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Il Matajur

Quando sento la parola Matajur il mio cuore comincia a sussultare:mi ricorda il giornale Matajur diretto per 23 anni dai miei genitori e il Novi Matajur il suo successore.
Il Matajur (Matajûr in friulano, è una montagna delle Prealpi Giulie alta 1.641 m s.l.m. che si trova nella parte orientale del Friuli, sovrastando la città di Cividale.

Storia

Si ritiene che il Matajur fu scalato dal re longobardo Alboino quando, giunto in prossimità dell'Italia, lo risalì per ammirare le fertili pianure friulane che stava per invadere.
L'altura del Matajur, nel corso della prima guerra mondiale, fece parte dell'ultima linea di difesa italiana approntata dalla 2ª Armata per la protezione della pianura friulana in caso di sfondamento dei reparti combattenti nelle posizioni avanzate. Il monte passò alla storia in quanto, nel corso della battaglia di Caporetto, il tenente Rommel, il futuro feldmaresciallo, ne conquistò la cima.
Il 24 ottobre 1917, dopo un lungo bombardamento, il tenente Rommel, a capo di sei compagnie tedesche, lanciò una veloce offensiva, con la tattica dell'attacco a sorpresa, sul Colovrat e in breve tempo ne conquistò le cime. Invase quindi la vallata di Savogna ed attaccò il Matajur, difeso dalla Brigata Salerno.
Dopo 52 ore di marce sfibranti ed audaci combattimenti, ne conquistò la vetta facendo quasi 9000 prigionieri ed un enorme bottino di materiale bellico. L'avanzata del tenente Rommel fu uno dei più importanti episodi della battaglia di Caporetto perché fu determinante per la tragica ritirata italiana. Dal Matajur, Rommel proseguì, attraverso Longarone, la sua veloce avanzata fino al fiume Piave.

Toponimo


Le Prealpi Giulie con il Matajur

Il Matajur visto dalla Slovenia

Vista della pianura friulana dal Rifugio Pelizzo

Il monte Matajur visto da Cividale del Friuli

L'osservatorio del monte Matajur

Immagine della vecchia cappella del Matajur

Monte Matajur dai Colli Orientali del Friuli
Il toponimo Matajur compare negli scritti e sulla carte geografiche solamente nel secolo XVIII. Il nome ha origine da Mont Major (Monte Maggiore di Cividale) che, nel tempo, è mutato in Mot Major, Mat Major, Matajor e, infine, Matajur. La popolazione locale lo chiama anche (Velika) Baba, che sta ad indicare una vetta rocciosa isolata, o, solo dal XX secolo, Kalona con riferimento all'obelisco eretto a fianco della cappella del Cristo Redentore e distrutto, come indicato in seguito, nel corso della prima guerra mondiale.

Geografia

Il monte, nonostante la limitata altezza, è facilmente individuabile dalla pianura friulana per la sua caratteristica forma conica ed è il rilievo più rappresentativo ed il simbolo delle Valli del Natisone.
Il periodo di formazione del monte non è precisamente databile in quanto risulta composto, per lo più, da materiale sedimentario dei periodi compresi tra il giurassico ed il cretacico superiore]. Sondaggi effettuati sui versanti del monte hanno portato all'individuazione di tracce di oro con zinco, argento e mercurio nativo.
La salita al monte, che è rivestito fino alla vetta da boschi o prati, non presenta particolare difficoltà per la scarsa pendenza dei fianchi. Il modo più breve e semplice per raggiungere la vetta è quello di iniziare la salita partendo dal rifugio Guglielmo Pelizzo, che è raggiungibile in auto con una comoda strada asfaltata. Come alternativa si può partire dalla frazione di Mersino da dove mulattiere e sentieri, che attraversano boschi e prati dove crescono narcisi, crochi, fragole, lamponi e mirtilli, portano, in circa un'ora e mezzo e senza difficoltà, alla meta.
Sulla cima del monte spicca la chiesetta del Cristo Redentore, costruita sulle macerie della cappella inaugurata nel 1901 per ricordare i diciannove secoli dalla Redenzione e colpita prima da un fulmine e quindi distrutta dalle vicende belliche legate alla battaglia di Caporetto.
Dalla cima si può osservare un panorama che spazia dal Carso, all'Istria, alla laguna di Grado e alle cime del Canin, del Mangart, del Tricorno, del Monte Nero e delle Dolomiti. Nelle giornate particolarmente terse è visibile Venezia e si possono avvistare i Colli Euganei
Dai fianchi del monte sgorgano le acque delle sorgenti e dei torrentelli che ingrossano il fiume Natisone e, nella vallata di Savogna, le acque del torrente Alberone e dei suoi affluenti di destra.
Nel versante sud, nei pressi della fonte Skrila, da cui nasce l'Alberone, sono presenti delle interessanti conformazioni carsiche, i campi solcati, alla base dei quali ci sono delle brevi pareti (10–12 m) su cui è possibile arrampicare, una sorta di palestra di roccia naturale.
Nella zona del monte Matajur, ed in special modo nella valle di Savogna, sono presenti un numero notevole di cavità e di grotte tra le quali occorre ricordare la voragine di Cerconizza, la Ta Pot Čelan Jama, la Velika Jama, la grotta Klančina di Mersino Alto, la Sesna Jama di Mersino, la Casera Glava di Masseris e la grotta di Jeronizza.
La cima del monte è stata, fin da tempi remoti, terra di confine: dapprima con l'Austria, poi con la Jugoslavia e, oggigiorno, con la repubblica di Slovenia.
Ai piedi del versante settentrionale del Matajur scorre la Strada statale 54 del Friuli, che è la via di comunicazione più agevole tra l'Italia e la Slovenia per chi deve accedere al tratto medio dell'Isonzo.

Flora

Nella zona montagnosa del Matajur crescono circa 619 specie di piante vascolari; le sue pendici esercitano un grande interesse per gli studiosi della flora delle Prealpi italiane perché, per la sua posizione orografica tra la pianura friulana a la catena alpina retrostante, offre la presenza di una grande varietà (e anche qualche rarità) di piante.
Il monte è coperto da vegetazione fino sulla vetta dove crescono piante officinali quali l'assenzio.
Nelle quote più basse si possono trovare la stellina odorosa o asperula, il tarassaco, la valeriana, la campanula carnica, il geranio sanguigno, il geranio odoroso, l'aconito napello, la campanula thyrsoides thyrsoides e thyrsoides carnicola, la euonymus verrucosa o berretta del prete.
Salendo di quota, nel sottobosco si possono osservare l'anemone trifolia, la dentaria cardamine, la paris quadrifolia, l'aposseris foetida, la saxifraga rotundifolia.
Oltre al limite dell'estensione boschiva crescono la sexifraga petraea, l'aconitum angustifolium, la sedum roseum, la pulsatilla montana, il rododendro, il botton d'oro. In quota si possono trovare il narciso, l'asfodelo, la centaurea, il giglio arancione della Carnia o lilium carnicum, la genziana maggiore, la genziana minore.
Per quanto attiene le specie arboree, il lavoro dell'uomo ha favorito, nella parte inferiore del monte, la coltivazione di meliperi e castagni e, a quote superiori, la crescita di boschi di conifere e latifoglie.
Crescono spontaneamente, invece, macchie di faggi, di betulle, di maggiociondolo, di larici e ontani verdi.

Fauna

Sul Matajur è possibile osservare diversi animali selvatici; tra i mammiferi e gli uccelli maggiori sono comuni caprioli, cervi, lepri, volpi, cinghiali, corvi imperiali, poiane, galli forcelli e galli cedroni. Le marmotte erano state introdotte nelle rocce carsiche adiacenti alle malghe di Mersino, ma dopo alcuni anni sono scomparse. Sono inoltre di passaggio in alcune stagioni dell'anno grifoni e aquile. Ci sono stati anche rari avvistamenti diretti o indiretti (tracce, feci, carcasse ecc.) di orsi e di sciacalli dorati.
 continua qui https://it.wikipedia.org/wiki/Matajur

E'successo in Friuli

Hanno indossato le magliette con slogan che inneggiano allo stupro, al razzismo e all'antisemitismo. Poi si sono fatti scattare una foto tutti in fila e l'hanno pubblicato sui social. Per questo motivo la Questura di Udine ha deciso di chiudere per 15 giorni il Jonny Luanie, il ristorante di San Daniele dove il gruppo di giovani friulani si è presentato con le magliette incriminate e si è fatto scattare le foto. Il provvedimento arriva pochi giorni dopo la chiusura della discoteca Kursaal di Lignano(qui i ragazzi avevano prenotato il tavolo con il nominativo "Centro Stupri").
Testo alternativo

LE STELLE ALPINE




Negli anni 195O/1960 non so se qualcuno si ricorda ,le strade della Benecia (Slavia veneta) erano "abbellite"da cartelli in cui era scritto:"Vietato fotografare". A chi contravveniva a questo divieto venivano sequestrate e distrutte le foto e pagava un'ammenda. Tutto ciò era giustificato da motivi militari,per tutelare i confini.
Io facevo le scuole elementari e non avevo mai raccolto le stelle alpine,a quei tempi non era flora protetta.
Mio padre che conosceva molto bene la Val Torre ,su mia insistenza, un giorno di settembre mi portò in montagna per ammirare ed eventualmente cogliere stelle alpine.Mi portò veramente ,perchè gran parte del tragitto lo feci sulla sua schiena.Mi ricordo che c'erano bellissimi prati,galli cedroni , pernici ed altri uccelli. Trovammo le stelle alpine che immortalammo in belle foto che io non vidi mai.
Scesi a valle salimmo in auto e dopo un po' ci fermarono i Carabinieri che chiesero i documenti ed ispezionarono l'automobile.Sequestrarono il rullino della macchina fotografica ed il fatto seguì il suo iter.Dopo un po' di mesi arrivò la notifica:condannato a pagare 5.934 L. che per quegli anni era una bella cifra.Non c'erano segreti militari nelle foto,ma solo una bambina coi fiori,ma la legge era la legge ed andava rispettata.Fu un episodio che non scorderò mai!




GIAN PAOLO GRI
"Vietato fotografare"
Negli anni Sessanta le strade del Friuli erano ancora accompagnate da minacciosi avvisi "Vietato fotografare". Alle servitù e ai cartelli materiali giustificati da presunte ragioni militari si aggiungevano divieti mentali non meno pervasivi, a tutela di confini guardiati con anche maggior cura. C'era un Friuli che non doveva essere mostrato: soggetti tabù, immagini da non divulgare, aspetti che era meglio nascondere sotto le pieghe. Resta esemplare la reazione del Messaggero Veneto al manifesto del "Gruppo friulano per una nuova fotografia", diffuso il 1 dicembre 1955 dai giovani spilimberghesi desiderosi di importare qui, in un Friuli provinciale e conformista, la lezione di "una fotografia asciutta", che andasse "diritta al nome delle cose". Arturo Manzano, autorevole critico d'arte, certo del plauso dei lettori, poteva ironizzare con titolo e sottotitolo: "Infelice annuncio dell'avvento di una "nuova fotografia". La presunzione al posto della conoscenza dei fatti e del doveroso rispetto delle persone".
I cartelli, quelli materiali e gli altri, pesavano soprattutto sul Friuli marginale; e come negli anni Cinquanta ci fu la protesta benpensante e cittadina contro le immagini "asciutte" che svelavano le valli prealpine del Friuli occidentale, così una decina di anni dopo toccò alle immagini delle Valli del Natisone di Riccardo Toffoletti. I due contesti erano egualmente problematici, antropologicamente "densi" per le caratteristiche di diversità e specificità, segnati da una condizione strutturale - economica e demografica - che li faceva pensare giunti al capolinea, in attesa del colpo finale.
Invece sono ancora là. Restano contesti non meno problematici di allora, così che la riproposta di immagini di quattro decenni fa non ha nulla di nostalgico o di artificioso; ma alle vecchie questioni non risolte se ne è aggiunta una nuova, ed è quella rappresentata proprio dal loro resistere: l'ostinata volontà di continuare ad esserci e a contare, nonostante tutto, con le proprie caratteristiche peculiari.
Fotoreportage definiva 40 anni fa Toffoletti il suo lavoro. L'indicazione del 'genere' chiariva di per sé la scelta di fotografare e proporre al pubblico un problema, non un ambiente caratteristico, con i suoi personaggi, non un paesaggio tipico; già la definizione affermava il legame con la tradizione fotografica impegnata e rinnovata, che fra i suoi propositi aveva la scelta di dar voce ai mondi marginali e subalterni. "Persone e non personaggi", diceva uno slogan. E siccome, a differenza dei personaggi che recitano copioni altrui, le persone parlano di sé e per sé, ecco che la fotografia diventava operazione complessa e richiedeva non solo scatti, ma anche ascolto e dialogo, anche osservazione partecipante, come si direbbe in antropologia. Da qui la scelta conseguente di utilizzare come didascalie proprio spezzoni di dialogo colti dal vivo: frasi capaci di esprimere dall'interno le diverse sfaccettature del problema rappresentato dalla situazione in cui versavano le Valli del Natisone.
Una didascalia mi ha colpito particolarmente; è una frase colta da Toffoletti a Mersino, interessante già dal punto di vista linguistico per lo sforzo di traduzione che rivela dal dialetto in lingua, ma forte come un macigno perché ha a che fare con la dignità e tocca proprio quella questione della "resistenza" che giustifica 40 anni dopo la riproposta delle immagini di allora e del dibattito che ne derivò: "A me non mi dice nessuno lei, così io non ci ho nessun rispetto anche di nessuno, perché tutti mi chiamano tu. Un rispetto deve avere anche altri di me! Ci vorrebbe più soldi e più rispetto".
Anche in Friuli il Novecento è stato il secolo che ha visto costituirsi in maniera vigorosa, e a contrasto con un folklorismo di maniera sempre risorgente, l'intreccio complesso e obbligato fra una etnologia fatta di parole e una etnologia fatta di immagini. Non c'è ambito dell'etnografia regionale che possa prescindere dai corredi fotografici, talvolta in maniera diretta e privilegiata (le forme dell'insediamento, l'architettura tradizionale, gli arredi interni, i saperi tradizionali e gli strumenti di lavoro, le forme della socialità e della ritualità comunitaria), in altri ambiti in maniera più complessa. Lo si vede bene ora, dopo che negli ultimi anni si è sviluppato un intenso lavoro di inventario, catalogazione e riproposta di fondi fotografici: strumenti indispensabili per una fondata e perfino sofisticata descrizione etnografica, capace di cogliere le specificità interne e i processi di trasformazione che nel corso del Novecento hanno determinato la messa ai margini del genere di vita tradizionale.
Ma oltre l'etnografia? Lavorando alcuni anni fa proprio nel Cividalese e cogliendo dalla voce dei protagonisti il durissimo prezzo pagato per passare dai campi ai cementifici locali fotografati da Toffoletti nel loro desolato abbandono, l'antropologo Douglas R. Holmes scriveva: "Per chi viene da fuori, italiano o straniero, il Friuli" - e al suo interno la Benecia tanto più - "è una zona non molto nota, e nemmeno è stata spesso meta di antropologi. Non sono stati ancora formulati interrogativi antropologici per affrontare il suo ingannevole carattere" (Disincanti culturali. Contadini-operai in Friuli, 1991). E' vero; ma buoni interrogativi antropologici intorno al "carattere ingannevole" vengono indirettamente formulati proprio da fotografie come queste, interessate meno ai paesaggi, ai mestieri, agli oggetti e alle forme tipiche, e più ai problemi. Fotografie non reticenti, proposte sapendo di toccare nervi scoperti e di violare il tabù imposto dal "Vietato fotografare", sapendo di attirarsi l'accusa di parzialità.
Mi è difficile oggi decifrare completamente la natura originaria dell'operazione. In quel 1968, probabilmente, era più forte di quanto non possa essere oggi l'illusione di riuscire a far parlare attraverso le immagini una realtà oggettiva. Ma anche allora la natura stessa del fotografare, fatta di scelte, non poteva che lasciare fra le mani la consapevolezza delle tante selezioni messe in atto e la coscienza del peso della soggettività all'interno del proprio lavoro di fotografo, anche quando voleva essere di polemica documentazione. Il "realismo ingenuo" era semmai di altri, meno consapevoli che basta cambiare punto di vista e inquadratura per mutare il significato; altri che pretendevano una fotografia "utilizzata anziché come illustrazione, come documentazione assoluta di una realtà, necessaria e oggettiva alla stregua di una tavola di risultati statistici". Trovo l'affermazione nell'anomalo e provocatorio catalogo che accompagnava, nel novembre di quel 1968, la presentazione del fotoreportage di Toffoletti a Udine, nella Galleria del Centro.
A incorniciare alcune delle foto, in quel catalogo sta infatti un singolare Rapporto antropogeografico firmato dall'architetto Giovanni Pietro Nimis. Leggendolo, si capisce come - miscelato alle fotografie - abbia potuto innescare un dibattito dai toni accesi, di cui fortunatamente resta traccia scritta. Episodio interessante, e non secondario, del Sessantotto udinese. Sullo sfondo di immagini asciutte e di didascalie cariche di interrogativi impliciti ed espliciti (basterebbe il confronto con il ricco e articolato repertorio di fotografie delle Valli di Mario Magajna, in quello stesso periodo), il Rapporto di Nimis aggiungeva benzina al falò: un breve profilo storico, la scelta di Savogna come comune-campione a cui riferire una batteria impietosa di tavole statistiche relative alle variabili demografiche, una proposta di soluzione ancora più impietosa delle tabelle.
A leggere quelle pagine oggi, 40 anni dopo, non si capisce bene se si tratta di un'analisi-proposta seria, pensata e formulata in termini realistici, o non piuttosto di una provocazione giocata sul paradosso, come un pamphlet settecentesco carico di ironia nei confronti della supponenza efficientista e arrogante della political arithmetic: il Mandeville della Modesta difesa delle pubbliche case di piacere, o meglio ancora lo Swift della Modest Proposal, con il suggerimento di risolvere il problema della fame delle famiglie d'Irlanda con la trasformazione in cibo dei figli bastardi. Là il problema dell'incremento demografico a fronte della fissità delle risorse, qui il fenomeno opposto di un drammatico decremento demografico giudicato irreversibile: con la proposta - seria, temo - di uno "spopolamento organizzato", di una eutanasia programmata, luciferinamente razionale. Soluzione ideale? Intervenire col bisturi, disgiungendo: che finalmente si separino montagna e montanari; che i montanari residui vengano fatti arretrare con decisione sulla linea di pedemontana, a Cividale e dintorni, così da ricavarne quel che ancora si può di utile e garantire servizi altrimenti impossibili; che l'ambiente così liberato dalle servitù di una comunità umana comunque segnata, venga riorganizzato in funzione del bisogno di natura e del loisir cittadino: paesi che si fanno villaggio turistico, l'ambiente che si trasforma in parco, e quant'altro.

Si capisce la reazione preoccupata, fra gli abitanti delle Valli, di quanti pur sottoscrivendo la crudezza dell'analisi e le imputazioni di colpa, si battevano perché i paesi delle Valli continuassero a esistere e fiorire. Nella trascrizione del dibattito udinese di quell'inverno del Sessantotto, le righe più belle che leggo sono di Paolo Petricig: là dove, giocando sul filo dell'ironia, afferma che quello di Nimis era sì "un importante contributo", ma solo "fino alla penultima pagina".
A ben pensare, quattro decenni dopo la situazione non è molto cambiata, almeno in termini di dibattito. In mezzo restano le foto, a testimoniare la perdurante gravità dei problemi e il difficile processo che dovrebbe permettere di tenere i piedi nella modernità senza trovarsi spinti ancora di più verso i margini; su un lato continua a collocarsi lo sguardo lucido e impietoso dell'efficientismo economico e tecnico esterno (con i piedi ben saldi nella palude della indecisione politica); sull'altro resta lo "sguardo interno" altrettanto lucido, ma pietoso, di chi non è disponibile a procedere per disgiunzioni, ma crede invece e chiede maggior attenzione alle correlazioni fra i tanti fattori in gioco. Non si tratta soltanto di tabelle, elenchi di dati, numeri; ma persone, relazioni fra persone all'interno delle comunità e fra comunità e ambiente, memorie, paesaggio, saperi, narrazioni, lingua, musica, arte, inventiva, sapori, sensibilità religiosa, e tanto altro ancora.
Mutata è la situazione di contesto più larga. Chiudendo il bel volume del 2001, edito per sua cura dalla Cooperativa Lipa (Valli del Natisone - Nediške doline), dedicato proprio a una riproposta globale della storia e cultura della Valli nel segno del rifiuto delle disgiunzioni e dell'attenzione invece ai legami, ancora Paolo Petricig richiamava le novità più significative. Se l'episodio del '68 si collocava dentro un quadro incorniciato dalle speranze e dai progetti (e dalle illusioni) maturati a seguito dell'istituzione dell'autonomia regionale, ora si tratta di pensare e progettare avendo alle spalle il Trattato di Osimo e gli atti che seguirono, le normative sulle minoranze linguistiche, il terremoto del '76 e la ricostruzione, la caduta del muro di Berlino, l'indipendenza della Slovenia e il suo ingresso nell'Unione Europea. Tutte opportunità nuove e "congiuntive". Se alle spalle delle Valli c'è una storia segnata dall'incombere del confine, ora alla gente delle Valli è chiesto di pensarsi in modo nuovo, in assenza di confine. Una bella scommessa.
Intanto, come per il fotoreportage di Toffoletti, la sfida ai diversi livelli del "Vietato fotografare" e il bisogno di dar senso alle immagini attraverso il dialogo con le persone ha segnato in questi anni anche il percorso dell'antropologia alpina e della miglior geografia umana. A dare significato alla ricerca e a dare altra leggibilità ai documenti che ne derivano è ora un atteggiamento nuovo, che Mauro Pascolini, proprio in riferimento alle Nediške doline, sintetizza bene così: "Si è soliti sempre risalire le valli, percorrendo a ritroso il territorio, privilegiando una visione che dalla pianura si rivolge alla montagna e codificando così un atteggiamento che da sempre è stato presente e che in qualche maniera è diventato, specie negli ultimi anni, una spia della sudditanza della montagna verso la pianura, o meglio della dominanza della forza economica e talvolta culturale del piano verso il monte. Il tentativo è quello di invertire la prospettiva e quindi di leggere il territorio cercando prima di tutto di far riemergere il senso di appartenenza e di identità che i luoghi generano".
"Un rispetto deve avere anche altri di me!": l'orgogliosa affermazione colta 40 anni fa da Riccardo Toffoletti a Mersino, fra uno scatto e l'altro, resta lezione fondamentale per ognuno che voglia mettere piede da quelle parti e desideri coglierne l'anima orgogliosa.



Gian Paolo Gri, docente di Antropologia culturale all'Università di Udine

Arte a Illegio

4 luglio | 13 dicembre

Padri & Figli

Ad Illegio dal 4 luglio al 13 dicembre è protagonista la bellezza scomparsa e prodigiosamente riapparsa di straordinari capolavori della storia dell'arte. 

Una mostra frutto della partnership con Sky Arte, con Factum Arte di Madrid, e con Ballandi Arts.

A volte, specialmente quelle volte che giungono dopo una tempesta o quando svanisce una nebbia fitta e spaesante, volgere lo sguardo alle stelle, che trapuntano come brillanti l’abito nero indossato da una notte limpida, significa non soltanto ammirare il loro fascino: è vedere con commozione che la vita e la bellezza non s’arrendono.
La stessa commozione sorprenderà chi visiterà la mostra di Illegio, quest’anno, che non a caso porta un titolo capace di trapassare l’anima ancor prima di conoscerne le opere: «Nulla è perduto»È come un segno, un messaggio forte e appassionato in questo 2020, che vede tutti ancora in tensione per vincere la battaglia contro l’insidiosa pandemia Covid-19, ma anche per risollevare il morale delle persone, la vitalità dei paesi, la sorte di aziende, lavoratori ed economia, la capacità di dare nuova voce a cultura e turismo. 
Il principale motivo di stupore è che la mostra farà incontrare opere che non è più possibile vedere al mondo, eppure a Illegio si potranno vedere e toccare: opere distrutte o perdute, ma poi ritrovate o risorte. Alcune sono state rubate e non vi è ancora traccia di esse. Altre sono andate in cenere a causa di devastazioni o di incomprensioni. Altre ancora sono rimaste come immerse in un oblio di secoli, sebbene vi fosse notizia della loro esistenza che, da un certo punto in poi, aveva fatto perdere le tracce di sé.
Verranno esposti anzitutto sette capolavori inestimabili e smarriti per sempre, ma tornati alla luce grazie alle tecnologie di Factum Arte, l'organizzazione diretta da Adam Lowe a Madrid e dedicata a valorizzare l'arte con arte. Attraverso l'impegno di una squadra di storici, artisti, restauratori ed esperti di software 3D, le sette opere sono tornate in vita sotto forma di rimaterializzazioni capaci di restituire ogni dettaglio degli originali scomparsi, compresa la tridimensionalità delle pennellate sulla superficie pittorica, con una resa che ha dello spettacolare e pare arduo distinguere dal dipinto originale.
 Attraverso l'impegno di una squadra di storici, artisti, restauratori ed esperti di software 3D, le sette opere sono tornate in vita sotto forma di rimaterializzazioni capaci di restituire ogni dettaglio degli originali scomparsi, compresa la tridimensionalità delle pennellate sulla superficie pittorica, con una resa che ha dello spettacolare e pare arduo distinguere dal dipinto originale. Grazie alla collaborazione con Sky Arte e con Ballandi Arts e all'avanzata tecnologia di Factum Arte, visitare la mostra di Illegio permetterà di riavvicinarsi fisicamente al Concerto a tre, di Johannes Vermeer (rubato all’Isabella Stewart-Gardner Museum di Boston nel 1990) a La Torre dei cavalli azzurri, di Franz Marc (sequestrato dal criminale nazista che tentò di succedere a Hitler, Hermann Göring, e scomparso nel 1945) a Myrto, realizzato da Tamara de Lempicka come suo autoritratto alla fine degli anni Venti, nella Parigi in cui si era trasferita dalla nativa San Pietroburgo (poi custodito in una villa parigina dove si presume sia stato rubato dai nazisti nel 1943) al Vaso con cinque girasoli, di Vincent van Gogh, distrutto nel bombardamento di Ashya, nei pressi di Osaka in Giappone, contemporaneamente allo sganciamento della bomba atomica su Hiroshima alla tela dedicata alla Medicina, dipinta da Gustav Klimt per il soffitto dell’Università di Vienna e bruciata nel 1945 dai nazisti ormai sconfitti nello Schloss Immendorf in Austria (e ad Illegio l’opera miracolosamente rimaterializzata sarà appunto visibile a soffitto) a una delle grandi tele raffiguranti Ninfee, di Claude Monet, carbonizzato in un incendio divampato al MoMa di New York nel 1958 e all’intenso ed evocativo Ritratto di Sir Winston Churchill, opera realizzata nel 1954 da Graham Sutherland, ma fatta distruggere da Lady Clementine Churchill un anno dopo.
Accanto a queste sette opere, che si possono quasi definire apparizioni dall’al di là, la mostra «Nulla è perduto» comprende altri due casi di grande fascino, che il visitatore potrà ammirare grazie a veri e propri artisti nostri contemporanei attraverso le cui mani artisti dei secoli passati possono rigenerare determinati capolavori. Nella Flakturm Fredrichschein di una Berlino ormai conquistata dall’Armata sovietica, ad esempio, tra il 5 e il 10 maggio 1945 sembra essere svanita tra le fiamme, insieme a numerosi altri tesori d’arte, una tela dipinta da Michelangelo Merisi detto Caravaggio, il San Matteo e l’angelo realizzato entro fine maggio del 1602 per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma. L’artista Antero Kahila, di Helsinki, ha compiuto tra il 2003 e il 2008 un personale e paziente cammino di ricerca sulla tecnica e sul linguaggio di Caravaggio, per riuscire infine nell’impresa di rimaterializzare il San Matteo perduto, filologicamente, pennellata dopo pennellata, con un risultato impressionante. Nella mostra di Illegio, oltretutto, l’opera sarà esposta affiancata alle due enormi riproduzioni della Vocazione e del Martirio di San Matteo, sempre dipinte da Caravaggio, in modo da ricostruire l’originario progetto dell’artista per la Cappella Contarelli.
Veri e propri prodigi di luce e colore, invece, sono le vetrate della facciata principale della Cattedrale di Chartres, rimaterializzate nel laboratorio di San Bellino di Rovigo da Sandro Tomanin e dai suoi collaboratori, non perché scomparse o distrutte ma perché a causa della loro collocazione architettonica non potranno mai essere esposte in una mostra o ammirate da vicino nei dettagli.
Inoltre, nella mostra «Nulla è perduto» vengono esposte opere d’arte originali, inghiottite dall’oscurità per lungo tempo e recentemente ritrovate. Tra esse, vanno ricordate le due sculture lignee intagliate e dorate da Domenico Mioni detto Domenico da Tolmezzo, raffiguranti San Vito e San Maurizio, realizzate tra il 1492 e il 1498 proprio per l’ancona lignea della Pieve di San Floriano di Illegio, ma rubate nel 1968, ricomparse sul mercato antiquario a Bonn nel 2018 e ora felicemente ritornate nel loro paese.
Infine, un’ultima opera di inestimabile importanza, di cui si conosceva l’esistenza e una parte della vicenda, poi persa di vista per secoli e finalmente individuata ed accompagnata da una accuratezza di studi che non lascia più alcun dubbio, verrà esposta ad Illegio nella mostra «Nulla è perduto»: di essa, a firma di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, verrà data pubblica notizia a pochi giorni dall’inaugurazione della mostra stessa.

LA MOSTRA

Alcune opere


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+39 0433 44445
mostra@illegio.it

Consigliata per chi vuole visitare la mostra di sabato o domenica.Obbligatoria per i gruppi o per richieste speciali (visita alla Pieve, celebrazioni liturgiche, indicazioni per pranzo o cena).
Visite guidate
Le visite guidate sono offerte sempre a tutti, comprese nel prezzo del biglietto.
Sono previste visite guidate in lingua tedesca previa prenotazione.
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BENEČIJA Tornano in auge i metodi della Guerra fredda?

Continua a fare discutere la vicenda della falsa firma a una lettera di denuncia indirizzata al sindaco di Grimacco, Eliana Fabello, ai carabinieri e all’Asl di Cividale. Coinvolti, come abbiamo scritto nello scorso numero, oltre al primo cittadino (anche perché ad essere citato nella lettera, come proprietario di un cavallo che non sarebbe stato in buone condizioni sanitarie, era il marito della Fabello) e il circolo di cultura sloveno Rečan, la cui carta intestata e la firma del presidente sono stati falsificati. «Il fatto suscita preoccupazione ed allarme all’interno della comunità – ha fatto sapere in una nota il circolo – che si chiede per quale motivo l’autore della denuncia abbia voluto coinvolgere nella vicenda l’associazione culturale che opera sul territorio da oltre 50 anni. Tornano in auge i vecchi metodi e le campagne antislovene del periodo della Guerra fredda? Di estrema gravità anche il fatto che sia stata falsificata la firma del suo presidente. La vicenda avrà un risvolto giudiziario in quanto il circolo ha dato incarico ad un legale di presentare denuncia alla Procura di Udine». Da parte sua Fabello giudica la falsa missiva come «una vigliaccata che ha tentato di colpire me e anche il circolo». Aggiunge il sindaco: «Appena ricevuto la lettera, leggendo il contenuto ho subito immaginato che non poteva essere scritta dal presidente del circolo Rečan, Gianni Floreancig, perché si tratta di una persona seria, con cui ho rapporti di amicizia, e come è sempre stato con tutti i miei cittadini ci sarebbe senz’altro stata un’anticipazione telefonica. Cosa persegua una persona che dice il falso e firma falsamente, non lo so, ma sicuramente ha bisogno di aiuto e senz’altro non sta bene con sé stesso, quindi se non ci fosse il caso grave dell’appropriazione dell’identità del circolo, che ha già provveduto a fare i suoi passi, non meriterebbe neanche di essere presa in considerazione. Comunque – conclude il sindaco – c’è stato il controllo dell’Ufficio sanitario veterinario, che non ha rilevato irregolarità e non ha avuto nulla da dire sul benessere del cavallo perché gode di ottima salute, spero così di aver tranquillizzato tutte le anime preoccupate». (Novi Matajur, 13. 5. 2020)

Inviano una lettera di denuncia, ma la firma del presidente del circolo è falsa

GRIMACCO – GARMAK

da wikpedia
 Inviano una lettera di denuncia, ma la firma del presidente del circolo è falsa Una vicenda dai contorni poco chiari, di certo inquietante, quella avvenuta nei giorni scorsi a Grimacco. Il 29 aprile il Comune ha protocollato una lettera di denuncia inviata al sindaco, Eliana Fabello, al Comando dei Carabinieri di Cividale e al distretto Asl di Cividale. La lettera indica come luogo del mittente Clodig, come data il 24 aprile e come oggetto «Contenimento epidemico COVID-19». Nella breve missiva si evidenzia come a Clodig, proprio di fronte alla locale caserma dei carabinieri, presso una casa privata, un cavallo sia tenuto in pessime condizioni sanitarie. Chi scrive si preoccupa affinché, vista la problematica legata all’emergenza coronavius, le autorità competenti provvedano all’allontanamento del cavallo dal centro abitato. Il problema è che la lettera ha come mittente il circolo culturale Rečan, e la firma è quella del presidente del circolo. O meglio, non lo è. Perché il presidente del circolo Rečan, Gianni Floreancig, quella lettera non l’ha mai scritta, firmata e inviata. Si tratta di un’intestazione e di una firma falsi. Quando il sindaco Fabello ha chiesto delucidazioni ai rappresentanti del Rečan è scoppiato il caso, visto che non ne sapevano nulla. Nei giorni scorsi attraverso un avvocato il circolo ha presentato denuncia contro ignoti alla Procura di Udine. La vicenda avrà quindi risvolti giudiziari. In essa va tenuto conto di almeno due aspetti: chi ha scritto la lettera probabilmente conosce l’ambiente sloveno, ma non troppo (nell’intestazione ha scritto erroneamente ‘slovenško’ invece di ‘slovensko’), inoltre il sindaco Fabello è chiamata in causa anche personalmente, visto che la persona proprietaria del cavallo e citata nella lettera è suo marito. L’Unione culturale economica slovena-Skgz e l’Unione dei circoli culturali sloveni-Zskd hanno indirizzato una lettera al prefetto di Udine, Angelo Ciuni, affinché esamini il caso e agisca in modo che non se ne ripetano di simili. Una simile richiesta è stata inoltrata anche alla sindaca Fabello. (Dal Novi Matajur del 6. 5. 2020 e dal Primorski dnevnik del 10. 5. 2020)

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