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A Montemaggiore/Brezje sul Cammino celeste


Montemaggiore/Brezje

A causa della pandemia di Covid-19, quest’anno pellegrini e camminatori lungo il Cammino celeste sono stati di meno, ma il flusso non si è fermato. Ricordiamo che il percorso, all’insegna di fede, natura e cultura è nato nel 2006 dall’iniziativa di un gruppo di fedeli di Friuli-Venezia Giulia, Slovenia e Carinzia.

I suoi itinerari riuniscono pellegrini di diversa etnia e cittadinanza proprio a Lussari/Svete Višarje, dove già da secoli le genti di lingua slovena, tedesca, friulana e italiana si rivolgono a Maria. Il Cammino celeste si compone di tre percorsi: italiano con partenza a Aquileia, sloveno, con partenza da Brezje, e austriaco, con partenza da Maria Saal.

Passando per la provincia di Udine, il Cammino italiano tocca tutte le zone in cui sono ancora parlati i locali dialetti sloveni. Tra queste anche la Val Cornappo, arrivando a Montemaggiore/Brezje da Masarolis/ Mažeruola.

Qui turisti e pellegrini possono trovare un letto su cui dormire e un posto dove rifocillarsi al Bed and breakfast Casa Svetlana, oppure al locale centro sociale comunale, al momento seguito da Anita Tomasino. La struttura una volta rientrava nell’ambito dell’offerta turistica del consorzio Dolce Nordest. Conta alcune camere singole e matrimoniali, un soppalco in cui dormire in molti, una cucina e servizi igienici.

Il Centro sociale comunale/Občinski družbeni center

Anita, che ha 71 anni e da qualche tempo ha fatto ritorno a Montemaggiore insieme al marito dopo un periodo di lontananza per lavoro, spiega: «Ora la struttura è rivolta sia ai camminatori del Cammino celeste, sia a quelli lungo la Via alpina e gli altri percorsi presenti sul territorio, come il Cammino mariano ». La struttura, che è di proprietà del Comune, è stata data in gestione al Consorzio boschivo di Montemaggiore, presieduto da Armando Noacco. Anita, che in municipio a Taipana è anche consigliera comunale, in seno all’amministrazione guidata da Alan Cecutti, spiega: «Il sindaco giovane ha capito le necessità della frazione e mi ha incoraggiato a seguire il decollo della struttura. L’anno scorso l’ho seguita per il primo anno. Il coronavirus ancora non imperversava ed è andata molto bene. Mi sono interfacciata con Aurelio Pantanali, che segue il Cammino celeste, e lui mi ha inserito come referente per la struttura del centro sociale comunale sul sito camminoceleste.eu, nonché portato le credenziali e tutto il necessario. Pellegrini e turisti possono fermarsi qui lasciando un’offerta libera ».

Fino all’anno scorso Anita agiva in proficua sinergia con Ivano Carloni, che l’anno scorso seguiva il punto d’arrivo della tappa successiva, al Rifugio ANA sul Gran Monte sopra Monteaperta/Viškorša, in località Špik.

«Ivano ed io ci sentivano per scambiarci informazioni sul numero e sugli orari di partenza e arrivo dei pellegrini, anche per organizzarci al meglio. La coordinazione l’anno scorso ha funzionato molto bene; purtroppo quest’anno il rifugio è rimasto chiuso, col bivacco però attivo ».

La scorsa estate, sempre in considerazione della pandemia di nuovo coronavirus, c’era molta indecisione circa l’aprire o meno la struttura, ma le telefonate di interessati a soggiornarvi non si fermavano. «Il presidente del Consorzio boschivo di Montemaggiore, Armando Noacco, si è molto attivato in questo senso e, assieme a Aurelio Pantanali, negli ultimi giorni di luglio siamo riusciti a riaprire la stuttura». Sono sempre garantiti distanziamento e sanificazione, con la massima sicurezza. «Anche se i diversi gruppi fanno passaparola tra loro, quest’anno il flusso – nota Anita – è stato minore, sia per il coronavirus, sia per il fatto che il rifugio sul Gran Monte è rimasto chiuso, col solo bivacco attivo».

Tra questa e la prossima stagione, probabilmente intercorrerà un bando per la futura gestione.

«Se come Consorzio boschivo di Montemaggiore – che peraltro, di recente, ha ricevuto un finanziamento di centomila euro per sistemare la sesta tappa del percorso del Cammino celeste – avremo le carte in regola per averla, spero che potremo individuare chi la gestirà. Ne sono ancora referente fino a novembre. Per gestirla, comunque, è necessario farlo da qui. I pellegrini, infatti, possono arrivare in qualunque orario».

La struttura, in ogni caso, è di tutti «e soprattutto dei montemaggiorini », ci tiene a precisare Anita. Un tempo, infatti, ospitava la scuola della frazione taipanese, che ora conta una decina di abitanti. «Qui ho frequentato le scuole elementari, assieme ai miei compagni. Io qui ho le radici. Il mio interesse è in favore del territorio, non personale, anche se i feedback ricevuto dai pellegrini per la gestione della struttura da me e dal presidente del Consorzio sono veramente molto positivi».

Occuparsi del Cammino celeste lascia molte emozioni a livello umano, nota infine Anita. «I pellegrini, ognuno con la propria motivazione, arrivano alla quinta tappa, quella di Montemaggiore, con la prospettiva d’iniziare la parte in montagna e spesso vanno motivati, anche solo con una parola. Quando arrivano a Lussari molti di loro mi mandano la foto per mostrarmi che sono arrivati. Allora sono proprio contenta, è qualcosa che non si può spiegare. Ognuno di loro mi lascia un pezzettino del loro cuore». E non per niente molto a riguardo lasciano intendere i pensieri lasciati dai pellegrini sul diario della struttura. (Luciano Lister)

https://www.dom.it/v-brezjah-po-nebeski-poti_a-montemaggiore-sul-cammino-celeste/?fbclid=IwAR3HD9l64hM0jdE_Eq1rIwaXwHMjjXubq_Jb2STs0abpS8ksHEvzYRD5F0Q


Poesia di David Maria Turoldo

 

Essere amato


DAVID MARIA TUROLDO

DIRMI GELOSO

Dirmi geloso è inutile,
non sopporta catene l'Amore.

Invidia invece mi rode
perché a me non hai dato
come a loro il dono
di lasciarmi amare:

essere amato nel modo
che tu solo ami:
rovinoso
              e senza rimedio.

(da O sensi miei, Rizzoli, 1990)

.

Non so se altri passino / per uguali gorghi / di vertigini (…) / e tu / perduto nell’illimite”: la fede di David Maria Turoldo è un continuo ricercare, è una domanda perpetua che non riesce ad avere risposta. Toccano “ad altri, ad altri i divini / giochi per i campi, e i lauti / banchetti e le notti / di magia…” tanto da renderlo quasi invidioso di quelli che invece si sentono pienamente amati.


JAN TOOROP, "DESIDERIO E GRATIFICAZIONE"

.

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LA FRASE DEL GIORNO
Pare che Dio sia una consonante // e neppure quale /tu sai…
DAVID MARIA TUROLDO, O sensi miei




David Maria Turoldo, al secolo Giuseppe Turoldo (Coderno, 22 novembre 1916 – Milano, 6 febbraio 1992), presbitero, teologo, filosofo, scrittore e poeta italiano, membro dell'Ordine dei servi di Maria. Fu sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso della Chiesa, di ispirazione conciliare.

https://cantosirene.blogspot.com/search?updated-max=2020-10-11T05:00:00%2B02:00&max-results=7

I fucilati di Cercivento, una storia che va ricordata di Francesco Cecchini


Lapide che ricorda i fucilati di Cercivento
 Il caporal maggiore Silvio Gaetano Ortis,25 anni di Paluzza, il caporale Basilio Matiz, 22 anni di Timau, il caporale Giovan Battista Corradazzi 23 di Forni di Sopra e il soldato Angelo Massaro 22 di Maniago dell’VIII Reggimento alpini appartenenti alla 109.ma Compagnia del Battaglione ‘Monte Arvenis’, i fucilati di Cercivento, i fusilâz di Çurçuvint in friulano, vennero uccisi all’alba del primo luglio del 1916, con la faccia rivolta al nemico, davanti al muro di cinta del cimitero di Cercivento, Udine. Alpini appartenenti alla 109.ma Compagnia del Battaglione ‘Monte Arvenis’, si erano opposti al comando del loro capitano di uscire in avanscoperta sul monte Cellon richiedendo l’ausilio dell’artiglieria e di agire di notte e accusati dal proprio Comandante di Compagnia, il capitano Armando Ciofi e il suo vice tenente Pietro Pasinetti, d’insubordinazione e ribellione .In base all’articolo 114 del codice penale militare: rivolta in faccia al nemico, per quattro Alpini le accuse del tribunale si commutarono in condanne a morte, per altri ventinove a 145 anni di carcere complessivi e per i rimanenti militari in assoluzioni.

Ne ha scritto Paolo Rumiz in un articolo del 31 ottobre 2014 pubblicato sull’Espresso:

Quella di Cercivento è una storia che riassume le altre. È il giugno del ’16. Gli austriaci stanno sfondando su Vicenza con la Strafexpedition. Nella zona del Monte Coglians c’è il battaglione alpini Tolmezzo, considerato infido dagli ufficiali “forestieri” per via dei cognomi mezzi tedeschi dei carnici arruolati e dei tanti di essi che hanno lavorato da emigranti in terra d’Austria. Hanno una perfetta conoscenza del terreno, ma gli alti comandi non si fidano a sfruttarla e insistono a ordinare azioni suicide. Quando viene deciso un attacco alle rocce della cima Cellon in pieno giorno e senza supporto di artiglieria, alcuni soldati suggeriscono di compiere l’assalto col favore della notte. È quanto basta perché il comandante, un napoletano di nome Armando Ciofi, coperto dal tenente generale Michele Salazar, comandante della 26ª divisione, gridi alla “rivolta in faccia al nemico” e ordini la corte marziale. Il processo si svolge di notte, in una cornice lugubre, nella chiesa che il prete di Cercivento, terrorizzato, è obbligato a desacralizzare. Sul processo incombono le circolari Cadorna, che chiedono “severa repressione”, diffidano da sentenze che si discostino “dalle richieste dell’accusa” e ricordano il “sacro potere ” degli ufficiali di passare subito per le armi “recalcitranti e vigliacchi”. Gli accusati sono decine, e ciascuno ha nove minuti per l’autodifesa. Un’ora prima dell’alba, la sentenza. Quattro condanne alla fucilazione. Tutti carnici: Giambattista Corradazzi, Silvio Gaetano Ortis, Basilio Matiz e Angelo Massaro, emigrante in Germania che ha scelto di rientrare “per servire la patria”. Mentre lo portano via grida: “Ecco il ringraziamento per quanto abbiamo fatto”. Il prete, don Zuliani, confessa i morituri. È sconvolto, propone inutilmente di sostituirsi ai soldati davanti al plotone. Dopo, non vorrà più rientrare nella chiesa “maledetta ” e diverrà balbuziente a vita. La prima scarica uccide tre condannati, solo Matiz è ferito e si contorce urlando. Lo rimettono sulla sedia. Nuova scarica e non basta ancora. Perché sia finita ci vogliono tre colpi di pistola alla testa.

Un docufilm “Cercivento, una storia che va raccontata”, realizzato dalla Regione FVG con il Comune di Cercivento, ricostruisce la fucilazione dei 4 alpini, la cui presentazione e prima proiezione è avvenuta lo scorso 25 maggio a Tolmezzo. Il documentario é stato proiettato lo scorso 16 luglio a Roma, nella sala Caduti di Nassirya del senato. Organizzatrice è stata la senatrice Tatjana Rojc che poco prima aveva dichiarato a Friuli sera: “Sono orgogliosa di contribuire a presentare al Senato un capitolo della nostra storia più dolente, vissuta sulla terra del Friuli Venezia Giulia durante la Grande Guerra. Il disegno di legge per la restituzione dell’onore ai cosiddetti ‘fusilaz’ di Cercivento è il pagamento di un debito ancora sospeso, per le vite strappate a giovani ingiustamente accusati di viltà”.
Il link con il trailer del documentario è il seguente:
https://www.youtube.com/watch?v=2Y2iQQZtjC0

La senatrice triestina Rojc è prima firmataria del ddl “Disposizioni per la riabilitazione storica degli appartenenti alle Forze Armate italiane condannati alla fucilazione dai tribunali militari di guerra nel corso della Prima Guerra mondiale”. Il documento, chiede all’art. 1: “la restituzione dell’onore agli appartenenti alle Forze armate italiane che, nel corso della Prima Guerra mondiale, vennero fucilati senza le garanzie del giusto processo, con sentenze emesse dai tribunali di guerra” e promuove “il recupero della memoria” di tali caduti e in particolare iniziative di “ricerca storica volta alla ricostruzione delle drammatiche vicende del primo conflitto mondiale con specifico riferimento ai tragici episodi dei militari condannati alla pena capitale”.https://www.pressenza.com/it/2019/11/i-fucilati-di-cercivento-una-storia-che-va-ricordata/

Giro d’Italia, un ritorno sottotono

 



Il Giro d’Italia fa ritorno sulle strade della Benecia il prossimo 20 ottobre in un’inedita versione autunnale complice il Covid-19. È un’edizione, questa della seconda corsa ciclistica a tappe più importante del mondo, sottotono per l’assenza delle superstar del pedale, come gli assi sloveni Tadej Pogačar e Primož Roglič, primo e secondo al Tour de France, il vincitore dell’anno scorso Richard Carapaz e il campione del mondo Julian Alaphilippe, e la contingentata presenza di tifosi lungo il percorso. Non è nemmeno proponibile, dunque, il paragone con la tappa del 20 maggio 2016, quando le valli del Natisone e del Torre si tinsero letteralmente di rosa e richiamarano decine di migliaia di appassionati a Matajur, Drenchia, Porzus, Canebola, Valle. Tuttavia anche l’appuntamento di quest’anno è importante, primo perché grazie ad esso sono stati sistemati diversi chilometri di strade e si è ripulito il territorio, secondo perché la copertura televisiva dell’evento porterà i tesori naturali della Benecia in tutto il mondo. Purtroppo le nostre valli saranno interessate solodalla prima parte della tappa, quella meno importante, mentre il clou sarà di scena altrove. Come noto, le premesse erano ben altre, dato che era stata disegnata una tappa del tutto beneciana, con un arrivo sul Matajur che prometteva faville. L’eliminazione del Matajur dal ventaglio di possibili traguardi di tappa è stata motivata con l’insufficienza di spazi nella zona di arrivo e a eccessivi rischi in caso di maltempo. Ma gli appassionati del Giro non hanno mai creduto a questa spiegazione, così è fiorita tutta una serie di voci su pressioni nei confronti dell’organizzazione. E, guarda caso, l’arrivo della sedicesima tappa è stato assegnato alla San Daniele dei ricchi prosciuttifici. Ora, dopo le vicende legate al nuovo coronavirus, si può anche dire meglio così. Godiamoci, allora, gli scampoli di questa insolita corsa rosa che ci sono concessi, augurandoci in futuro altre occasioni per la Benecia sul palcoscenico mondiale del ciclismo.

https://www.dom.it/giro-10-oktobra-tudi-v-beneciji_giro-ditalia-un-ritorno-sottotono/

È un punto di riferimento - Človek na katerega vsi gledamo


È da diversi anni che ho la fortuna di essere invitato, per un amichevole convivio, ai compleanni di un caro amico di famiglia, mons. Marino Qualizza. Più che sacerdote, studioso, teologo, professore, giornalista, e via elencando fino a direttore responsabile di questo quindicinale Dom, mons. Marino è una persona eccezionale per una illimitata serie di ragioni, ma è soprattutto un amico che si fa volere bene. Non solo da me, ma da chiunque lo accosti.

La sua umanità si arricchisce di quella profonda spiritualità che non gli viene solo dai suoi studi, bensì dalla fede profonda tradotta. Va al sodo.

Nelle sue prediche, nelle conversazioni, nei ragionamenti, negli atteggiamenti non c’è alcuna presunzione. In lui c’è il senso della fratellanza, quella proclamata da Papa Francesco nella sua ultima enciclica, «Fratelli tutti»; quella che ti stende la mano per stringetela.

Mons. Qualizza avrebbe molte ragioni per ergersi sui gradini più elevati delle personalità di rilievo, meritevoli di plauso e di osanna. L’essere uno di noi, però, lo rende un simbolo, un punto di riferimento, uno che sa spronare e incoraggiare, unendo l’afflato della fede all’impegno culturale e civile, al fine di salvaguardare la nostra lingua e la fede religiosa, quali costituenti della nostra identità individuale e di gruppo.

Lo dico soprattutto per noi Sloveni della Benečija, reduci da oltre 150 anni di pressioni snazionalizzatrici – per usare un eufemismo –, emarginati, all’estrema periferia di uno Stato impegnato a rieducarci ad una malintesa italianità. Sulla scia di mons. Ivan Trinko, mons. Marino rimane uno degli ultimi Čedarmaci, i sacerdoti della Slavia che hanno speso la vita per mantenere vive e vitali la lingua, la cultura, le tradizioni della gente slovena, valori indissolubilmente legati alla fede religiosa dei padri. Non è stato muto nei suoi tanti anni di vita e men che meno lo è ora, quando, sfidando i limiti di un corpo ribelle, non rifiuta la sua presenza per testimoniare ancora con maggiore forza il valore dell’identità etnico-linguistica e religiosa del nostro gruppo, numericamente minoritario, ma per nulla inferiore alla maggioranza che ne minaccia l’estinzione.

Ha parlato molto, mons. Qualizza, ma soprattutto ha scritto molto. E perché almeno parte delle sue parole non venga dimenticata, in occasione del suo ottantesimo compleanno, la cooperativa «Most» ne ha raccolte parecchie in un libro: «Benečija naš dom». Nel volume rientra solo una piccola parte di quanto ha scritto, limitandosi, come si evince dal titolo, al «Naš dom», dove «dom» non è tanto la testata giornalistica quanto «dom» come casa nostra, patria, famiglia, memoria, tradizione, lingua, fede, cultura e quant’altro uno di noi possa dire di sé.

È un libro di 320 pagine che raccoglie una parte degli articoli di fondo del periodo 2003-2020 del quindicinale Dom, di cui mons. Qualizza è direttore responsabile da quasi 40 anni, salvo una breve interruzione. Cosa è stato il Dom per la Benečija e la sua gente in tutti questi anni? Un costate invito, uno stimolo a rendersi conto del valore intrinseco dell’appartenenza a questo particolare gruppo etnolinguistico che può vantare un passato storico di eccezionale fierezza e che ha il diritto-dovere di riacquistare riconoscimento e dignità troppo a lungo conculcate.

Ne ha provate di tutti i colori un combattente come mons. Qualizza, mai aggressivo o irruento,ma persuasivo e convincente per equilibrio e saggezza. Lui, teologo, insegnante,

personaggio noto ai massimi livelli culturali non manca, da oltre trent’anni, di percorrere la strada da Udine a Cras di Drenchia, l’estremo angolo del confine orientale, per celebrare la santa messa nella lingua della nostra cultura millenaria. Vessillo di coerenza sotto il Kolovrat, simbolo di fratellanza e di pace sul luogo dove si è consumato il tragico destino delle insane «inutili stragi» di due guerre mondiali. Pochi fedeli ad ascoltare le sue parole, ma una testimonianza vera e sincera che si ripete nelle celebrazioni ripetute nella chiesa di Špietar /S. Pietro al Natisone. È qui che sabato 10 ottobre è stato presentato il libro. A darne il senso riporto alcune proposizioni scritte da Giorgio Banchig nella prefazione.

«Leggere gli editoriali, che mons. Marino Qualizza ha scritto per il periodico Dom come direttore responsabile, significa rivedere in flashback gli avvenimenti, le conquiste, le crisi, i successi, le sofferenze, il declino e la voglia di riscatto che la comunità slovena della provincia di Udine ha vissuto in questi ultimi decenni. L’equilibrio di giudizio, l’esperienza accumulata come sacerdote, teologo e docente, le prove fisiche e le ostilità subite, ma soprattutto l’amore per la nostra terra e la nostra gente, il radicamento nella nostra cultura slovena, la preoccupazione per la salvaguardia della nostra lingua e del nostro patrimonio spirituale sono stati i presupposti e la fonte di ispirazione dei suoi scritti. Due volte al mese mons. Qualizza si rivolge alla sua gente che considera come una famiglia composta da credenti e non, ma uniti dalle comuni radici cristiane e culturali la cui linfa alimenta ancora questo “piccolo resto d’Israele” che si batte da oltre un secolo e mezzo per opporsi al processo di assimilazione e omologazione».

E mons. Marino è ancora qui a stimolarci, nei suoi 80 anni, giovane più di tanti di noi, che magari sperperiamo nell’indifferenza il patrimonio accumulato in mille anni di vita nelle valli e sui monti della nostra Benečija.

Riccardo Ruttar

Zadruga Most je izdala knjigo »Benečija naš dom«, v kateri je odgovorni urednik petnajstdnevnika Dom msgr. Marino Qualizza zbral veliko uvodniku, ki jih je za Dom napisal od leta 2003 do začetka letošnjega leeta. Knjiga je izšla ob 80. rojstnem dnevu beneškoslovenskega duhovnika (slavil ga bo 6. otuberja 2020).»Kadar prebiramo uvodnike, ki jih je msgr. Marino Qualizza kot odgovorni urednik napisal za štirinajstdnevnik Dom, se nam kot flashback razkrivajo dogodki, pridobitve, krize, uspehi, trpljenje, zaton in želja po osvobajanju, ki jih je slovenska skupnost iz videnske pokrajine doživljala v zadnjih desetletjih. Uravnovešenost njegove presoje, izkušnje, ki si jih je nabral kot duhovnik, teolog in profesor, doživete telesne preizkušnje in prestane sovražnosti, zlasti pa njegova ljubezen do naše zemlje in naših ljudi, ukoreninjenost v našo slovensko kulturo, skrb za ohranjanje našega jezika in naše duhovne dediščine, vse to je bilo osnova in vir navdihnjenja za njegovo pisanje. Dvakrat mesečno ponuja msgr. Qualizza bralcem Doma razmišljanje, komentarje, spodbude, kritike in nasvete o najrazličnejših vidikih v celoviti razčlenjenosti življenja in v številčnosti idejnih stališč naše skupnosti. Nagovarja svoje ljudi kot družino vernih in nevernih članov, ki jih združujejo skupne krščanske in kulturne korenine,« je v uvodu k knjigi pod naslovom Bogata in trpeča duša Benečije napisal Giorgio Banchig.

 https://www.dom.it/e-un-punto-di-riferimento_clovek-na-katerega-vsi-gledamo/?fbclid=IwAR2rj-BxnvCicle6Yh5io5Je4gOk6adsYDtBRCi26h5Vk0F_8hS58Fq2RKI

Il destino di Uccea/Učja si è compiuto

 


RESIA – REZIJA Il destino di Uccea/Učja si è compiuto 

Il paese del comune di Resia/Rezija è paradigma dello stato di abbandono delle valli abitate da sloveni Una breve intervista riportata su Facebook, ripresa da Telefriuli, notizia con nulla di eclatante, quasi una curiosità, tanto per riempire il palinsesto: «Niente telefoni, nessun abitante. Uccea, un paese che non c’è più». A chi può interessare un vuoto creatosi all’interno di uno scenario da vecchia favola in una valle montana di per sé stessa negletta e sperduta? Uccea/Učja, un paesino nascosto in fondo ad una stretta valle ai piedi del gigantesco massiccio del Canin, a un tiro di sasso dal confine sopra il torrentello omonimo che porta le sue acque verso l’Isonzo in Slovenia. Frazione del comune di Resia/ Rezija, il cui capoluogo comunale si trova in un’altra valle che scende dal gigante montano; ci vogliono 17 km, superando sella Carnizza (1.086 m.s.l.m.), per raggiungerlo; e, fino a poco tempo addietro, a piedi, d’estate e d’inverno. Paesino, Uccea, ai cui piedi oggi corre una ex strada statale transfrontaliera (la 646); è dotato di due chiesette – una antica (S. Antonio) lontana dal centro già abitato ed una più recente; aveva una scuola – demolita dopo il terremoto del 1976 –, un paio di osterie, casette dignitose per gente caparbia. Ora, la presa d’atto: l’abbandono totale alla stregua di tanti altri paesetti dove la vita normale pare divenuta impossibile. Porte sprangate, non fiori sui davanzali, campane mute, strade silenziose, ortiche negli orti a riconfermare l’abbandono. Silenzio. Neppure io ne scriverei se quello non fosse per me un luogo di particolari ricordi, di forti emozioni, di lavoro impegnativo e gratificante. Era l’anno 1974, il mio secondo anno come maestro elementare. Dopo una iperattiva supplenza annuale a Drenchia nel troppo grande edificio scolastico per una dozzina di alunni, con un punteggio minimale potevo scegliere una sede di ruolo solo tra qualche paesino montano della lontana Carnia, tipo Lauco o Ovaro, e Uccea, la più vicinaIn ricognizione, mi sono avventurato sulla strada di Lusevera e, superando il passo Tanamea/Ta na meji, scesi lungo la valle, per me del tutto ignota, fino al paesello un po’ disperso sul versante sinistro del torrente. Non sapevo che il mio futuro collega sarebbe stato un prete. Che ci facesse là era per me un rebus, ma non mi mancò l’opportunità di comprenderlo già da subito, quando, ricevuto nella disadorna canonica autogestita, conobbi don Vito Ferrini. Nel colloquio, che potrei definire fraterno, compresi il suo particolare modo di gestire la vita in quel piccolo mondo, non solo la specifica conduzione pastorale e scolastica, ma l’impegno totale e disinteressato per tutta la comunità che a lui faceva riferimento. «Qui, lo puoi vedere da solo, – mi diceva – la vita è difficile soprattutto per i ragazzi. Già a partire dalla lingua, un antico dialetto sloveno, contando anche l’isolamento dal resto del mondo. Le case sparse sul ripido versante in piccoli agglomerati lo acuiscono e così la chiesa e la scuola diventano gli unici strumenti e occasioni di aggregazione, di socializzazione e conoscenza. Neppure la Tv, un telefono pubblico... Qui i ragazzi stanno a scuola dal primo mattino al tardo pomeriggio – colazione, pranzo e merenda compresi, cui provvedeva coi propri mezzi –, altrimenti quei pochi rimasti rimarrebbero inselvatichiti come cuccioli allo stato brado». Mi è sembrato da subito un uomo e prete particolare e pensai istintivamente a don Lorenzo Milani e alla scuola di Barbiana. Questo qui, mi dissi, dopo aver a lungo colloquiato e discusso sul mio futuro impegno, ha preso sul serio il suo ministero e a me non rimane che mettermi in sintonia con lui, perché anche per me fare l’insegnante non doveva rimanere un qualsiasi lavoro, ma una missione, perché quei deliziosi ragazzi affidatimi richiedevano senso di responsabilità, sensibilità e dedizione. In fondo sarei stato corresponsabile della vita quotidiana di quella particolare dozzina da sei a otto ore per cinque giorni alla settimana. Accettai senza rimpianti, anche se, come mi avvertì don Vito, la strada da Tanamea al paese dopo la terza nevicata diveniva una pista da bob, comunque aperta per via della caserma della Finanza a custodia del valico. A distanza di tanto tempo ricordo in particolare i tre ragazzini più piccoli, Roberto, Marcellino e Vito, cui qualche volta scappava di chiamarmi mamma. Ecco perché mi ha colpito la notizia di quel piccolo mondo che affonda la propria storia agli inizi del XVI secolo, che contava negli anni 50 del secolo scorso oltre 400 residenti. Nelle sere, soprattutto quelle invernali, nel piccolo alloggio ricavato nei locali della scuola, consultavo e trascrivevo i particolari di quella popolazione rimasta (110 residenti), annotavo le caratteristiche, il modo di vita, il senso di quella resistenza. Già allora non mi facevo illusioni e assieme a don Vito ci sforzavamo di preparare i ragazzi al mondo più ampio che inevitabilmente li avrebbe attratti e dispersi. Don Vito aveva la mappa dettagliata di tutte le famiglie, delle persone rimaste e di quelle che se n’erano andate in cerca di fortuna e di sole. E io, per la prima volta mi cimentai nella lettura del dialetto resiano, così come riportato dallo studioso Milko Matičetov. Mi meravigliavo, accorgendomi di poter comprendere, col mio dialetto delle Valli del Natisone, quello del posto. Così con quei ragazzi mi sentivo di condividere memorie e valori. Il destino di Uccea/Učja – chiamiamo così questa sua prevedibile parabola storica – si è compiuto. Rimane un ricordo e il rimpianto constatando che per prime ad abbandonarlo sono state le pubbliche istituzioni. Uno dei luoghi della nostra storia, emblema di tanti altri nostri paesini su cui incombe la stessa sorte. E questo mio scritto non è che uno sconsolato De profundis col cuore affranto per il probabile analogo destino di molti paesi delle mie Valli slovene. 

Riccardo Ruttar (Dom, 15. 9. 2019) da SLOVIT

Una scuola sicura per il dialetto resiano

Prato di Resia/Ravanca
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 La nuova amministrazione comunale ha le idee chiare PRATO DI RESIA – RAVANCA 

Una scuola sicura per il dialetto resiano, una sala polifunzionale e più turismo Il vicepresidente del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, Stefano Mazzolini, e il consigliere regionale Igor Gabrovec a colloquio con la sindaca di Resia, Anna Micelli e col vicesindaco, Giuliano Fiorini

A Resia i residenti sono sempre meno; la loro età media supera i 60 anni. La località necessita urgentemente di servizi adeguati, affinché le famiglie possano risiedere in valle. Al primo posto ovviamente c’è la scuola, ma bisogna pensare anche allo sviluppo economico della zona, a partire dal turismo, e a collegamenti stradali adeguati, soprattutto al confine con la vicina Slovenia, dove la situazione è particolarmente critica. Sono questi alcuni dei temi al centro del colloquio tra la sindaca di Resia, Anna Micelli, il suo vicesindaco, Giuliano Fiorini, e i consiglieri regionali Igor Gabrovec (Unione slovena-Ssk) e Stefano Mazzolini (Lega). L’incontro si è svolto giovedì, 5 settembre, proprio su iniziativa del vicepresidente del consiglio regionale, che viene dalla vicina Valcanale e conosce bene i nuovi amministratori locali di Resia. Visto che il comune rientra nell’ambito di applicazione della legge di tutela della minoranza linguistica slovena, Mazzolini ha voluto essere accompagnato anche da un rappresentante di lingua slovena e ha, quindi, invitato Gabrovec a unirsi a lui. Come riferito da Gabrovec al termine, l’incontro è stato molto utile. La nuova amministrazione è straordinariamente motivata e ha molto chiari quali siano i bisogni della valle. La maggior parte dell’attenzione è stata rivolta alla scuola, che per Resia è d’importante chiave. Attualmente l’edificio scolastico non risponde alle norme di sicurezza (soprattutto dal punto di vista antisismico) e necessita, quindi, di essere ristrutturato. Per adeguarlo alle norme di sicurezza servirebbero 1,5 milioni di euro. In base a uno studio effettuato, l’amministrazione comunale ha calcolato che con un investimento di 2,5 milioni di euro oltre ai locali ristrutturati si disporrebbe di una moderna sala polifunzionale, con cui potrebbe essere rafforzata l’offerta culturale e turistica e che potrebbe essere utilizzata anche dal Parco naturale delle Prealpi Giulie, il cui Centro visite si trova proprio a Resia, nella frazione di Prato. Il Comune di Resia ha, tra l’altro, partecipato a alcuni bandi regionali per ottenere i fondi necessari, ma al momento si trova solo al 61o posto in graduatoria. Alla sindaca Micelli interessa sapere, quindi, se sia possibile giungere in qualche modo a un contributo urgente, nel modo in cui, qualche tempo fa, sono stati garantiti i fondi necessari per la ristrutturazione della scuola bilingue di San Pietro al Natisone. Quella di Resia, infatti, è l’unica scuola in una valle già trascurata per la sua collocazione montana, ma dove è straordinariamente importante anche l’aspetto linguistico. Nella locale scuola – a Resia sono attivi una scuola d’infanzia, una scuola primaria e una scuola secondaria di primo grado – i bambini imparano, infatti, anche il dialetto resiano, che va urgentemente tutelato e trasmesso alle generazioni più giovani. Questo è anche uno tra gli obiettivi prioritari della nuova amministrazione comunale, che evidenzia anche il bisogno di rafforzare le attività economiche e di sviluppo turistico. All’incontro si è parlato, poi, del cattivo stato della strada che porta a Bovec (con un collegamento migliore il flusso turistico dalla più sviluppata Valle dell’Isonzo sarebbe più facilitato), ed è stata richiamata l’attenzione sulla vecchia e abbandonata caserma della guardia di finanza – al momento di fatto in rovina – che degrada l’immagine della vallata. Dopo l’incontro i consiglieri regionali Gabrovec e Mazzolini si sono impegnati, soprattutto per quanto riguarda la ristrutturazione della scuola, a parlare con l’assessore competente Pizzimenti e a verificare se sia possibile predisporre un nuovo bando e andare in aiuto all’amministrazione. Ovviamente andrà verificato se anche altrove ci siano simili situazioni di criticità. I bisogni e le aspettative degli amministratori di Resia saranno portati anche all’attenzione dei restanti componenti della giunta. Prima dell’incontro in municipio, Igor Gabrovec col suo collaboratore Miloš Čotar ha incontrato al Museo della gente della Val Resia anche gli operatori culturali Luigia Negro e Sandro Quaglia. Gabrovec ha potutoconvincersi un’altra volta in prima persona del grande potenziale turistico della valle con tutte le sue peculiarità linguistiche, storiche, naturalistiche e non solo: «Durante circa un’ora di colloquio con Sandro e Luigia nel Museo di Stolvizza è arrivata davvero molta gente, che ha poi proseguito visitando anche il Museo dell’arrotino». T. G. (Novi Matajur, 11. 9. 2019)

da SLOVIT

I VOCABOLARI COME COMPAGNI INDISPENSABILI



il primo vocabolario italiano-sloveno fu pubblicato a Udine nel
1607

 La sezione per il vocabolario dell'Associazione delle società slave della Slovenia sta preparando una serie di eventi in occasione della Giornata internazionale dei dizionari, con i quali vuole sottolineare l'importanza dei dizionari nel processo educativo. A causa della situazione epidemiologica impopolare, il raduno di quest'anno si svolgerà online.


Il programma si svolgerà il 15 e 16 ottobre (https://zdsds.si/2020/10/mednarodni-dan-slovarjev-2020/), dove romperanno il ghiaccio con una tavola rotonda sul tema dei dizionari nel processo educativo. Seguiranno le presentazioni del progetto.


Quest'anno ricorrono 50 anni dalla pubblicazione del primo libro del Dizionario della lingua letteraria slovena, che è il dizionario monolingue centrale per lo sloveno. È stato prodotto presso l'Istituto Fran Ramovš per la lingua slovena e pubblicato in cinque libri tra il 1970 e il 1991. L'attuale dizionario monolingue per lo sloveno è la seconda edizione del Dizionario della lingua letteraria slovena o SSKJ2, che è liberamente disponibile in Fran (https: // fran.si/), dove il lettore può anche trovare i restanti dizionari e manuali per lo sloveno.

È interessante notare che il monaco, storico e linguista italiano Alasia da Sommaripa scrisse il dizionario bilingue italiano-sloveno Vocabolario Italiano e Schiauo già nel 1607 e lo dedicò all'uso pratico, soprattutto tra i sacerdoti. Ha scritto parole slovene in lettere italiane e ha incluso nel dizionario un esempio di conversazione tra un locale e un viaggiatore.


Il primo vero dizionario, che contiene anche parole in sloveno, è il Dictionarium quatuor linguarum (Dizionario delle quattro lingue) del 1592. Fu scritto dal linguista tedesco Hieronim Megiser, che spiegò le parole tedesche in latino, sloveno e italiano.


Link zoom per accedere alla tavola rotonda e alla presentazione:

https://us02web.zoom.us/j/83114206412?pwd=Wk5aTVRlbnRkRTNrSm5mNjZURm0rZz09


Numero di identificazione: 831 1420 6412

Password di accesso: 776199

tradotto dal Novi Matajur del 14-10.-2020

Covid-19, il 95% e asintomatico

 


Anche nel ventunesimo aggiornamento settimanale il dott. Mario Canciani, allero-pneumologo, fornisce notizie pratiche sull’infezione da Coronavirus, basate sulle domande che gli vengono poste più spesso. Per facilitare la comprensione, cerca di usare il meno possibile termini medici e di semplificare i concetti. Il report non vuole sostituire il ruolo del curante, né quello della sanità regionale, le cui indicazioni invita sempre a rispettare.

COS’È LA CURA TRUMP?
Come avevamo riportato 2 settimane fa, la terapia più efficace al giorno d’oggi è rappresentata dall’uso degli anticorpi o estratti dal siero di pazienti guariti o prodotti in laboratorio. Sembra che i secondi siano stati iniettati al presidente Trump e probabilmesono responsabili della sua pronta guarigione. La cura è molto costosa e per ora sperimentale, ma è probabile che diventi più accessibile con il passare del tempo.
COME MAI SI PARLA DI UN AUMENTO DELLA PERSISTENZA DEL CORONA NELL’AMBIENTE? IL VIRUS È CAMBIATO?
Una ricerca australiana ha fatto scalpore perché ha dimostrato che il virus durerebbe per 28 giorni, specie sulle superfici non porose contro i 2-3 giorni degli studi precedenti. Bisogna dire che lo studio è stato effettuato in condizioni difficilmente esistenti in natura: sono state usate pure particelle virali, alla temperatura di 20° C e al buio, per evitare l’effetto dei raggi UV. In natura le particelle virali sono inglobate nella saliva o nelle secrezioni respiratorie, per cui vengono a contatto con le difese del corpo e il virus resiste di meno. Inoltre, come abbiamo già visto, i raggi UV hanno una potente carica disinfettante.
PERCHÈ CERTE VOLTE SI PARLA DI QUARANTENA E ALTRE DI ISOLAMENTO?
Per quarantena si intende un periodo in cui la persona che non presenta sintomi ma che è venuta a contatto con l’agente infettivo, deve evitare il contatto con altri soggetti. Di solito viene eseguita nel proprio domicilio, o in luoghi deputati dalle autorità, con modeste misure sanitarie preventive. L’isolamento riguarda invece gli ammalati, i quali devono stare separati dalla comunità, in ambienti protetti che impediscano la trasmissione dell’infezione, finché non si raggiunge la guarigione completa.
PERCHÈ LA RICERCA DEL CORONA NELLE FECI È IMPORTANTE?
Abbiamo già visto in report precedenti che la ricerca delle acque reflue è comoda, costa poco e permette di rilevare la diffusione della malattia in tempi brevi in un grosso numero di persone. Con questo sistema l’Università dell’Arizona ha trovato due studenti che erano negativi ai tamponi ma che avrebbero potuto contagiare molti altri studenti residenti nel college durante la frequentazione di lezioni, mense, palestre. Secondo lo studio, sembra che la presenza di Corona nelle feci preceda quella nel sistema respiratorio e possa rintracciare gli asintomatici molto prima dei tamponi naso-faringei.
IL VIRUS È DIVENTATO MENO AGGRESSIVO?
Anche se i risultati delle ricerche sembrano evidenziare che ci sia una specie di adattamento tra virus e ammalati, in realtà il virus è mutato poco e così sono più efficaci gli anticorpi che produciamo e il vaccino che assumeremo. Rispetto alla prima ondata si infettano di più i giovani perché stanno più assieme in spazi ristretti e il 95% degli infetti è asintomatico o ha pochi sintomi.
SI PARLA DI CHIUDERE I CONFINI DELLE REGIONI PIÙ A RISCHIO. CON CHE CRITERIO?
Ci sono vari criteri adottati dai diversi Stati: in Italia si sta valutando di adottare il criterio di 7-8.000 casi al giorno o di una saturazione delle terapie intensive maggiore del 50%. In Svizzera hanno adottato il criterio di 60 contagi ogni 100.000 residenti negli ultimi 14 giorni; ciò spiega perché abbiano chiuso i confini a chi proviene per esempio dal Veneto.
CI SONO STUDI SCIENTIFICI CHE VALIDANO L’USO DELLE MASCHERINE?
 L’esperienza scientifica ha confermato che la mascherina è utile e riesce a diminuire i contagi. Uno studio ha esaminato due gruppi di criceti, uno dei quali separato da una barriera fatta con il materiale delle mascherine. L’infettività era del 25% nel gruppo che era stato distanziato, contro il 75% del gruppo non separato. Un altro studio americano ha stimato che le mascherine e il distanziamento sociale hanno risparmiato 450.000 infezioni.
COS’È IL FATTORE K?
Noi tutti abbiamo imparato a conoscere il fattore R, cioè il numero che indica quante persone contagi un infetto da Corona, mentre è poco noto il fattore K, il quale indica per quanto tempo un agente patogeno sia trasmesso omogeneamente da chi lo ha contratto: se il K è basso, significa che poche persone sono responåsabili di tanti contagi, se è alto succede l’opposto e il numero di contagiati è più uniforme. Per fare un esempio pratico, mentre l’influenza ha un K alto, cioè si trasmette in modo uniforme, il Corona ce l’ha basso, cioè la trasmissione sarebbe variabile dal superdiffusore a quello scarso. Questo dato è importante perché ci permette di capire se dobbiamo bloccare gli eventi di diffusione dell’infezione.
www.associazionealpi.com

Znani in priljubljeni zdravnik slovenskih korenin Mario Canciani je 14. oktobra objavil svoje 21. poročilo paddemiji Covida-19. Tudi tokrat se je odzval na pogostejša vprašanja o koronavirusu in kako ravnati, da bi omejitvi sirjenja okužbe. Poudarja tudi, da se je med parvim in drugim valom koronavirus le malo spremnil, a je 95 odstotkov okuženih asimptomatičnih ali z blagimi simptomi.

https://www.dom.it/covid-19-il-95-e-asintomatico_95-okuzenik-je-brez-simptomov/

ALASIA GREGORIO (1578 - 1626) SERVITA, LESSICOGRAFO

 

Frontespizio del Vocabolario italiano, e schiavo... di Gregorio Alasia pubblicato a Udine nel 1607.

Nato nel 1578 a Sommariva del Bosco (Cuneo), all’età di diciotto anni entrò nell’ordine dei serviti, abbandonando il nome secolare di Alessandro. Si trasferì quindi a Roma, ma nel 1601 passò a Duino, al seguito del conte Raimondo VI della Torre Valsassina, che nel 1591 aveva fatto erigere presso il proprio castello la chiesa dello Spirito Santo, gestita dai serviti. Giunto a Duino, A. vi celebrò la sua prima messa (1602) e divenne supervisore dei lavori di costruzione del nuovo convento, terminato nel 1607. Per precisa volontà del conte, i compiti principali della piccola comunità religiosa dovevano essere da un lato l’istruzione della nobiltà, dall’altro la predicazione e l’acculturamento della popolazione locale, soprattutto con l’intento di arginare il diffondersi della dottrina protestante. In tale contesto l’A. compilò e diede alle stampe il Vocabolario italiano, e schiavo. Che contiene una breve instruttione per apprendere facilmente detta lingua schiava, le lor ordinarie salutationi, con un ragionamento famigliare per li viandanti, uscito a Udine nel 1607 presso Giovanni Battista Natolini, la cui edizione originale ci è pervenuta in un unico esemplare che fu acquistato a Vienna dallo slavista Jernej Kopitar per conto del barone Sigmund Zois von Edelstein (1747-1819), volume oggi conservato alla Biblioteca nazionale e universitaria (Narodna in univerzitetna knjižnica) di Lubiana. L’opera era destinata in primo luogo ad agevolare la comunicazione tra i religiosi e le popolazioni del luogo e rappresenta, pertanto, un documento di grande interesse per la cultura del Litorale e del Friuli austriaco e per la storia della lingua slovena (soprattutto relativamente alla parlata in uso nelle località costiere e sul Carso, sino a Gorizia ed al Collio). Il libretto, di formato molto ridotto, si apre con una dedica a monsignor Mattias della Torre Valsassina, il giovane nobiluomo che insegnò all’A. la «lingua schiava»; segue la prefazione «Al benigno lettore», contenente anche alcuni elementi di introduzione al lessico (ad esempio: Coniugatione di sum, es; Avertimenti circa i nomi; Salutationi ordinarie; «modo di numerare»). Il vocabolario vero e proprio, stampato su due colonne, consta di 2.617 lemmi in italiano e di 2.841 in sloveno. ... LEGGI


http://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/alasia-gregorio/

LA LEGGENDA DI ZLATOROG OVVERO L'INCANTATO GIARDINO DEL CAMOSCIO E DEI FIORI ROSSI

   

Zlatorog-l'Auricorno
Stefan Turk (illustratore di Trieste)

 Narra la vicenda, di matrice preistorica e popolarissima nell'area austro-slovena-friulana,di un bianco camoscio dai corni d'oro(zlati rog)che all'alba dei tempi viveva in un giardino posto sulle alte balze del monte Triglav(la massima vetta della Slovenia con 2864 m. nella val Trenta) protetto dall'incantesimo,che lo rendeva invulnerabile,di tre fate,le ROJENICE,dal cuore tenero e misericordioso ke il popolo sloveno con quello carinziano ricorda con gratitudine,con le quali vegliava un poderoso tesoro ivi nascosto,e amava correre libero anche per prati vicino alle case perchè allora uomini e animali vivevano in pace.

Se venisse colpito,narra il racconto sloveno vissuto nella tradizione orale fino all'800,dal suo sangue sboccerebbero dei fiori rossi che lo risanerebbero,ma significherebbe anche la morte per il feritore. Chi riuscisse poi a impossessarsi dei suoi corni,avrebbe la chiave dei tesori nascosti nel monte Bogatin da un serpente a più teste;tesori che 700 carri non basterebbero a portare via.
L'ingratitudine e l'avidità umana però trasformarono quel paradiso alpino nei pressi dei laghetti Jeserca in un deserto roccioso.Accadde che tra le pendici del monte e la valle si consumò una tragica storia d'amore.SPELA bruna e appassionata pastora di malga KOMNA (altopiano roccioso omonimo)contende a JERICA l'amore di un aitante giovane cacciatore di val Trenta.
I capricci di Jerica spingono però il giovane a sfidare la sorte e a salire il monte per impossessarsi del tesoro e conquistare la ragazza;diede la caccia al camoscio fatato,lo ferì ma non riuscì a catturarlo.
Dal sangue dell'animale sacro fiorirono meravigliosi boccioli rossi,ROZA MOGOTA,"con tutti i poteri"che gli donarono una nuova vita.Abbagliato dallo scintillare della dorata impalcatura,il cacciatore invece precipitò nell'abisso;il suo corpo,con un mazzetto di rose del Triglav,sarà restituito dal fiume alla ragazza ormai pentita.
Il misterioso camoscio bianco nascose il tesoro tra sommità poste altrove,lasciando un desolato paesaggio roccioso,non si fece più vedere deluso dal tradimento degli uomini e fuggendo in una terra lontana senza agguati e cacciatori.
A ricordare l'auricorno ancora oggi sono i fiori rossi della POTENTILLA NITIDA o ROSA DEL TRIGLAV che d'estate macchiano come sangue i monti circostanti;un tipo di birra con l'immagine di Zlatorog,e la maledizione che fuggendo l'animale predisse agli uomini secondo la quale essi non sarebbero più vissuti in pace nè con gli animali nè con i loro simili.
Questo mito simboleggia l'eterna lotta tra il bene e il male;l'Auricorna è messaggero di luce e vita:punendo l'uomo che ha osato violare l'integrità della natura e con essa la legge divina.
C'è nell'alto Isonzo(Soca)una croce di monito ai cacciatori con questi versi:
Sono andato ad ammazzare camosci
Ma Dio ha detto:
la tua morte deve essere,Andre Komac
Pregate Dio per la mia anima credente.
In lingua slovena:
Sim sal gamse smertit
Al Bog je djal:
toja smert more bit
Jest Andre Komac
prosite Boga za mojo verno duso.

Come questa,anche tutte le leggende fiorite attorno al Triglav,il monte a tre teste,parlano sempre di qualcosa difficile da vedere,avere e trovare come la bellezza di questa montagna:non immediata, pronta a svelarsi solo a chi la cerca con infinita pazienza e rispetto.Chi arrampica sulle pendici del monte Tricorno con questi atteggiamenti potrà sperare di venir premiato con ogni genere di sorpresa.Forse anche quella di intravvedere l'Auricorno,di trovare il tesoro nascosto o scoprire un fiore ancora sconosciuto.

Tre nomine a incarico di reggenza, pochi responsabili dei servizi amministrativi

 


SCUOLA – ŠOLA 

Tre nomine a incarico di reggenza, pochi responsabili dei servizi amministrativi 

All’inizio dell’anno scolastico 2020-2021 

In vista dell’anno scolastico 2020-2021 cinque scuole con lingua d’insegnamento slovena in Friuli-Venezia Giulia hanno visto l’arrivo di un nuovo responsabile dei servizi amministrativi; per tre scuole prive di dirigente, invece, è stato nominato un incarico di reggenza. All’Istituto comprensivo di Aurisina-Nabrežina la funzione di dirigente sarà assunta da Carolina Visentin, che è già dirigente all’Istituto comprensivo Vladimir Bartol di Trieste-Trst. La reggenza dell’Istituto comprensivo con lingua d’insegnamento slovena di San Giacomo-Sveti Jakob va, invece, a Annamaria Zeriali, dall’anno scorso dirigente di ruolo all’Istituto comprensivo di Opicina-Opčine. All’Istituto comprensivo di Gorizia-Gorica la reggenza andrà a Mara Petaros, che dall’anno scorso è dirigente alla scuola secondaria di secondo grado Ivan Cankar. Al bando per dieci posti quale responsabile dei servizi amministrativi le prove di selezione sono state superate con successo da solo sette candidati, ma soltanto cinque si sono presentati al momento della scelta del posto di lavoro. Jakob Leopoli sarà responsabile dell’amministrazione al liceo Simon Gregorčič di Gorizia, Vesna Skrlj all’Istituto Vladimir Bartol di Trieste, Mara Bertocchi a San Dorligo della Valle-Dolina,Veronika Martelanc al liceo France Prešeren di Trieste, Igor Cerno alla scuola bilingue di San Pietro al Natisone-Špietar. Un responsabile dei servizi amministrativi manca alle scuole di Doberdò-Doberdob, all’Istituto comprensivo di Gorizia-Gorica, a Aurisina-Nabrežina, a San Giacomo-Sveti Jakob, all’Istituto Jožef Štefan e al liceo Anton Martin Slomšek. (Dal Primorski dnevnik del 30. 8. 2020)

INFO PREZZI CARBURANTE IN SLOVENIA


🚗
In Slovenia il prezzo del carburante è stato liberalizzato, quindi presso i vari distributori si possono trovare prezzi diversi. Come trovare il distributore più vicino con il prezzo più basso?
Semplice: basta andare sul sito www.goriva.si e nel campo "naslov / kraj" scrivere il nome del luogo desiderato. Infine cliccare su "Išči" (=cerca). Verranno visualizzati i distributori vicini con i relativi prezzi e gli orari di apertura.da fb

Riuniti nella fede per San Michele Arcangelo

 MONTEMAGGIORE/BREZJE Comunità raccolta in occasione della festa patronale nella chiesa del paese

Una comunità piccola riunita in una festa che a livello locale riveste grande significato domenica, 27 settembre, nella chiesa di Montemaggiore/Brezje di Taipana. Anche se in considerazione delle misure di prevenzione della diffusione della pandemia di Covid-19 non sono stati organizzati grandi festeggiamenti, la comunità si è in ogni caso riunita in chiesa per la Messa solenne, celebrata da don Roberto Borlini.

La festa patronale di San Michele è sempre stata centrale nella vita della comunità. Una volta veniva celebrata proprio nella ricorrenza del Santo, il 29 settembre. Donato Sturma, che ha quasi 71 anni e che a Montemaggiore ci è nato, ricorda ancora i festeggiamenti di un tempo. «La mattina squillavano le campane al mattino presto; la Messa era celebrata alle 10.00. Anche se allora non c’erano chioschi, veniva tanta gente. Si trattava di una festa religiosa che nel corso della giornata si trasformava in festa di paese, perché qui c’erano tre osterie e là la fisarmonica allietava tutti per l’intera giornata». In occasione della festa si usava mangiare un piatto particolarmente goloso, la polenta polita, che nei paesi vicini è chiamata anche

polenta nareta. Oggi Montemaggiore conta dieci abitanti, ma allora erano circa un centinaio. Donato abitava nel Borgo di sopra/Horenja uas. «Tra bambini e ragazzini eravamo una ventina e

venivamo giù in fila alla Messa ».

Gli fa eco Anita Tomasino, anche lei di 71 anni e di Montemaggiore: «Abbiamo fatto tutti la Comunione e la Cresima qui a Montemaggiore. In paese c’era anche la scuola. È rimasta attiva fino agli anni Sessanta; ora ospita un centro di accoglienza per i pellegrini lungo il Cammino celeste. Una volta era frequentata da così tanti bambini che erano divisi in due turni, uno al mattino e uno al pomeriggio. Altrimenti non ci sarebbero stati tutti, né c’erano banchi a sufficienza». Ma non solo. Una volta Montemaggiore aveva un proprio parroco, la latteria, dove gli abitanti portavano il latte che proveniva dalle loro stalle, e un negozio, spiega ancora Anita. «Nel secondo dopoguerra ci si arrangiava e si scambiavano generi alimentari e prodotti con i vicini d’oltreconfine. Loro fornivano più che altro carne, noi altri prodotti». Molto importante per la comunità di Montemaggiore era la località di Srednjebardo, più esposta al sole, dove si trascorreva l’inverno. L’insediamento in pietra ha subito forti danni dopo il terremoto del 1976.

Anche se gli abitanti sono pochi, a Montemaggiore è ancora parlato il locale dialetto sloveno, in chiesa a volte presente nel canto. «Qui in chiesa – spiega Anita – si cantavano diversi canti in sloveno, ancora conservato è soprattutto Čestito, eseguito in occasione

delle celebrazioni funebri. Qui in zona la tradizione del canto sloveno in chiesa è ancora abbastanza viva soprattutto a Platischis».

La celebrazione nella chiesa paesana.

La statua di San Michele.

Una casa tradizionale a Horenja uas.

dal Dom del 30 settembre