prima persona nel diario di Eugenio Corti “I più non ritornano”.

I numeri della disfatta sono incerti ma lasciano poco margine all’inquadramento dell’impresa sul fronte orientale come disfatta umana, prim’ancora che militare: almeno 90 mila le vittime – ammazzati in combattimento o morti per congelamento e sfinimento durante la ritirata – oltre trentamila i feriti. Un’ecatombe.

Ci vollero duecento tradotte ferroviarie per trasportare le nostre truppe al fronte, ne bastarono diciassette per riportare indietro i superstiti. Un viaggio, tanto malinconicamente quanto magnificamente, evocato da una canzone di Marco Paolini e i Mercanti di Liquore:

Cosa canta il soldato, soldatino / Dondolando, dondolando gli scarponi / Seduto con le gambe ciondoloni / Sulla tradotta che parte da Torino. / Macchinista del vapore / Metti olio nei stantuffi / Della guerra siamo stufi / A casa nostra vogliamo andare.

Molti di quelli che fecero ritorno furono poi internati in Germania dopo l’8 settembre e finirono per lavorare in modo coatto nelle fabbriche tedesche. A fine guerra il rientro dai campi di prigionia tedeschi e russi fu completato solo nel 1954 quando Mosca restituì gli ultimi dodici connazionali. Fatta la conta dei morti accertati e dei prigionieri ritornati dopo anni, mancano all’appello ancora 75 mila uomini, spariti nel nulla.

“(…) vede signora, ogni girasole, ogni albero, ogni campo di grano nascondono i corpi dei soldati italiani (…)”, è una frase dal film “I girasoli” di Vittorio De Sica che rende perfettamente il senso di questo pezzo di storia.

Oggi una nuova invasione arriva da oriente, tutto è cambiato ma tutto resta immutato. Solo un paradosso apparente della storia, la storia si ripresenta sempre uguale a se stessa, cambiano gli attori, non il risultato. È per questo che è utile ricordare che c’è stato un tempo in cui gli invasori eravamo noi, noi gli aggressori, noi dalla parte del torto.(Foto: Pietro Aleotti / East Journal)


Cassazione blocca l’assegno di mantenimento: «Pretendeva dal padre ancora più soldi»

 

Parla la legale dell’uomo che si è opposto al mantenimento della ragazza: «All’improvviso si è visto chiedere 500 euro in più al mese e ha reagito»

MONFALCONE «La sentenza della Suprema corte, da un punto di vista giuridico, è molto ben argomentata. È indubbiamente innovativa e, secondo il mio parere, pronta ad essere recepita anche in altri procedimenti similari. È la dimostrazione che, forse, ci si sta rendendo conto che i giovani devono darsi da fare e costruirsi una vita».

A parlare è l’avvocato Aurora Turco del Foro di Gorizia

dal Messaggero Veneto

Insegnare in più lingue qui è tradizione

 


Dal 2014 la Società filologica friulana organizza, a maggio, la Setemane de culture furlane/Settimana della cultura friulana, un programma di eventi per promuovere il patrimonio di storia, lingua e arte del Friuli.

L’iniziativa coinvolge molte realtà associative del Friuli-Venezia Giulia, anche per favorire sinergie progettuali e operative. Nell’ambito del programma di quest’anno, anche a Tarvisio/Trbiž sabato, 7 maggio, è stato organizzato il convegno «Scuole di confine». Tra i relatori Andrea Dessardo, ricercatore di Storia della pedagogiaall’Università europea di Roma, si è focalizzato sul periodo dei primi anni Venti del XX secolo, parlando dell’applicazione del decreto Corbino e delle contraddizioni della nazionalizzazione italiana ai nuovi confini. Lo storico, archivista e insegnante Ivan Portelli, che ha anche moderato l’evento, ha parlato dell’Istituto Arbarello, attivo dal 1921 al 1944 a Tolmin. Peter Černic, che è anche dirigente dell’Ufficio scuole slovene presso l’Ufficio scolastico del Friuli-Venezia Giulia, ha parlato della scuola slovena a Gorizia dalla riforma Gentile alla seconda guerra mondiale, mentre l’archivista Lucia Pillon ha presentato alcuni cenni relativi alla situazione degli archivi delle scuole di Gorizia (1924-1963).

Dopo gli interventi dell’insegnante Tomaž Simčič, che ha parlato della scuola slovena a Trieste, Gorizia e in provincia di Udine dal 1945 ai nostri giorni, nonché dell’ex dirigente scolastico Bojan Bratina e dell’insegnante di italiano Vlasta Lukman, che hanno parlato dell’insegnamento dell’italiano nelle scuole superiori di Nova Gorica, il focus è passato alla situazione locale. Come l’insegnamento plurilingue abbia una tradizione consolidata in Valcanale, è stato illustrato al pubblico dalle relazioni di alcuni insegnanti del territorio. Elisa Kandutsch ha parlato dell’insegnamento dello sloveno in Valcanale a fine Ottocento, mentre Donatella Sacchet, Annamaria Tributsch e Luca Grattoni hanno presentato la sperimentazione plurilingue nelle scuole di Valcanale e Canal del Ferro, in cui sloveno, tedesco e friulano divengono per parte del tempo lingue d’insegnamento accanto all’italiano.

Il convegno, che si è svolto nell’ambito del progetto «Sine finibus », promosso dalla Deputazione di Storia patria per il Friuli e sostenuto dalla Regione, è stato organizzato dal centro Docuscuele e dall’Istituto di storia sociale e religiosa di Gorizia, in collaborazione col Comune di Tarvisio. A nome di quest’ultimo ha portato i saluti l’assessore alla cultura, Antonio Petterin. (Luciano Lister)

https://www.dom.it/pouk-v-vec-jezikih-je-tukaj-obicaj_insegnare-in-piu-lingue-qui-e-tradizione/


100 anni fa nacque Enrico Berlinguer

 

  • 100 anni Enrico Berlinguer
  • Enrico Berlinguer e il socialismo del XXI secolo

  • Di Guido Liguori 24 maggio 22 | Inserito sotto: Italia Storia La sinistra
  • Segretario del Partito Comunista Italiano (PCI) dal 1972 al 1984, Enrico Berlinguer è noto da tempo per due grandi iniziative politiche da lui introdotte negli anni '70: a livello di politica interna, il compromesso storico (il compromesso storico); e, a livello internazionale, l'eurocomunismo. Il 25 maggio festeggiamo il suo centesimo compleanno.

    La prima era la proposta del 1973 di un accordo tra i maggiori partiti italiani – i partiti comunista, socialista e democristiano (DC) – per la riforma del Paese. È emerso dopo il colpo di statocontro il governo socialista-comunista di Salvador Allende in Cile e per anni prima dalla 'strategia della tensione' come risposta al grande periodo di lotte del 1968-69, cioè nasceva dalla convinzione che in una società come quella italiana, storicamente dal fascismo e soggetta alla 'sovranità limitata' imposta dagli Stati Uniti, il 51% non sarebbe sufficiente per governare e lasciare il segno alla sinistra. È stata una ripresa della strategia postbellica dei governi di unità nazionale di Palmiro Togliatti per sconfiggere il fascismo e ricostruire il paese. Ma per quasi tre decenni questo era stato vano, perché la Dc era diventata un partito di clientelismo politico, clientelismo e corruzione, oltre ad essere un luogo di anticomunismo duraturo.

    Il compromesso storico riscosse un vasto consenso ma alla fine naufragò, sia per le politiche antipopolari dei due governi di 'solidarietà nazionale' del 1976-79 guidati dal democristiano di destra Giulio Andreotti, sia per l'imprudentemente appoggiato dal PCI senza che a quest'ultimo sia concessa la piena partecipazione al gabinetto. Erano governi di emergenza di fronte alla profonda crisi economica più che versioni del compromesso storico, seppur sovrapponendosi al buon senso della proposta di Berlinguer del 1973 – vuoi perché con il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, Berlinguer perso, nella Dc, l'unico interlocutore importante disposto a dare almeno una sorta di cauto credito ai comunisti e al loro credo democratico. 

    L'iniziativa dell'eurocomunismo, invece, fu lanciata da Berlinguer sulla scena internazionale verso la metà degli anni '70 e maturò soprattutto tra il 1975 e il 1977. Il segretario del Pci – già cautamente critico nei confronti dell'invasione del Patto di Varsavia del 1956 in Ungheria – fu scossa dall'invasione della Cecoslovacchia nel 1968. In questo caso, il processo di rinnovamento democratico è stato guidato dallo stesso partito comunista del Paese, dal suo segretario Alexander Dubček, al cui fianco hanno lavorato duramente Longo e i comunisti italiani, vedendo in questo rinnovamento un percorso nazionale e democratico al socialismo che era molto vicino alle proprie posizioni tradizionali. 

    Dopo l'invasione di Praga, Berlinguer condusse una risoluta lotta all'interno del suo partito (che fu reso noto solo decenni dopo quando i suoi archivi furono resi accessibili) per farlo attrezzare politicamente e ideologicamente per dissociarsi dai sovietici; si recò in URSS per comunicare la forte protesta del PCI contro l'invasione; era addirittura convinto che i sovietici gli avessero attentato alla vita a causa di uno strano incidente stradale in cui fu coinvolto mentre si trovava in Bulgaria nel 1973, dal quale emerse miracolosamente vivo (anche questo fu reso noto molti anni dopo). Alla fine propose, ai comunisti spagnoli (che inizialmente lo accettarono) e ai francesi, la creazione di un polo comunista nell'Europa occidentale per costruire un "comunismo nella libertà", un comunismo democratico che attraesse i lavoratori all'interno del Occidente capitalista. 

    Così facendo tornava a principi già enunciati all'inizio degli anni '70, dichiarando solennemente che se fossero saliti al potere i comunisti si sarebbero impegnati a mantenere tutte le libertà politiche, culturali, sindacali e religiose. E a Mosca nel 1977, davanti a quasi tutti i comunisti del mondo riuniti per celebrare il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, dichiarò – incorrendo nell'ira dei sovietici – che per i comunisti italiani la democrazia era un 'valore storicamente universale', che quindi nessun paese comunista potrebbe farne a meno, pena la scomparsa della motivazione stessa del socialismo.

    I francesi e gli spagnoli, avendo, a vario titolo, preso le distanze dal movimento eurocomunista a cui originariamente aderivano, Berlinguer andò avanti, parlando della necessità di una 'terza via' (cioè una via al socialismo diversa da quella autoritaria dal socialismo sovietico e dalla socialdemocrazia, che non mirava al superamento del sistema capitalista), poi di una 'terza fase' della lotta per il socialismo, successiva a quelle simboleggiate dalla Seconda e dalla Terza Internazionale, ora vista conclusa e senza esito. E, infine, dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan e il colpo di stato filo-sovietico in Polonia – nel 1979 e nel 1981 – Berlinguer dichiarò che la Rivoluzione d'Ottobre aveva esaurito la sua "forza propulsiva",

    Se questo Berlinguer – del compromesso storico e dell'eurocomunismo – è come è più conosciuto, in Italia e all'estero, quello che è meno noto ma probabilmente più importante e vitale è l'"ultimo Berlinguer", cioè la sua visione scaturita da una profonda strategia strategica ripensare dopo la fine dei governi Giulio Andreotti di 'solidarietà nazionale', che avevano così esaurito il rapporto tra il Pci, il suo elettorato, ei lavoratori italiani. 

    Isolati politicamente dall'anticomunismo della DC post-Moro e del nuovo Partito socialista di Craxi, e di fronte all'inefficacia dello Stato nell'affrontare il grave terremoto dell'Irpinia del 1980, Berlinguer e il PCI denunciarono «i problemi di inefficienza, disonestà e immoralità' della dirigenza DC, un 'sistema di potere e concezione di governo' profondamente corrotto. Nasce così la politica dell'“alternativa democratica” proposta dal segretario del Pci.

     In quest'ultimo periodo della sua vita (morì inaspettatamente nel 1984) Berlinguer si rivolse soprattutto alla società italiana, nell'ottica di realizzare una 'riforma intellettuale e morale' Gramsciana in grado di cambiare il senso comune delle masse. Già nel 1977 aveva parlato – come aveva fatto Olof Palme qualche anno prima – di 'austerità', ma concepirla ha un' 'occasione per trasformare l'Italia', per creare un nuovo modello di sviluppo che limiti i consumi e l'egoismo individualisti. Nel 1980 passa alla Fiat per sostenere la lotta operaia, riattivando quel 'legame affettivo' con i lavoratori in parte perduti negli anni precedenti, attivismo che porterà avanti nella sua battaglia per la salvaguardia della 'scala mobile'. meccanismo che difendeva il salario dei lavoratori e il tenore di vita – di fronte all'attacco del governo Craxi, che mirava a tagliarlo. ..continua Fonte: Transform! Europe

La lingua slovena in Italia e nella Provincia di Udine (wikipedia)



La lingua slovena in Italia viene principalmente parlata da una comunità autoctona residente lungo il confine orientale. Non ci sono dati recenti e certi sui parlanti in sloveno o dialetti sloveni in Italia; statistiche del 1974 attestavano gli utilizzatori dello sloveno a 61.000 persone nel territorio del Friuli-Venezia Giulia, raccolti nella provincia di Trieste e nelle zone orientali delle province di Gorizia e Udine. La qualifica di "dialetto sloveno" qui considerata è quella derivante dalla legislazione italiana.

Notizie storiche

La diffusione dell’uso dello sloveno in alcune zone nel Nord-est dell’Italia trova la sua origine nell’Alto Medioevo; risalgono infatti già all’VIII secolo i primi documenti storici che attestano l’arrivo, dall’area balcanico-danubiana, di gruppi di popolazioni slave ed il loro insediamento nelle zone marginali della pianura friulana e delle sponde nord-orientali del Mare Adriatico, che dopo molteplici vicende storiche furono parte dello Stato italiano.
I primi territori abitati da sloveni ad entrare a far parte del territorio dello Stato italiano furono la Val Resia (slov. Rezija), le Valli del Torre (slov. Terska dolina) e le Valli del Natisone (slov. Nediške doline), nel 1866 a conclusione della terza guerra di indipendenza italiana.

L’assegnazione all’Italia degli altri territori ancora oggi abitati da sloveni (Val Canale, Gorizia e Trieste), avvenne al termine della prima guerra mondiale in base al Trattato di Rapallo (1920).
Con l'avvento del fascismo (1922) si inaugurò una politica d'italianizzazione forzata.
  • gran parte degli impieghi pubblici furono assegnati agli appartenenti al gruppo etnico italiano;
  • nelle scuole fu vietato l'insegnamento dello sloveno in tutte le scuole della regione. Con l'introduzione della Legge n. 2185 del 1/10/1923 (Riforma scolastica Gentile), fu abolito nelle scuole l'insegnamento della lingua slovena. Nell'arco di cinque anni tutti gli insegnanti sloveni delle scuole con lingua d'insegnamento slovena, presenti sul territorio abitato da sloveni assegnati all'Italia con il trattato di Rapallo, furono sostituiti con insegnanti originari dell'Italia, e l'insegnamento impartito esclusivamente in lingua italiana
  • col R. Decreto N. 800 del 29 marzo 1923 furono imposti d'ufficio nomi italiani a tutte le centinaia di località dei territori assegnati all'Italia col Trattato di Rapallo, anche laddove precedentemente prive di denominazione in lingua italiana.
La Provincia di Udine
I cittadini italiani di lingua slovena della provincia di Udine sono suddivisi in tre comunità autoctone, ognuna con specificità proprie.
La maggior parte è compresa nella Slavia friulana, dove si parlano i dialetti sloveni detti del Natisone(nadiški) e del Torre (terski). Essa comprende i comuni di LuseveraTaipanaPulferoSavognaGrimacco,DrenchiaSan Pietro al NatisoneSan LeonardoStregna e le frazioni montane dei comuni di Nimis,AttimisFaedisTorreano e Prepotto. L’arrivo delle popolazioni slave sulle sponde del fiume Natisone iniziato già nel VII secolo è documentato dallo storico Paolo Diacono. Gli slavi si stabilirono in queste zone già in epoca longobarda, tanto che fu proprio il potere longobardo ad accogliere i primi coloni e ad imporre il confine orientale tra popolazione romanza e slava, quasi coincidente al limite naturale esistente tra la pianura (romanza) e il territorio montuoso delle prealpi (slavo).
Gli abitanti di Resia parlano un dialetto sloveno arcaico (il resiano) che viene percepito da molti parlanti, che hanno sviluppato una propria peculiare identità etno-linguistica, come idioma a sé stante.
I parlanti sloveno della Val Canale vivono nei comuni di Malborghetto-Valbruna (frazioni Valbruna, Bagni di Lusnizza, Santa Caterina, Ugovizza), Pontebba (frazione Laglesie San Leopoldo), a Tarvisio (frazioni Camporosso, Cave del Predil, Fusine in Valromana). Storicamente hanno fatto parte, fino al 1918, della Carinzia e della Carniola (frazione tarvisiana di Fusine in Valromana) e sono l'unica comunità slovena della provincia di Udine che ha storicamente goduto di un sistema scolastico in lingua slovena.
In base al censimento del 1921 gli Sloveni in provincia di Udine erano circa 34.000.
Comuni a maggioranza slavofona nella provincia di Udine:

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