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RESTITUZIONE DEL NARODNI DOM ALLA COMUNITA' SLOVENA

 il Presidente della Repubblica Mattarella assieme al Presidente della Slovenia Borut Pahor il13 luglio 2020  restituiranno alla comunità slovena l'edificio, a 100 anni esatti dall'incendio.

Il Narodni dom (in slovenoCasa del popolo o Casa nazionale) di Trieste era la sede delle organizzazioni degli sloveni triestini, un edificio polifunzionale nel centro di Trieste, nel quale si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un caffè e un albergo (Hotel Balkan).
Fu incendiato dai fascisti il 13 luglio 1920, nel corso di quello che Renzo De Felice definì "il vero battesimo dello squadrismo organizzato".[1]

Costituzione della società Narodni dom

Nel 1900 si riunì il comitato promotore per la costituzione della società Narodni dom (Casa Nazionale). L'organismo - composto da note personalità del movimento nazionale degli sloveni di Trieste – verteva attorno alla società politica Edinost. Lo statuto venne approvato con decreto dell'Imperiale Regia Luogotenenza di Trieste in data 30 ottobre 1900. L'istituto di credito sloveno "Banca di risparmio e prestiti" di Trieste acquistò il terreno il 29 aprile 1901 per la costruzione dell'edificio del Narodni dom al n. 2 della piazza chiamata all'epoca Piazza Caserma, oggi Piazza Oberdan. Il 7 luglio 1901 si svolse nelle sale della "Sala di lettura Slovena" in via San Francesco 2 l'assemblea costitutiva della società "Casa Nazionale" - "Narodni dom".[2]

Storia

Nei primi dieci anni del Novecento, a causa dell'immigrazione da ogni parte dell'impero, la comunità slava (sloveni, croati, cechi) di Trieste era più che raddoppiata, passando da 25.000 a 57.000 abitanti nel comune (dal 15% al 25%) e da 6.500 a 22.000 nella città (dal 5% al 13%).[3] Le numerose società e organizzazioni slovene e di altri ceppi slavi videro quindi la necessità di costruire un edificio che potesse ospitare le loro attività: fu seguito l'esempio di altre città con presenza di forti minoranze slovene (come KlagenfurtMariborCelje e Gorizia) dove tra fine Ottocento e inizio Novecento furono costruite le cosiddette "Case del popolo" o "Case nazionali" per ospitare attività culturali (e talvolta, come a Gorizia, anche commerciali) slovene. Questi edifici, chiamati in sloveno Narodni dom, avevano assunto anche un forte valore simbolico, in quanto dovevano rappresentare un simbolo visivo della crescente potenza numerica, economica e culturale delle comunità urbane slovene. Per questa ragione furono costruiti anche in alcune città a maggioranza slovena e con amministrazioni slovene (come Novo Mesto e la stessa Lubiana). Nel comune di Trieste erano già presenti due Case nazionali slovene, una a Barcola e l'altra nel quartiere di San Giacomo.
La sede unica del Narodni dom di Trieste fu collocata nel 1907 all'interno dell'Hotel Balkan, un imponente edificio realizzato tra il 1901 e il 1904 secondo il progetto dell'architetto Max Fabiani. Si trattava, per l'epoca, di un edificio d'avanguardia, plurifunzionale e che, oltre ad un hotel, ospitava una sala teatrale, gli uffici per varie organizzazioni, banche e assicurazioni.[4][5]

L'incendio



Nella primavera e nell'estate del 1920, a più di un anno dalla fine della guerra, e dopo l'abbandono da parte italiana delle trattative di pace, le relazioni tra Regno d'Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni erano estremamente tese. La Venezia Giulia si trovava sotto amministrazione civile italiana provvisoria, mentre la parte della Dalmazia promessa all'Italia dal patto di Londra si trovava sotto amministrazione militare italiana. La questione di Fiume era ancora aperta e le trattative tra i due Stati procedevano in un clima di veti e minacce reciproche.[6] A Trieste era da poco diventato segretario cittadino del Partito Fascista il toscano Francesco Giunta, che nel giro di pochi mesi avrebbe cambiato le sorti del movimento fascista giuliano, portandolo a conquistare l'egemonia nella vita politica cittadina. A seguito dell'uccisione di due marinai italiani[7][8] a Spalato nel corso di uno scontro fra militari italiani e nazionalisti jugoslavi mai perfettamente chiarito durante il quale era stato ucciso anche un civile croato,[9] Francesco Giunta convocò un comizio nel tardo pomeriggio del 13 luglio 1920 in piazza dell'Unità. Nel memorandum presentato il 1º settembre dalla società politica slovena Edinost al Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Giolitti, si legge: «Il giorno 13 luglio 1920 i giornali nazionalisti triestini Il PiccoloL'Era Nuova e La Nazione riportavano un proclama del Fascio Triestino di Combattimento dove si invitava la popolazione per le ore 18 ad un comizio in Piazza dell'Unità esortandola ad una energica reazione ai fatti di Spalato col motto che "è finito il tempo del buon Italiano"»[10]. La questura prevedeva che nel pomeriggio probabilmente ci sarebbero stati dei disordini, e predispose ingenti misure di protezione delle associazioni politiche, culturali ed economiche slave di Trieste.[11]...

Slavia: la discesa degli Slavi in Italia, dalla Puglia al Friuli


La presenza di popolazioni slave in Italia non è recente, esse sono parte integrante del nostro paese da secoli, giunte sulla scorta delle grandi migrazioni che nel VII secolo le portarono dalla Polonia e dalla Germania fino ai Balcani. La direttrici della penetrazione slava in Italia sono due, una marittima (dall’Egeo alla Puglia e alla Sicilia) e una terrestre, dall’attuale Slovenia al Friuli e al Veneto.
Gli slavi in sud Italia
Risale al 926 un documento che attesta con l’appellativo di župan (vale a dire “signore”, in serbo) il reggente della città di Vieste. A Palermo, fino al 1090, quando ebbe termine la dominazione araba sull’isola, esisteva una “via slava”, a render conto della presenza di quella comunità in città. Già nel VII secolo si assistette a migrazioni dalla Dalmazia, sovente associate ad atti pirateschi, e di proto-bulgari nelle Marche. Tuttavia la presenza slava nell’Italia meridionale non è stata durevole essendo legata alle fortune degli stati slavi balcanici e in particolare alla Repubblica di Ragusa, la “quinta repubblica marinara”, la cui influenza commerciale si estendeva dalla Dalmazia alla Puglia alla Sicilia.
La “slavia” friulana
Destinata a lasciare un segno duraturo è invece stata la migrazione degli slavi nell’Italia settentrionale, in Friuli e Veneto. È probabile che il loro arrivo in Italia abbia seguito la rotta tracciata dai Longobardi i quali, nella loro spinta verso occidente, lasciarono libere alcune regioni orientali che gli slavi ripopolarono complice anche la fuga della popolazione autoctona. Si stanziarono così nell’attuale Friuli e nel Veneto, lungo il corso del fiume Natisone che collegava Aquileia, sede di un importante patriarcato, all’Europa centrale.
La prima attestazione certa della presenza slava in Italia è fornita dall’Historia Langobardorum di Paolo Diacono che narra della battaglia di Broxas (oggi Porta Brossana, presso Cividale del Friuli). Qui, nel 664 circa, le popolazioni slave stanziate nei territori circostanti tentarono la conquista di Cividale approfittando dell’assenza del duca longobardo Vetteri. Paolo Diacono ricostruisce la vicenda che portò alla battaglia e alla sconfitta degli slavi i quali, in massima parte, fuggirono nelle valli da cui erano discesi. Al di là del fatto storico, la testimonianza di Paolo Diacono ci consente di datare la presenza slava in Italia. La popolazione slava non lasciò traccia di una cultura propria avendo probabilmente abbracciato fin da subito la religione cristiana ed essendosi assimilati alla popolazione locale. Se così fosse, gli slavi italiani sarebbero stati i primi a convertirsi al cristianesimo. Solo la lingua rimase, non sappiamo in che misura, elemento distintivo delle comunità slave.
Altri insediamenti slavi vennero favoriti, nel X secolo, dal patriarcato di Aquileia che aveva necessità di ripopolare le proprie terre a seguito delle invasioni ungare. Fu così che genti slave furono invitate a stanziarsi nelle valli del Torre e dello Judrio e nella val di Resia. Il relativo isolamento e la distanza dalle altre terre slave portò questi nuovi immigrati a una rapida assimilazione. Al secolo XI risale invece la presenza slava nel Collio dove, grazie al diretto contatto con le popolazioni slave stanziate nell’attuale Slovenia, gli slavi riuscirono a mantenere una propria identità linguistica e culturale.
Gli slavi ai tempi delle Serenissima
La presenza slava doveva comunque essere numericamente consistente se, allorché la regione fu conquistata dalla Repubblica di Venezia, fu concesso agli “schiavoni” un particolare statuto civile che li esentava dagli obblighi militari e accordava privilegi fiscali e amministrativi. È possibile che il termine “schiavone”, che come sappiamo divenne un etnonimo diffuso per definire le genti slave, avesse un’accezione estensiva e si applicasse anche a coloro che non erano slavi. Durante la Serenissima la presenza slava in Veneto e Friuli fu favorita dai commerci che collegavano le coste della Dalmazia, Venezia e Padova. Toponimi che ricordano la presenza slava sono diffusi in tutto il Veneto ma non tutti sono da ricondurre alla presenza di genti slave: le “porte schiavone” che restano nella toponimia locale erano spesso i luoghi del commercio degli schiavi che, nel basso Medioevo, erano in buona misura slavi fatti prigionieri nell’Egeo, in Grecia e nei Balcani.
Gli slavi friulani, sloveni o beneciani?
La sorte della “slavia” italiana seguì quella della Serenissima e, nel 1797, con il passaggio della Repubblica di Venezia all’Impero asburgico, gli slavi si trovarono a far parte di un “commonwealth” che comprendeva altre nazioni slave. Venne così l’età dei Risorgimenti, quello italiano ma anche quello sloveno, croato e serbo. Le nazioni slave riscoprivano la propria storia e rivendicavano l’indipendenza dai grandi imperi. In Slovenia, e non senza difficoltà, si affermò un modello linguistico ed estetico che portò alla prima codificazione dello sloveno. Nel 1808, anche grazie all’occupazione delle truppe napoleoniche, a Lubiana venne data alle stampe la prima grammatica slovena e accanto alle istanze culturali procedono quelle politiche. Sarà solo con la fine della Prima guerra mondiale e la caduta dell’Impero austro-ungarico, che gli sloveni troveranno una via per l’indipendenza entrando a far parte del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, nucleo della futura Jugoslavia.
La nuova mappa del mondo lasciava però il 30% della popolazione slovena al di fuori dei confini del nuovo stato. Quelli residenti nei territori giuliani, friulani e veneti passarono allo stato italiano. Resta tuttavia controverso se quelli della “slavia” italiana siano da considerarsi sloveni oppure se si tratti di un gruppo autonomo, che con le vicende slovene ha poco a che spartire. In soccorso ci vengono i linguisti che, attraverso il metodo comparativo, hanno stabilito che la lingua slava parlata ancora oggi nella “slavia” italiana sia una variante dello sloveno e non una lingua slava evolutasi in modo indipendente dalla comune lingua protoslava. E così è venuta la recente legge di tutela della minoranza slovena in Italia (l. 38/01) che ne ha riconosciuto la presenza storica e i diritti fondamentali. Resta tuttavia chi si oppone a questo tipo di lettura e rivendica l’antichità dello “slavo del Natisone” e ritiene che gli slavi italiani non siano sloveni, da qui l’invenzione del nome “beneciani” per distinguerli dai cugini sloveni. “Beneciano” è un termine che deriva dallo slavo “Benečija”, ovvero Veneziaslavi veneziani, quindi.
Una convivenza da riscoprire
Le relazioni tra comunità slava e italiana non sono sempre state pacifiche. Le persecuzioni antislave operate dal fascismo, la vendetta delle foibe, e le tragedie della Seconda guerra mondiale hanno tracciato un solco profondo tra le due comunità. La presenza slava in Friuli e nell’area giuliana fu occasione per rivendicare alla Jugoslavia quelle terre e durante la guerra partigiana non mancarono atrocità come quella, nota, di Porzûs. Ancora oggi la memoria su quei fatti è oggetto di divisioni e strumentalizzazioni politiche. Tuttavia la presenza slava in Italia è millenaria ed è sempre stata una convivenza pacifica, riscoprirla nella sue radici può forse aiutare a superare i traumi più recenti.

In Paradiso con i porcini al rosmarino

da vita nei Campi fb
di Roberto Zottar
È arrivato il caldo e, dopo le abbondanti piogge, sono apparsi sui nostri mercati i primi porcini. Il Boletus edulis è da sempre un grande protagonista in cucina sia cotto, sia crudo o essiccato. Il suo habitat sono i boschi di abeti, querce, castagni e faggi e il suo cappello può avere varie tonalità di color castagna. Gli intenditori suggeriscono di non lavare mai i funghi, limitandosi a ripulirli dal terriccio, ma io...
Altro...




Associazione/Združenje Don Mario Cernet Val Canale

La scorsa settimana anche noi dell'Associazione/Združenje Don Mario Cernet abbiamo collaborato al festival Nanovalbruna; questa settimana abbiamo per voi una nuova canzoncina.😎
Come le precedenti, anche questa è stata pubblicata nel locale dialetto sloveno zegliano, in sloveno letterario e in italiano sul nostro libretto «Jezək - karanina naše kulture/Jezik - korenina naše kulture/La lingua - la radice della nostra cultura» (2018).







A Castelmonte lo sloveno è benvenuto

A Castelmonte/Stara gora/Madone di Mont la pandemia di Covid-19 ha sensibilmente ridotto il flusso di pellegrini, ma la situazione è in evoluzione continua. A dirlo è padre Gianantonio Campagnolo, che al santuario della Beata Vergine di Castelmonte è rettore da tre anni. Originario della provincia di Vicenza, è giunto al borgo mariano di Prepotto dopo avere conseguito la laurea in pedagogia a Bologna e un’esperienza pregressa al santuario come diacono. A 27 anni, infatti, vi aveva già prestato servizio per sette mesi, da animatore liturgico.
Castelmonte esce da un periodo difficile. Il nuovo coronavirus ha colpito particolarmente il borgo e la comunità dei frati. Come avete vissuto il periodo della pandemia al santuario?
«È stato uno shock. Nessuno di noi si aspettava una prova così importante e inedita. Noi che amiamo la vita comunitaria e abbiamo scelto di vivere insieme, siamo stati costretti a vivere da reclusi. Appena compreso che il rischio era alto, abbiamo subito cominciato a stare attenti e lontani l’uno dall’altro; coi primi sintomi abbiamo iniziato a stare in camera anche per pregare. È stato un rovesciamento della nostra scelta di vita, ovviamente dettato dall’urgenza sanitaria ».
Con l’allentamento delle misure restrittive, pur con le dovute precauzioni sono ripresi la celebrazione dei riti religiosi e i pellegrinaggi. Quali modalità seguite a Castelmonte?
«Ci atteniamo alle regole della Conferenza episcopale italiana e alle disposizioni dell’arcivescovo di Udine. Anzitutto sono state sanificate la chiesa, con la navata principale e i transetti, e la cripta, dove si scende per visitare gli ex voto o accendere un cero alla Beata Vergine Maria. L’intervento è avvenuto col contributo della sindaco di Prepotto, Mariaclara Forti, che ha seguito i rapporti con il reparto dell’esercito presente a Remanzacco e la Protezione civile. Sono stati sanificati anche i luoghi del borgo che potevano essere “contaminati’’. Va detto che da diversi giorni non frequentavamo più la chiesa, con un conseguente probabile decadimento della viralità. Al momento in chiesa e nella cripta, dotati di percorso d’entrata e d’uscita, sono ammessi al massimo 130 fedeli in totale, ovviamente tutti con la mascherina e distanziati di almeno un metro. Alle porte della chiesa c’è il liquido igienizzante, che ogni fedele è tenuto ad usare prima di sedere sul banco; su ogni banco può sedere un solo fedele. Nel momento dell’Eucarestia i fedeli si dispongono in fila unica centrale, sempre mantenendo un metro di distanza l’uno dall’altro. Una volta davanti al sacerdote ricevono sulle mani l’Eucarestia, che consumano davanti al ministro. Per la riconciliazione abbiamo dovuto chiudere i confessionali, visto che gli attuali non garantiscono distanziamento sociale e ossigenazione adeguati. Ne sono attivi solo due, uno nella sala del rosario e uno nella sala di San Francesco, di fronte all’entrata del santuario. Naturalmente sacerdote e fedele penitente entrano con la mascherina; dopo ogni confessione il sacerdote ha il proprio prodotto igienizzante e pulisce la sedia e i luoghi toccati dal fedele».
Sono in programma eventi particolari per il periodo estivo?
«Navighiamo a vista. Sabato, 4 luglio, giungerà in pellegrinaggio l’arcivescovo di Udine, Andrea Bruno Mazzocato, coi seminaristi diocesani. Sarà un momento per stare insieme e pregare per le nostre diocesi e le vocazioni, dopodiché non abbiamo un grosso numero di pellegrinaggi. La maggior parte dei pellegrinaggi programmati è stata disdetta. Il motivo è dato dall’assenza dei pullman, che per ora non possono essere usati. I parroci, così, si trovano in difficoltà nell’organizzare pellegrinaggi. A ogni modo confidiamo in un’evoluzione positiva della pandemia, che permetta un allentamento delle misure di prevenzione e l’arrivo dei pullman. Ai pellegrinaggi comunitari la potenza della preghiera ha un sapore diverso».
Castelmonte è situato nel comune trilingue di Prepotto, dove si parlano italiano, friulano e sloveno. Per secoli il clero proveniente dalla Slavia vi ha prestato servizio per le necessità dei fedeli che non provenivano solo dalla pianura friulana, ma anche dalle zone della Slavia e dell’odierna Slovenia, in cui si parlano sloveno e sue varianti. Come sono presenti le diverse lingue al santuario?
«C’è una presenza di sloveni che giunge a Castelmonte, ultimamente molto ridotta per la chiusura dei confini a causa della pandemia, durata circa tre mesi. Paradossalmente al momento salgono a Castelmonte più austriaci e tedeschi. Tuttavia rimane uno zoccolo duro sloveno, composto soprattutto da chi parla sloveno nella circostante Slavia friulana. Questi fedeli, che sono saliti anche di recente, vengono e cantano le litanie in sloveno, anche nei giorni feriali. A livello generale, comunque, il flusso complessivo di pellegrini è ridotto. Piano piano siamo in ripresa, ma il calo è di circa il 60%, anche perché c’è tanta paura».
Nei mesi scorsi sul territorio comunale di Prepotto all’ingresso dei paesi sono stati installati cartelli toponomastici in italiano e sloveno nelle frazioni della Val Judrio e in italiano e friulano nelle frazioni di pianura. Castelmonte, come Cialla/Çale/Čela e altre località cui è storicamente legato, si trova al crocevia spirituale del trilinguismo del territorio. Cartelli toponomastici riportanti Castelmonte/Stara gora/Madone di Mont renderebbero meglio l’idea di un intreccio culturale vissuto nel quotidiano?
«Il 40-50% dei fedeli in salita al santuario proviene dal Veneto, ma una parte della popolazione qui a Castelmonte e nelle frazioni limitrofe parla le lingue del territorio. Noi rispettiamo il passato e se si tratta di un bel segno per dare voce al legame storico di Castelmonte con le lingue slovena e friulana, ben venga. Tra l’altro, qualche tempo fa la responsabile del coro di Cosizza ha chiesto informazioni circa la possibilità di celebrare la Santa Messa in sloveno e questo mi fa piacere. Siamo aperti alla possibilità. Bella la proposta di una celebrazione eucaristica annuale in lingua slovena».
Quanto è consistente il flusso di pellegrini e visitatori dalla Slavia e dalla Slovenia?
«Da tre anni assistiamo a un calo di pellegrini a livello generale, che coinvolge anche le zone circostanti, territorio di riferimento del santuario, compreso Prepotto. Credo, comunque, che il fenomeno vada contestualizzato in un quadro più ampio. Stiamo vivendo un momento di forte secolarizzazione, tra l’altro con un calo di vocazioni sacerdotali. Ogni tanto rileggo i numeri del bollettino del santuario di venti o venticinque anni fa – e il tenore spirituale era certamente molto più forte. Il fenomeno di secolarizzazione ha coinvolto anche la Slavia friulana con la Val Judrio. Anche da qui, ad esempio, salgono pochi giovani; ne giungono di più da Udine e dalla Bassa friulana».
Che legame intrattengono il santuario di Castelmonte e la Val Judrio?
«Soprattutto un legame di tipo pastorale. I superiori continuano a credere che il servizio parrocchiale completi il servizio religioso nel santuario, che appartiene all’arcidiocesi di Udine. Noi Frati cappuccini siamo qui dal 1913; da circa trent’anni curiamo anche il servizio alla parrocchia di Prepotto. Il legame con la Val Judrio passa soprattutto attraverso il servizio pastorale alla parrocchia, ora svolto da padre Andrea Cereser. A Cialla, Codromaz, Cladrecis, Berda e in tutti i paesi della vallata curiamo la visita agli anziani e celebriamo i sacramenti». (Luciano Lister)

https://www.dom.it/na-stari-gori-je-slovenscina-dobrodosla_a-castelmonte-lo-sloveno-e-benvenuto/
SLAVIA – BENEČIJA 

Primi in regione, i sindaci del nuovo ente hanno approvato il documento costitutivo

Nome e statuto trilingue alla Comunità della montagna Natisone-Torre
Primi in regione, i sindaci del nuovo ente hanno approvato il documento costitutivo Lo statuto della nuova Comunità della montagna Natisone-Torre, adottato all’unanimità, lo scorso 18 giugno a Tarcento dall’assemblea dei sindaci, sarà trilingue come il nome del nuovo ente locale. Una decisione naturale, considerato che tutti i quindici Comuni aderenti fanno parte dell’ambito di tutela della lingua slovena o di quella friulana, alcuni di entrambi. Quella della Benecia è la prima Comunità ad avere approvato lo statuto. La sede legale sarà fissata a Tarcento, mentre a San Pietro al Natisone ci sarà una sede operativa. «Da qui prende avvio un nuovo percorso a tappe che attua la riforma delle autonomie locali con l’obiettivo di dare maggiore efficienza, immediatezza di risposta e migliori servizi ai cittadini», ha commentato l’assessore regionale alle Autonomie locali, Pierpaolo Roberti, invitato dai sindaci a prendere parte alla seduta. «Ci tenevo molto ad essere presente – ha sottolineato Roberti – perché il grande anticipo con cui questa comunità si costituisce dimostra che le scelte fatte non hanno comportato lacerazioni sul territorio. La comunità della montagna è obbligatoria a norma di legge, ma evidentemente esprime una necessità sentita dagli amministratori». «È importante ora che l’ente si strutturi e in questo la Regione sarà al fianco dei Comuni per superare eventuali criticità», ha detto ancora Roberti, ricordando che l’amministrazione regionale continua a cedere spazi assunzionali ai Comuni. In particolare, sono stati accantonati 2,4 milioni per consentire nuove assunzioni .
da slovit

SLAVIA: Un unico popolo e un’unica lingua, alle origini degli slavi


di Matteo Zola
Da dove vengono gli slavi? Quale fu il loro spazio originario? Sono interrogativi senza risposta. Sappiamo che appartengono al grande ceppo indoeuropeo, e sappiamo che giunsero alle porte d’Europa tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo. Cosa fu di loro prima di allora lo si può a malapena dedurre dai ritrovamenti archeologici che ne mostrano la progressiva “iranizzazione” (non pensate all’odierno Iran, che pure non sarebbe così sbagliato, ma a sarmati, sciti, alani, popolazioni indoeuropee – come gli iraniani di oggi – che occuparono l’area della moderna Persia). Dalle popolazioni iraniche apprenderanno anzitutto la coltivazione della terra e la cremazione dei morti, tratti salienti della cultura slava fino alla conversione al Cristianesimo avvenuta, più o meno, intorno all’anno Mille.
Quando arrivano alle porte d’Europa gli slavi hanno una cultura definita, una propria produzione artigianale e una forte connotazione agricola. Non hanno scrittura (non l’avranno fino al nono secolo dopo Cristo) ma parlano la stessa lingua, lo “slavo comune“. Si stanziano nel bacino del Pripjat, tra i fiume Dnestr e Dnepr, o almeno così si crede. A spingerli in quelle terre, a cavallo tra le moderne Ucraina e Bielorussia, è la spinta di altri popoli che premono verso ovest. E’ infatti quella l’età delle grandi migrazioni.
Lo “slavo comune”
La lingua originaria degli slavi è oggi deducibile grazie alla filologia, esistono infatti molte parole comuni nelle moderne lingue slave grazie a cui è stato possibile stabilire quale fosse il “proto-slavo”, detto anche “slavo comune”, da non confondersi con il “paleoslavo”, di cui parleremo in futuro, che è stata la prima lingua letteraria. Lo “slavo comune” andò differenziandosi via via che le tribù slave si allontanavano tra loro, nello spazio e nel tempo, dopo aver lasciato la “culla” originaria nel bacino del Pripjat. Cosa fu a dividerle? La spinta di altre popolazioni provenienti da oriente, come gli unni e gli avari, frantumarono l’unità slava costringendo le tribù a disperdersi. Queste, nella loro diaspora, arriveranno a occupare uno spazio immenso che va dal Baltico al Mar Nero. L’uniformità linguistica ha retto fino al nono secolo, pur deteriorandosi rapidamente dal sesto secolo in poi. Ne sono nate una dozzina di lingue tra loro collegate da molti dialetti. Oggi, da Mosca a Praga a Skopje, la differenza non è così grande come sembra e sono ancora circa millesettecento le parole comuni.
La differenziazione è stata progressiva, tuttavia è stata più marcata dove la continuità tra genti slave è stata spezzata. Ad esempio gli slavi che, dalla “culla” originaria, si diressero verso ovest, si trovarono a un certo punto separati dagli slavi del sud a causa della presenza germanica e magiara. Le lingue slave si dividono oggi in tre gruppi che raccolgono lingue tra loro simili:
- lingue slave occidentali: polacco, ceco, slovacco, sorabo e casciubo
- lingue slave orientali: russo, bielorusso, ucraino
- lingue slave meridionali: sloveno, macedone, serbocroato e bulgaro (sul serbocroato, che tante questioni ha sollevato dopo la fine delle guerre jugoslave, si legga qui)
Il vocabolario comune
Dal vocabolario comune possiamo comprendere quali fossero le conoscenze tecniche degli slavi e come fosse il loro ambiente originario: descrivevano l’ambiente circostante con termini specifici per l’elemento acquatico (fiume, torrente, lago, mare ma anche palude, fango, acquitrino, ghiaccio). Conoscevano le stagioni, segno che vivevano in una zona temperata, e sapevano definire il tempo. Fanno pare del vocabolario comune il miglio, l’orzo, l’avena, la canapa e il lino, e usavano l’aratro, la vanga, il rastrello, il falcetto e la zappa. Conoscevano l’albero del melo ma non il faggio, cui diedero nome solo dopo essere migrati verso le terre dei germani (lo chiameranno “buk”, dal tedesco “buche”). Il loro mondo spirituale era fatto di divinità legate alla terra, alla guerra, ma anche a virtù morali (come amore, odio, giustizia, vendetta, bene e male, saggezza e castigo) che avevano sviluppato ben prima dell’incontro con il Cristianesimo. Ma è nella definizione delle strutture famigliari che raggiungono livelli tali da superare i germani, segno dell’importanza e della complessità dei rapporti sociali. I termini per descrivere queste realtà restano ancora oggi comuni ai popoli slavi.
La radice indoeuropea
Anche se i nazisti sostenevano il contrario, gli slavi sono indoeuropei (indogermanici o indoariani, come dicevano a Berlino). Questo si riscontra proprio nel vocabolario famigliare: mat, in russo, e mati in ucraino, ceco, serbocroato, bulgaro e sloveno, sono l’equivalente del latino mater e del tedesco mutter. Nel russo e nel bulgaro il termine sestra corrisponde al latino soror, quindi sorellasoeursister. Lo stesso vale per il russo brat, che è brother in inglese e frater in latino. La casa è dom in molte lingue slave, come in latino è domus, ed evidente è la comune origine del latino mare e dello slavo more. Interessante, in ambito tecnico, la parola kamen, che in slavo vuol dire pietra ma la cui radice “kam” è da accomunare alla radice germanica “ham“, che in inglese dà “hammer” (martello, che è fatto di pietra) e l’islandese hamarr conserva il significato originario di “roccia”.
Lo spazio slavo originario resta tuttavia difficile da definire e proprio per questo si è spesso prestato ad essere immaginato. E’ anzitutto uno spazio psicologico, un luogo vasto e perduto cui riandare nei momenti di difficoltà, quando l’identità delle nazioni slave è oppressa. Un’identità tuttavia forte, la cui specificità si è mantenuta grazie al relativo isolamento in cui gli slavi si sono trovati tra il 1000 a.C. e il 500 d.C.. Da quel momento in poi inizierà la storia degli slavi per come oggi la conosciamo. Una storia europea che vi racconteremo nelle prossime puntate.

(immagine Wikipedia: le lingue slave oggi)

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